In questo approfondimento sui “vinti”, che si sta dipanando a più voci nelle ultime settimane su transform!italia, e in vista del webinar sul tema del 15 febbraio 2022 (in diretta sulla pagina FB), è quasi automatico cogliere lo spunto fornito dalla vicenda di Tommaso Aniello d’Amalfi, meglio conosciuto come Masaniello, il popolano protagonista della rivolta napoletana che vide, dal 7 al 16 luglio 1647, che vide la popolazione della città insorgere contro la pressione fiscale imposta dal governo vicereale spagnolo. Un uomo che possiamo ben annoverare fra i “vinti”, sia per la sua vicenda personale che lo portò rapidamente alla morte violenta, sia per la vicenda storiografica che ne è seguita, fino a fare nell’800 un simbolo di quel Romanticismo italiano “minore”, utile ad offrire un contributo alla causa risorgimentale del paese, facendolo assurgere a simbolo del trinomio patria-nazione-libertà. Una vicenda emblematica di quel susseguirsi di rivolgimenti sociali che tende a travolgere i più deboli. Una serie di eventi imprevedibili che poi quasi inevitabilmente getta in conclusione i personaggi nel mucchio dei “vinti”.
Masaniello fu infatti simbolo e artefice della rivolta napoletana scatenata dall’esasperazione delle classi più umili verso le gabelle imposte dai governanti sugli alimenti che provocarono dieci giorni di rivolta e che costrinsero gli occupanti spagnoli ad accettare le rivendicazioni popolari. Un emblema dell’opposizione agli spagnoli e al loro governo coloniale corrotto, fatto di insopportabile fiscalismo e formalismo e braccio armato della Chiesa controriformista. Masaniello fu subito dopo questi fatti accusato ufficialmente di pazzia ed ucciso per volere del viceré e con la complicità di alcuni capi popolari.
Nonostante la breve durata, la ribellione da lui guidata indebolì il secolare dominio spagnolo sulla città, aprendo la strada per la proclamazione dell’effimera e filofrancese Real Repubblica Napoletana, avvenuta cinque mesi dopo la sua morte.
Nell’Italia della prima metà dell’800 divenne perciò facile, quasi automatico, per i patrioti che combattevano per l’indipendenza, la libertà e l’unità nazionale, il parallelo fra oppressori spagnoli e austriaci ed assimilare la rivolta del Seicento ai primi afflati risorgimentali, usandone il mito in chiave antiborbonica.
Peccato però che, unità d’Italia a parte, il paragone fosse ardito, visto che gli austriaci erano presenti solo al Nord, essendo già da tempo stati sconfitti e cacciati dal Sud nella battaglia di Bitonto, combattuta nel 1734, con la disfatta dell’esercito austriaco e la vittoria di Carlo di Borbone che permise al Regno di Napoli di affermarsi come stato indipendente e sovrano.
Può essere utile ricordare che la forza evocativa di Masaniello e della sua ribellione era in quel periodo così forte che fece presa anche fuori d’Italia per incitare alla rivoluzione nazionale e alla lotta di liberazione dall’oppressione straniera. Ad esempio in Belgio la nascita del Paese e la sua indipendenza è dovuta a un evento che oramai in pochi ricordano: la rappresentazione il 25 agosto del 1830 della commedia La muta di Portici di Daniel Auber, in cui è protagonista proprio Masaniello. Nell’opera di Auber, quando il tenore francese Adolphe Nourrit intonò l’Amour sacré de la Patrie, il tenore che interpretava Masaniello si fece prendere così tanto dallo spirito della canzone e del tempo che uscì dal teatro seguito da tutto il pubblico, al corteo si unirono i lavoratori che stavano protestando contro l’opprimente autorità olandese. È un fatto storico quindi che il Masaniello di Auber fu la scintilla che portò all’indipendenza, dopo svariate traversie, pochi mesi dopo, nel gennaio del 1831.
Anche nel caso dei belgi si trattava di “vinti”, ma non più rassegnati alla miseria a cui erano costretti dagli olandesi, ed impegnati a combatterla collettivamente, fino ad essere inclusi nel mondo dei “vincitori”. Questi due aspetti sono stati fra loro sinergici nel corso dell’800 e del ‘900 portando ad una prima fase di rivolte a livello europeo e italiano per combattere lo stato di miseria e di abietto sfruttamento da parte delle classi dominanti, nazionali e straniere, per poi sfociare nella seconda parte del secolo scorso nella creazione dei sistemi pubblici di welfare e una maggiore pace sociale.
Masaniello, e meglio ancora la sua raffigurazione, conteneva tutti i requisiti per far presa sia sui ceti intellettuali sia su quelli popolari del tempo. I primi apprezzavano il suo essere il braccio ribelle , solo finchè utile, manovrato da menti più raffinate, ai secondi piaceva perché era uno di loro, si potevano identificare nei suoi valori e nella sua forza ed esprimeva e rappresentava le loro necessità concrete, fra cui l’indipendenza e la libertà.
Il mito di Masaniello fu così megafono utile alla propaganda per costruire l’unificazione del paese su miti positivi. Col suo carisma, col suo percorso da popolano a leader politico, con la sua integrità morale, con la sua carica contagiosa di amor patrio, inteso nella prima parte dell’800 come utile antesignano della napoletana indipendenza, utile alla cacciata dei Borbone in chiave unitaria.
Peccato che dopo l’unità italiana ben presto dopo averlo usato, la leggenda di Masaniello venne tradita e declinò velocemente, non essendo più utile, anzi dannosa, visto la costante deriva antimeridionale dello Stato savoiardo. Dal Brigantaggio ai giorni nostri le discriminazioni antimeridionali hanno accompagnato il cammino del paese fino a sfociare nei giorni nostri nell’evidenza di un “razzismo di Stato”, utile a sfruttare la colonia interna estrattiva meridionale per permettere al capitalismo padano di restare agganciato alle Regioni ricche del Nord Europa. A tal proposito, per restare solo all’attualità, basta verificare cosa sta succedendo con l’Autonomia differenziata o con le quotidiane distrazioni dei fondi del Pnrr teoricamente destinati al Sud. Altro che soluzione della “Questione meridionale”. Masaniello torna così ad essere solo un popolano napoletano, un pescivendolo pazzo, da buttare nel mucchio dei “vinti”. Ormai senza gloria, quando raramente appare, viene presentato solo in funzione negativa, quasi sia solo un Pulcinella sconfitto. Evidentemente mantiene ancora intatta la sua carica di pericolosità per il potere, con il suo mito di liberatore dall’oppressione, soprattutto per chi è interessato a mantenere lo status quo odierno che vede il Mezzogiorno esclusivamente come colonia. È quindi un mito, perdente ma non ancora del tutto perduto, da infangare.
Come scrivevo nel centenario di Verga sempre per transform!italia, sotto altre spoglie anche in Masaniello riecheggia in parte la sindrome dei Malavoglia: la costante vulnerabilità esistenziale rispetto a eventi imprevedibili. E, come ai tempi del quadro il Quarto stato di Pellizza da Volpedo, questa vulnerabilità è distribuita in modo fortemente diseguale. Le opportunità si concentrano solo in un “Primo Stato”, mentre i rischi tendono sempre a concentrarsi nel “Quarto Stato”, spesso privo di risorse sufficienti e con alte probabilità di rimanere intrappolato nella deprivazione e nella marginalità.
Ai nuovi “vinti”, antichi ed attuali, del Sud non resta che cercare un futuro verso l’estero, visto che in Italia semplicemente non c’è e non c’è nessuna volontà di progettarlo dato il disinteresse totale dei circoli e camarille di potere finanziario, politico e mediatico. Assistiamo così a una pura e semplice, quasi compiaciuta, dissoluzione del Paese verso il nulla, anche nella distruzione dei suoi miti fondanti come nel caso di Masaniello o, allargando la prospettiva, come nel caso dei “Beni comuni” che creano anch’essi uno strumento e un ponte tra passato e futuro, con la loro possibilità di trarre utilità dall’ambiente e da un bene pubblico senza depauperarlo e rispettandone la vocazione naturale, mezzo di difesa della cultura e dell’identità abitativa, al di là del ruolo storico che hanno svolto in passato di assicurare i mezzi di sussistenza materiale alle popolazioni locali. Un argine alla progressiva liberazione dai vincoli umani e territoriali che ha portato nel tempo alla distruzione della memoria di un territorio, privato di quel rapporto durevole tra la società insediata e l’ambiente. Beni comuni oggi sotto attacco diretto del governo in nome delle privatizzazioni che renderanno presto il paese da Nord a Sud, come in un riciclo di un paradosso insostenibile, un unico ed indistinto “non-luogo”.
Come uscirne e come affrancare le generazioni dei “vinti” è l’obiettivo che una sinistra non compromessa unita al meridionalismo progressista deve darsi rapidamente, proprio partendo da Sud, per dare non solo una spallata alla situazione politica esistente, ma anche per porre basi concrete e durature ad una nuova stagione politica che eviti al paese, soprattutto dopo la parabola del M5S, di cadere in una sorta di sindrome di Masaniello, beninteso quella della sua personale vicenda storica di breve durata. Perché come ricorda lo scrittore Domenico Rea, “Masaniello rappresenta perfettamente una delle caratteristiche estreme dei napoletani [ma io aggiungerei “e degli italiani”], il raptus furioso, che può essere terribile, ma è sempre, ahimè, di breve durata” e questi raptus di breve durata vengono poi sfruttati per fini nascosti ed egoistici, come nella vicenda personale di Masaniello, da “poche mani, non sorvegliate da controllo, che tessono la tela della vita collettiva”.
Fonte: https://transform-italia.it/non-fare-la-fine-di-masaniello/
Nessun commento:
Posta un commento