di Bruno Pappalardo
Bianco, come la tua camicia sbottonata.
Forse aveva con risolutezza fatto scivolare la cravatta dal collo e avvoltolandola intorno alle dita suggerito a Francesca di ficcarla nella borsa. Bianca, …gli piaceva quella Croma,; Volle guidarla.
Marrone come le aspre curve degli insubordinati corpi di ulivi intorno. “Non c’è pace fra gli ulivi!” dovette dirsi forse dopo il fragore.
Azzurro come quel cielo quel pomeriggio del 23 maggio 1992 a Capaci.
I tre colori delle auto irradiavano glauca luce, vita, spandevano anche l’afrore del bitume degli aridi asfalti.
Intorno il vento dei profumi, al vento del meriggio di quel spazio, il vento rimescolato da sereni gridi di verdi volti di contadini troppo stanchi che tornavano distante da quel luogo segreto.
Un cratere, rami subitamente neri, terra iridescente resa come largo lago di velo corvino. Brusca la l’interruzione. Marrone, verde, comando, lapilli, vampe, voragine antracite, crosta di profumi misto a carne bruciata. Dietro il giallo di un albero lontano il Rosso potente della disfatta.
Non era morto ma si lasciò andare poggiando la testa sul finestrino di guida.
Già, “ si lasciò andare tra la pace degli ulivi” . Era forse stanco o ferito a morte?
Suonò la vecchia campana?
Quel giorno mutò Roma?
Quel giorno mutammo tutti. …Vero? Tutti insieme a quella luce irriverberante polvere grumosa in quel cielo fosco? Cambiò l’Italia?
Diceva: “Gli uomini passano, le idee restano. Restano le loro tensioni morali e continueranno a camminare sulle gambe di altri uomini”
Giunse dal Nord altro vento. L’oblio!
Forse aveva con risolutezza fatto scivolare la cravatta dal collo e avvoltolandola intorno alle dita suggerito a Francesca di ficcarla nella borsa. Bianca, …gli piaceva quella Croma,; Volle guidarla.
Marrone come le aspre curve degli insubordinati corpi di ulivi intorno. “Non c’è pace fra gli ulivi!” dovette dirsi forse dopo il fragore.
Azzurro come quel cielo quel pomeriggio del 23 maggio 1992 a Capaci.
I tre colori delle auto irradiavano glauca luce, vita, spandevano anche l’afrore del bitume degli aridi asfalti.
Intorno il vento dei profumi, al vento del meriggio di quel spazio, il vento rimescolato da sereni gridi di verdi volti di contadini troppo stanchi che tornavano distante da quel luogo segreto.
Un cratere, rami subitamente neri, terra iridescente resa come largo lago di velo corvino. Brusca la l’interruzione. Marrone, verde, comando, lapilli, vampe, voragine antracite, crosta di profumi misto a carne bruciata. Dietro il giallo di un albero lontano il Rosso potente della disfatta.
Non era morto ma si lasciò andare poggiando la testa sul finestrino di guida.
Già, “ si lasciò andare tra la pace degli ulivi” . Era forse stanco o ferito a morte?
Suonò la vecchia campana?
Quel giorno mutò Roma?
Quel giorno mutammo tutti. …Vero? Tutti insieme a quella luce irriverberante polvere grumosa in quel cielo fosco? Cambiò l’Italia?
Diceva: “Gli uomini passano, le idee restano. Restano le loro tensioni morali e continueranno a camminare sulle gambe di altri uomini”
Giunse dal Nord altro vento. L’oblio!
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