giovedì 14 agosto 2014

PONTELANDOLFO 14 agosto 1861

Antonio Ciano, nel 1996 pubblicò “I Savoia e il massacro del sud”. Fu subito best seller. 
Per la prima volta,dopo Il De Sivo e Alianello, si parlava dell’eccidio di Pontelandolfo e Casalduni; questa volta,però,  Ciano ne ha descritto dettagliatamentre e, in modo cronologico, gli avvenimenti che portarono i savoiardi a massacrare le due città sannite. 
Da allora tanti giornalisti e scrittori hanno attinto alla cronaca degli avvenimenti fatta da Ciano.Lo scrittore gaetano ha dato dignità al Sud, ha chiamato criminali di guerra i piemontesi,ha chiamato  partigiani i contadini chiamati briganti dagli invasori. Difendevano la loro Patria di allora: il Regno delle Due Sicilie e le loro donne, spesso violentate dalla truppa.
PONTELANDOLFO  14 agosto 1861
«Fenesta ca lucive e mò nun luce!»
Erano le 03,30del 14agosto e Rosina, la donna di Martummé,
s’era alzata presto per lavare la biancheria. Mentre lavava i panni
ele lenzuola, cantava sottovoce la bella aria napoletana attribuita
aVincenzo Bellini. A quell’ora dormivano quasi tutti, solo qualche contadino era in piedi per pulire la stalla.
Rosina era felice, amava  Martummé e pensava che l’antico ordine stava per ristabilirsi. Finalmente avrebbe potuto rifarsi una
vita sposando il suo amato.
A Pontelandolfo come in quasi tutti i paesi del Molise, degli
Abruzzi, della Ciociaria, del Matese, del Chietino, degli Ausoni,
la bandiera gigliata sventolava sui pennoni più alti. Tutto un popolo era insorto contro il Piemonte, contro Vittorio Emanuele II.
Solo pochi volevano essere servi di uno Stato ritenuto il più retrivo e reazionario d’Europa. Qualcuno propendeva per la repubblica che Mazzini sognava, ma tutto il popolo contadino stava dalla
parte dei Borbone. La libertà, la gente del Sud, l’ha sempre conquistata col sangue.
Su ordine del generale Cialdini il 13agosto partì da Benevento una colonna di bersaglieri, tutti tiratori scelti. La colonna era
comandata dal generale Maurizio De Sonnaz, detto Requiescant
per le fucilazioni facili da lui ordinate e per il massacro di parecchi
preti e l’attacco ad abbazie e chiese. Il generale piemontese era a capo di novecento bersaglieri assassini e criminali di guerra. Costoro avevano fucilato e violentato
migliaia di Meridionali, avevano saccheggiato chiese e casolari.
I piemontesi, barbari cisalpini e feroci assassini, usarono sistematicamente la violenza per avere il controllo del territorio; usarono la fucilazione come arma di democrazia liberale. Saranno maledetti per sempre da Dio e dagli uomini.
Il colonnello Negri procedeva a cavallo, con al suo fianco il
garibaldino del luogo De Marco e due liberali pure del posto a far
da guida ai cinquecento bersaglieri, che costituivano la colonna
infame che stava dirigendosi verso Pontelandolfo. Era l’alba del
14 agosto. A tutto si poteva pensare fuorché a un eccidio, che, a
memoria d’uomo, da quelle parti, nessuno ricordava.
Alla stessa ora un’altra colonna, sozza quanto la prima, stava
dirigendosi verso Casalduni. Era composta da quattrocento uomini
e aveva per guida il liberal massone Jacobelli, traditore del popolo e servo dei piemontesi; a comandarla era il maggiore Melegari.
Entrambe le colonne erano coordinate dal De Sonnaz.
Gli ordini di Cialdini erano precisi: distruggere i due paesi e
dare una lezione esemplare ai cafoni; dovevano pagare con la morte la sfida fatta al potente Piemonte.
L’intera popolazione di Pontelandolfo doveva pagare per la
fucilazione dei soldati del tenente Bracci. De Sonnaz era lì per
questo.
La banda di Cosimo Giordano bivaccava a un chilometro da
Pontelandolfo, nella selva, tra i monti che dominavano la città sannita. I partigiani avvertiti dai pastori e dal loro servizio di informazione capillare, s’erano appostati per tendere un agguato ai piemontesi, ma erano solo cinquanta, e Martummé era tra essi. Erano
tutti armati di fucili e provvisti di cavalli freschi e veloci, pronti
alunghe cavalcate per scoscesi sentieri. Martummé, avvistata la
colonna piemontese, si rivolse al suo capo: Mimi, so no parecchi,
forse seicento, non possiamo sostenere uno scontra frontale con
quei porci bastardi.
Giordano: «Martummé, non dobbiamo sostenere scontri diretti, useremo la tattica usuale, quella del tuo paesano Frà Diavolo,
guerriglia! Spariamo e fuggiamo! Se sono uomini con le palle i
piemontesi ci inseguiranno: e se lo faranno, moriranno tutti. Quei
bastardi sono abituati a combattere contro vecchi e bambini, non
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za cercava di slegarsi, usava tutte le sue forze, cercava di liberarsi
dalla fune che lo teneva inchiodato al palo, e nello sforzo il sangue
usciva dalla sua pelle. A dare fine al suo tormento e alla sua pena
pensarono i bersaglieri con una scarica micidiale. Le pallottole ruppero perfino la fune e Nicola Biondi cadde carponi nei pressi della
diletta figlia Concettina.
Nella casa accanto abitava Santopietro; con il figlio in braccio,
stava per scappare, ma fu intercettato dai soldati savoiardi, che gli
strapparono il bambino dalle mani e lo freddarono senza misericordia. Il maggiore Rossi, con coccarda azzurra al petto, era il più
esagitato; dava ordini, gridava come un ossesso, sembrava ubriaco,
forse lo era, sembrava un vampiro. Era assetato di sangue e con la
sciabola infilzava i fuggitivi mentre i suoi sottoposti non erano da
meno, sparavano, sparavano, sparavano.
Icadaveri erano tanti, ma per il colonnello Negri non bastanti per la vendetta e allora ancora a snidare i pontelandolfesi dalle
loro case. A un certo punto Negri gridò: «Questo paese ha seimila
abitanti, li voglio tutti morti! Sono tutti contadini, perciò briganti equindi  nemici dei Savoia, nemici del Piemonte, nemici dei
bersaglieri, nemici del mondo. Essere nemici della nostra patria
è peccato mortale. Morte ai cafoni, morte a questi terroni figli di
puttana, andateli a scovare nelle loro tane, nei loro nascondigli,
nei pozzi, nelle cisterne. Ammazzateli tutti, senza pietà, uomini,
donne, vecchi e bambini, non voglio testimoni, diremo che sono
stati i briganti.»
Angiolo De Witt, del 36°fanteria bersaglieri così ha descritto
quell’episodio:
Il maggiore Rossi ordinò ai suoi sottoposti l’incendio e lo
sterminio dell’intero paese. Allora fu fiera rappresaglia di sangue che si posò con tutti i suoi orrori su quella colpevole popolazione. I diversi manipoli di bersaglieri fecero a forza snidare
dalle case gli impauriti reazionari del giorno prima, e quando
dei mucchi di quei cafoni erano costretti dalle baionette a scendere per la via, ivi giunti, vi trovavano delle mezze squadre di
soldati che facevano una scarica a bruciapelo su di loro.
Molti mordevano il terreno, altri rimasero incolumi, i feriti rimanevano ivi abbandonati alla ventura, e i superstiti erano obbligati a prendere ogni specie di strame per incendiare le loro catapecchie. Questa scena di terrore durò un’intera giornata: il
castigo fu tremendo.
Non sappiamo se il maggiore Rossi, il colonnello Negri e il
generale De Sonnaz ebbero una medaglia al valore per quell’azione ardimentosa, ma una cosa è certa: questi assassini, questi criminali di guerra sono stati fatti passare per eroi dalla storiografia
ufficiale sabaudo risorgimentale, molte strade e molte piazze sono
ancora oggi a loro intitolate:
via Rossi, maggiore ed eroe di Pontelandolfo;
via Gaetano Negri, sindaco di Milano ed eroe di Pontelandolfo;
via De Sonnaz, conte e generale piemontese, eroe di Casamari,
Perugia e Pontelandolfo;
via Cialdini, eroe di Gaeta, di Pontelandolfo, Casalduni, Venosa, Montefalcione, Auletta, ecc., ecc.
Ecco come il grande Piemonte portava i segni della civiltà cisalpina nella culla della barbarie; ecco come i Savoia intendevano
l’unità d’Italia!
Il generale Cialdini aveva sempre una coccarda azzurra al petto e dava ordini dalla sua luogotenenza di Napoli al generale De
Sonnaz, altro azzurro con coccarda. Il De Sonnaz a sua volta trasmetteva gli ordini assassini al colonnello Negri, anche lui incoccardato con grande stoffa di seta azzurra, che a sua volta illuminava di disposizioni il maggiore Rossi, che amava incendiare interi
paesi e sparare su donne e bambini col suo revolver, anche lui incorniciato dalla coccarda azzurra, come incoccardati erano tutti i bersaglieri, compreso il De Witt. Ebbene, questi delinquenti di
guerra, questi bastardi del risorgimento italiano stavano portando a compimento l’ennesimo truculento eccidio con forsennata ferocia e senza pietà alcuna verso una popolazione fiera del suo Re Borbone, fiera della sua dignità, fiera della sua libertà, fiera della sua storia, fiera di essere italiana, fiera della sua religione, fiera di battersi per l’Altare e per il trono del suo Re. Quando mai gli austriaci
nel Lombardo-Veneto usarono simili metodi? Gli austriaci erano
162
(59) Angiolo De Witt, Storia politico-militare del brigantaggio nelleprovince meridionali d’Italia,
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tedeschi, cattolici e soprattutto erano soldati e si battevano contro
soldati, erano un popolo civile e fiero. I piemontesi, che i romani
avevano accomunati all’Italia, come Caino, stavano assassinando e
massacrando i loro fratelli napoletani.
L’eccidio cominciò alle quattro di mattina. I partigiani, che
erano accampati sulle Campetelle, dopo aver ammazzato venticinque piemontesi, diedero l’allarme. Uno di essi riuscì ad andare dal
sagrestano, prese la chiave del portone del campanile e cominciò a
suonare a stormo le campane…
Il paese venne dato alle fiamme, la prima casa che bruciò fu
quella dell’arciprete Epifanio De Gregorio.
Un solo guerrigliero fu ucciso (presumibilmente il partigiano
che era andato a suonare l’allarme sul campanile). Dopo i soldati
si abbandonarono al saccheggio e ad atti di lascivia…
Alle ore sei metà paese era già in fiamme, i bersaglieri continuarono la mattanza.
Ancora uccisioni, stupri, fucilate, grida, urla. I vecchi venivano
fucilati subito e così i bambini che ancora dormivano nei loro letti.
Molti bersaglieri, avendo finito le munizioni in dotazione, per non
tornare a rifornirsi al campo base situato fuori il paese, usavano la
baionetta in canna al fucile e passavano all’arma bianca i poveri
disgraziati di Pontelandolfo. Dopo aver ammazzato i proprietari
delle abitazioni, le saccheggiavano: oro, argento, soldi, catenine,
bracciali, orecchini, oggetti di valore, orologi, pentole e piatti.
Pochi di quegli eroi conoscevano la lingua italiana, e la maggior parte dei soldati piemontesi, analfabeti e ignoranti, qualche
parola l’avevano imparata al di qua del Tronto, comunque una parola sapevano pronunciare: «Piastre! Piastre!», dicevano entrando di prepotenza nelle case dei pontelandolfesi: «Dove avete le piastre, piastre o morte.» I barbari non si accontentavano delle piastre d’argento borboniche, bruciavano anche le case e ammazzavano senza pietà i loro occupanti.
La morte, a volte, valeva una, due, tre piastre. Intanto il sangue scorreva a fiumi per le strade di Pontelandolfo. Prima a essere
saccheggiata fu la chiesa di San Donato, ricca di ori, di argenti, di bronzi lavorati, di voti: persino le statue dei santi furono trafugate! Il saccheggio e l’eccidio durarono l’intera giornata del 14agosto 1861.
Donne seminude, sorprese mentre dormivano, cercavano scampo fuggendo; ma, se vecchie, venivano subito infilzate, se giovani
E avvenenti, venivano violentate e poi uccise.
Due dei giovani, che erano stati salvati dal De Marco in quanto liberali, nel vedere tanta barbarie e tanto accanimento contro i
Loro concittadini e contro la loro città, dopo essersi consultati col
proprio padre, si diressero verso il colonnello Negri. Non avrebbero dovuto!
Idue giovani avevano appreso le idee liberali frequentando circoli culturali a Napoli, sognavano un’Italia Una, libera, indipendente; sognavano la fratellanza. La loro adesione al liberalismo fu
vanificata da quelle scene di terrore e di orrore; di colpo s’accorsero che il re sabaudo era un macellaio e che il vero liberale era il
Re Borbone.
Il più giovane dei due aveva finito da poco gli studi all’università di Napoli e stava per cimentarsi nella libera professione
dell’avvocatura; il più grande era un buon commerciante a Pontelandolfo.
I due benpensanti liberali pontelandolfesi furono accompagnati al cospetto del colonnello Negri dal garibaldino De Marco.
L’avvocato si rivolse verso l’ufficiale piemontese, quasi a rimproverarlo: «Signor colonnello, siamo venuti qui da liberali, da unitari
E nazionali quali siamo sempre stati a fare pubblica rimostranza
per quello che sta accadendo nel paese.»
Negri: «Cosa sta accadendo?»
Rinaldi, così si chiamava l’avvocato: «I bersaglieri stanno incendiando tutte le case di Pontelandolfo e stanno uccidendo tutti.
In nome di Dio, li fermi!»
Negri: «Quei luridi reazionari hanno massacrato quaranta soldati piemontesi, quaranta eroi; per ogni soldato moriranno cento cafoni, capito?»
Rinaldi: «Signor colonnello, ciò che lei dice è contro le più
elementari leggi, è immorale, devono essere presi i responsabili e
giudicati da un tribunale.»
Negri: «Da un tribunale? Io conosco un solo tribunale, quello
che stai vedendo. La vendetta militare.»
Rinaldi: «Ma lì non ci sono militari, vi è solo gente indifesa.»
Negri: «Quella gente ha massacrato quaranta piemontesi e pagheranno con la morte.»
Rinaldi: «Signor colonnello, questo è un eccidio, passerete alla
storia come un criminale di guerra, un assassino!»
Negri: «Guardie, guardieee! Prendete questi due e fucilateli,
sono come gli altri, sono terroni, liberali o non liberali, fucilateli!
Iveri liberali stanno a Torino.»
Dieci bersaglieri presero i Rinaldi, li svuotarono dei soldi che
avevano nelle tasche e li portarono nei pressi della chiesa di San
Donato. I due fratelli chiesero un prete per l’ultima confessione;
gli fu negato.
Istantaneamente furono bendati e fucilati. Morirono gridando
ai piemontesi: «Assassini maledetti!», furono raggiunti dai pallettoni mentre sputavano verso il plotone d’esecuzione.
L’avvocato morì subito mentre il fratello, nonostante fosse stato
colpito da nove pallottole era ancora vivo. Il colonnello Negri si
avvicinò e lo finì con un colpo di baionetta.
La strage continuò: ogni casa veniva rovistata, saccheggiata,
incendiata. I morti venivano accatastati l’un sull’altro, e fra quei
corpi vi era anche qualcuno ancora vivo, che per il dolore mordeva
il corpo del cadavere sottostante. Chi non riusciva a morire subito
doveva anche sopportare la tortura del fuoco, che veniva appiccato
sopra i cadaveri con legna secca e fascine fatte portare lì da giovani
sotto la minaccia delle baionette.
Il colonnello Gaetano Negri, il generale De Sonnaz, il generale
Cialdini, il maggiore Rossi erano orgogliosi di portare la coccarda
azzurra come segno di fedeltà a Casa Savoia. Tutti appartenevano
alla casta militare piemontese, tutti di fede massonica.
Pontelandolfo stava bruciando; i saccheggi continuava o senza
sosta come pure gli assassinii.
Moltissime donne furono violentate e poi ammazzate; alcune
che s’erano rifugiate nelle chiese furono trucidate dopo essere state
denudate davanti all’altare. Una, oltre a opporre resistenza, graffiò
a sangue il viso di un piemontese; le vennero mozzate entrambe le
mani e poi finita a fucilate. Furono uccisi uomini, donne e bambini. Tutte le chiese furono profanate e spogliate dei doni centenari.
Le ostie sante furono gettate, le pissidi, i voti d’argento, i calici, le
statue, i quadri, i vasi preziosi e le tavolette votive, rubati.
165ue di quei soldati, di fede cattolica, rubarono il mantello
della Madonna e la corona inghirlandata che cingeva la sua testa.
Poiché per un cattolico è peccato mortale profanare i luoghi sacri
idue eroi piemontesi, credendo crollasse la chiesa dopo tale misfatto, fuggirono impauriti. Due settimane dopo, uno di essi tornò
davanti alla Madonna spogliata e sfregiata, piangendo e implorando il perdono, in quanto il compagno che aveva rubato e profanato
con lui la chiesa era morto inspiegabilmente. Dopo ore di stragi,
di eccidi, di massacri, di ruberie, il generale De Sonnaz fece suonare l’adunata e il ritiro della colonna infame.
I bersaglieri erano stanchi di assassinare, stanchi di correre,
madidi di sudore dovuto al caldo afoso di quel giorno d’agosto e
al fuoco che divampava nelle case. A molti sanguinavano le dita e
le mani per aver sparato troppo. I loro zaini erano pieni di refurtiva e le loro tasche piene di piastre d’argento.
Al suono del trombettiere tutti si ritirarono. Inquadrati e sull’attenti al cospetto del generale De Sonnaz e del colonnello Negri
ascoltarono quest’ultimo: «Soldati, oggi avete scritto una pagina
memorabile per la storia d’Italia. Vi siete comportati da eroi, da
veri soldati. Tutto il ricavato del saccheggio è vostro e vi sarà concessa pure una breve licenza premio. Forza Italia! Viva l’Italia! E
ora in marcia verso Benevento, siamo a secco di munizioni e se arrivano i briganti non potremo difenderci, avanti march!»
La colonna degli eroi infami si diresse verso Fragneto e poi a
Benevento, ove il giorno dopo, nei loro alloggiamenti, i piemontesi mercanteggiarono tutto il bottino sacro profanato; e per questo
motivo dai beneventani, fu chiamata Caserma del Gesù.
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LE PREFAZIONI ALLE DUE EDIZIONI DEL LIBRO " I SAVOIA E IL MASSACRO DEL SUD", DI PINO APRILE, ULTIMA EDIZIONE E DI LUCIO BARONE, LA PRIMA EDIZIONE

 PREFAZIONE

di Pino Aprile

Questo libro fu pubblicato, la prima volta, quindici anni fa. È il risultato della riflessione, della dignità e dell’indignazione di un uomo che ha riscoperto, nella sua carne, una ferita antica e mai chiusa: il martirio della sua città, Gaeta, per favorire la nascita del- l’Italia unita, rivelatasi matrigna e persino ancora nemica di chi, a quella costruzione storica, ha pagato, per tutti, il prezzo più alto, in risorse e sangue. Antonio Ciano è un uomo perbene, mosso da quella passione civile che spinge alla ricerca della verità, alla denuncia delle storture, e soprattutto all’azione, magari in totale solitudine, o in assoluta minoranza; per l’incapacità di tradire il primo comandamento degli onesti: fa’ quel che devi!

Perché ne parlo così? Perché lo conosco.

Sono l’autore di Terroni, la rilettura, da Sud, di 150 anni di storia d’Italia, dal Risorgimento a oggi, con il racconto dell’invasione, le stragi, il saccheggio del Sud, gli stupri, le torture, le rappresaglie, le leggi per drenare danaro nel Meridione e spenderlo al Nord, allora come oggi (è solo un degno continuatore di una delinquenziale e consolidata pratica il ministro Giulio Tremonti che sottrae decine di miliardi di euro dai Fondi per le aree sottoutilizzare (cui erano destinati per legge!) e li dilapida all’ombra della sue Alpi, per esempio per pagare le multe europee per le truffe degli degli allevatori padani). È stato detto che Terroni ha risvegliato l’orgoglio del Sud e lo ha indotto a cercare strumenti politici per pretendere il rispetto di quel diritto all’equità, da parte dello Stato, che sin qui è stato negato ai meridionali (si era pensato di sostituirlo con l’insulto…).

Altrimenti, non si spiegherebbe il sorprendente successo del libro, che ha polverizzato ogni più rosea previsione editoriale, sino a divenire un fenomeno non solo letterario, ma sociale, politico. La verità è un’altra: Terroni ha incontratoun’onda insospettatamente alta, che era montata negli anni, senza che nessuno si fosse accorto di quanto potente e vasta fosse; nemmeno io che, pure, a questi temi ho dedicato studio e scritti.

Quella sollevazione di tanto popolo si deve ad altri: alla reazione dei meridionali per la quantità e vomitevole qualità di offese, discriminazioni, attacchi razzisti firmati dalla Lega e benedetti da buona parte dei reazionari del Nord, sostenuti da reazionari del Sud, ignorati da progressisti del Nord e del Sud: dallo sciaguratoaccordo Pagliarini-Van Miert (il primo, leghista, allora purtroppo per l’Italia e per il Sud, ministro; il secondo rappresentante dell’Unione Europea), che tolse, solo al nostro Mezzogiorno, gli sgravi fiscali concessi alle aree depresse del continente, e costò 100mila posti di lavoro nelle regioni italiane già a più alta disoccupazione;alle manovre leghiste per togliere a Napoli la paternità della pizza e della dieta mediterranea!

Ma quella sollevazione di tanto popolo si deve anche alla conoscenza diffusa da tanti autori, prima di Terroni, sulle vere vicende del Risorgimento e la diseguale, ferocemente diseguale, distribuzione delle risorse: nessuna industria ha reso tanto al Nord, quanto la fabbrica della sottrazione delle risorse destinate al Sud (persinol’Ici sulle case di lusso fu abolita in tutt’Italia, grazie al solito manolesta Tremonti, con i 3,5 miliardi di euro stanziati per riassestare strade e porti di Calabria e Sicilia).

Uno dei primi e più attivi di quella nuova leva di meridionalisti che produssero il riemergere di una sopita e rassegnata sensibilità è Antonio Ciano.

PREFAZIONE

di Lucio Barone

Antonio Ciano nasce contadino ma, come gran parte dei suoi
concittadini che si fanno onore su tutti i mari in un lavoro duro,
stressante, lontano dagli affetti più cari, si fa marinaio dopo aver
completato gli studi nautici. E forse è proprio rincorrendo i suoi
ricordi nelle lunghe notti stellate dei mari sudamericani, ricordando i racconti del nonno Pasquale, le scorribande nei vicoli della
città vecchia squassata dalle cannonate piemontesi e piena di sgarrupi, rivedendo a lampi il macabro rituale dello spiazzo di Montesecco dove con gli altri scugnizzi, ragazzino, in attesa di festeggiare il centenario di una unità che oggi è in discussione, assiste
ignaro al disseppellimento di mille e più cadaveri ammassati alla
rinfusa: divise azzurre, ciocie, bottoni d’argento strappati non più
luccicanti, ma anneriti dal tempo. Visione agghiacciante di uomini
edonne massacrati da una calcolata guerra di conquista condotta
in nome di un ideale condiviso da pochi ma combattuto dai più.
Lì i fratelli uccisero i fratelli. Lì l’odio prese il sopravvento e creò
le premesse per uno scadimento sociale ed economico che ancora
oggi mostra i segni e crea divisioni, ancora oggi fa riaffiorare il
verme del razzismo e dell’egoismo.
ECiano torna dopo anni alla sua terra, ai suoi ulivi famosi nel
mondo, al suo tormento di sempre, deciso a innalzare con la penna
un monumento che possa trovare nei tempi attuali più attento
riscontro assieme ai pochi illustri predecessori. Raccoglie testimonianze difficili ma non impossibili, riscontri alle figure romanzate
di tanti briganti condannati a esseretali dai vincitori e da tutta
una storiografia risorgimentale di parte, che esalta i pochi vincitori e distrugge, annienta e cancella i più.

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Antonio Ciano, nel 1996 pubblicò “I Savoia e il massacro del sud”. Fu subito best seller. 
Per la prima volta,dopo Il De Sivo e Alianello, si parlava dell’eccidio di Pontelandolfo e Casalduni; questa volta,però,  Ciano ne ha descritto dettagliatamentre e, in modo cronologico, gli avvenimenti che portarono i savoiardi a massacrare le due città sannite. 
Da allora tanti giornalisti e scrittori hanno attinto alla cronaca degli avvenimenti fatta da Ciano.Lo scrittore gaetano ha dato dignità al Sud, ha chiamato criminali di guerra i piemontesi,ha chiamato  partigiani i contadini chiamati briganti dagli invasori. Difendevano la loro Patria di allora: il Regno delle Due Sicilie e le loro donne, spesso violentate dalla truppa.
PONTELANDOLFO  14 agosto 1861
«Fenesta ca lucive e mò nun luce!»
Erano le 03,30del 14agosto e Rosina, la donna di Martummé,
s’era alzata presto per lavare la biancheria. Mentre lavava i panni
ele lenzuola, cantava sottovoce la bella aria napoletana attribuita
aVincenzo Bellini. A quell’ora dormivano quasi tutti, solo qualche contadino era in piedi per pulire la stalla.
Rosina era felice, amava  Martummé e pensava che l’antico ordine stava per ristabilirsi. Finalmente avrebbe potuto rifarsi una
vita sposando il suo amato.
A Pontelandolfo come in quasi tutti i paesi del Molise, degli
Abruzzi, della Ciociaria, del Matese, del Chietino, degli Ausoni,
la bandiera gigliata sventolava sui pennoni più alti. Tutto un popolo era insorto contro il Piemonte, contro Vittorio Emanuele II.
Solo pochi volevano essere servi di uno Stato ritenuto il più retrivo e reazionario d’Europa. Qualcuno propendeva per la repubblica che Mazzini sognava, ma tutto il popolo contadino stava dalla
parte dei Borbone. La libertà, la gente del Sud, l’ha sempre conquistata col sangue.
Su ordine del generale Cialdini il 13agosto partì da Benevento una colonna di bersaglieri, tutti tiratori scelti. La colonna era
comandata dal generale Maurizio De Sonnaz, detto Requiescant
per le fucilazioni facili da lui ordinate e per il massacro di parecchi
preti e l’attacco ad abbazie e chiese. Il generale piemontese era a capo di novecento bersaglieri assassini e criminali di guerra. Costoro avevano fucilato e violentato
migliaia di Meridionali, avevano saccheggiato chiese e casolari.
I piemontesi, barbari cisalpini e feroci assassini, usarono sistematicamente la violenza per avere il controllo del territorio; usarono la fucilazione come arma di democrazia liberale. Saranno maledetti per sempre da Dio e dagli uomini.
Il colonnello Negri procedeva a cavallo, con al suo fianco il
garibaldino del luogo De Marco e due liberali pure del posto a far
da guida ai cinquecento bersaglieri, che costituivano la colonna
infame che stava dirigendosi verso Pontelandolfo. Era l’alba del
14 agosto. A tutto si poteva pensare fuorché a un eccidio, che, a
memoria d’uomo, da quelle parti, nessuno ricordava.
Alla stessa ora un’altra colonna, sozza quanto la prima, stava
dirigendosi verso Casalduni. Era composta da quattrocento uomini
e aveva per guida il liberal massone Jacobelli, traditore del popolo e servo dei piemontesi; a comandarla era il maggiore Melegari.
Entrambe le colonne erano coordinate dal De Sonnaz.
Gli ordini di Cialdini erano precisi: distruggere i due paesi e
dare una lezione esemplare ai cafoni; dovevano pagare con la morte la sfida fatta al potente Piemonte.
L’intera popolazione di Pontelandolfo doveva pagare per la
fucilazione dei soldati del tenente Bracci. De Sonnaz era lì per
questo.
La banda di Cosimo Giordano bivaccava a un chilometro da
Pontelandolfo, nella selva, tra i monti che dominavano la città sannita. I partigiani avvertiti dai pastori e dal loro servizio di informazione capillare, s’erano appostati per tendere un agguato ai piemontesi, ma erano solo cinquanta, e Martummé era tra essi. Erano
tutti armati di fucili e provvisti di cavalli freschi e veloci, pronti
alunghe cavalcate per scoscesi sentieri. Martummé, avvistata la
colonna piemontese, si rivolse al suo capo: Mimi, so no parecchi,
forse seicento, non possiamo sostenere uno scontra frontale con
quei porci bastardi.
Giordano: «Martummé, non dobbiamo sostenere scontri diretti, useremo la tattica usuale, quella del tuo paesano Frà Diavolo,
guerriglia! Spariamo e fuggiamo! Se sono uomini con le palle i
piemontesi ci inseguiranno: e se lo faranno, moriranno tutti. Quei
bastardi sono abituati a combattere contro vecchi e bambini, non
158
za cercava di slegarsi, usava tutte le sue forze, cercava di liberarsi
dalla fune che lo teneva inchiodato al palo, e nello sforzo il sangue
usciva dalla sua pelle. A dare fine al suo tormento e alla sua pena
pensarono i bersaglieri con una scarica micidiale. Le pallottole ruppero perfino la fune e Nicola Biondi cadde carponi nei pressi della
diletta figlia Concettina.
Nella casa accanto abitava Santopietro; con il figlio in braccio,
stava per scappare, ma fu intercettato dai soldati savoiardi, che gli
strapparono il bambino dalle mani e lo freddarono senza misericordia. Il maggiore Rossi, con coccarda azzurra al petto, era il più
esagitato; dava ordini, gridava come un ossesso, sembrava ubriaco,
forse lo era, sembrava un vampiro. Era assetato di sangue e con la
sciabola infilzava i fuggitivi mentre i suoi sottoposti non erano da
meno, sparavano, sparavano, sparavano.
Icadaveri erano tanti, ma per il colonnello Negri non bastanti per la vendetta e allora ancora a snidare i pontelandolfesi dalle
loro case. A un certo punto Negri gridò: «Questo paese ha seimila
abitanti, li voglio tutti morti! Sono tutti contadini, perciò briganti equindi  nemici dei Savoia, nemici del Piemonte, nemici dei
bersaglieri, nemici del mondo. Essere nemici della nostra patria
è peccato mortale. Morte ai cafoni, morte a questi terroni figli di
puttana, andateli a scovare nelle loro tane, nei loro nascondigli,
nei pozzi, nelle cisterne. Ammazzateli tutti, senza pietà, uomini,
donne, vecchi e bambini, non voglio testimoni, diremo che sono
stati i briganti.»
Angiolo De Witt, del 36°fanteria bersaglieri così ha descritto
quell’episodio:
Il maggiore Rossi ordinò ai suoi sottoposti l’incendio e lo
sterminio dell’intero paese. Allora fu fiera rappresaglia di sangue che si posò con tutti i suoi orrori su quella colpevole popolazione. I diversi manipoli di bersaglieri fecero a forza snidare
dalle case gli impauriti reazionari del giorno prima, e quando
dei mucchi di quei cafoni erano costretti dalle baionette a scendere per la via, ivi giunti, vi trovavano delle mezze squadre di
soldati che facevano una scarica a bruciapelo su di loro.
Molti mordevano il terreno, altri rimasero incolumi, i feriti rimanevano ivi abbandonati alla ventura, e i superstiti erano obbligati a prendere ogni specie di strame per incendiare le loro catapecchie. Questa scena di terrore durò un’intera giornata: il
castigo fu tremendo.
Non sappiamo se il maggiore Rossi, il colonnello Negri e il
generale De Sonnaz ebbero una medaglia al valore per quell’azione ardimentosa, ma una cosa è certa: questi assassini, questi criminali di guerra sono stati fatti passare per eroi dalla storiografia
ufficiale sabaudo risorgimentale, molte strade e molte piazze sono
ancora oggi a loro intitolate:
via Rossi, maggiore ed eroe di Pontelandolfo;
via Gaetano Negri, sindaco di Milano ed eroe di Pontelandolfo;
via De Sonnaz, conte e generale piemontese, eroe di Casamari,
Perugia e Pontelandolfo;
via Cialdini, eroe di Gaeta, di Pontelandolfo, Casalduni, Venosa, Montefalcione, Auletta, ecc., ecc.
Ecco come il grande Piemonte portava i segni della civiltà cisalpina nella culla della barbarie; ecco come i Savoia intendevano
l’unità d’Italia!
Il generale Cialdini aveva sempre una coccarda azzurra al petto e dava ordini dalla sua luogotenenza di Napoli al generale De
Sonnaz, altro azzurro con coccarda. Il De Sonnaz a sua volta trasmetteva gli ordini assassini al colonnello Negri, anche lui incoccardato con grande stoffa di seta azzurra, che a sua volta illuminava di disposizioni il maggiore Rossi, che amava incendiare interi
paesi e sparare su donne e bambini col suo revolver, anche lui incorniciato dalla coccarda azzurra, come incoccardati erano tutti i bersaglieri, compreso il De Witt. Ebbene, questi delinquenti di
guerra, questi bastardi del risorgimento italiano stavano portando a compimento l’ennesimo truculento eccidio con forsennata ferocia e senza pietà alcuna verso una popolazione fiera del suo Re Borbone, fiera della sua dignità, fiera della sua libertà, fiera della sua storia, fiera di essere italiana, fiera della sua religione, fiera di battersi per l’Altare e per il trono del suo Re. Quando mai gli austriaci
nel Lombardo-Veneto usarono simili metodi? Gli austriaci erano
162
(59) Angiolo De Witt, Storia politico-militare del brigantaggio nelleprovince meridionali d’Italia,
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tedeschi, cattolici e soprattutto erano soldati e si battevano contro
soldati, erano un popolo civile e fiero. I piemontesi, che i romani
avevano accomunati all’Italia, come Caino, stavano assassinando e
massacrando i loro fratelli napoletani.
L’eccidio cominciò alle quattro di mattina. I partigiani, che
erano accampati sulle Campetelle, dopo aver ammazzato venticinque piemontesi, diedero l’allarme. Uno di essi riuscì ad andare dal
sagrestano, prese la chiave del portone del campanile e cominciò a
suonare a stormo le campane…
Il paese venne dato alle fiamme, la prima casa che bruciò fu
quella dell’arciprete Epifanio De Gregorio.
Un solo guerrigliero fu ucciso (presumibilmente il partigiano
che era andato a suonare l’allarme sul campanile). Dopo i soldati
si abbandonarono al saccheggio e ad atti di lascivia…
Alle ore sei metà paese era già in fiamme, i bersaglieri continuarono la mattanza.
Ancora uccisioni, stupri, fucilate, grida, urla. I vecchi venivano
fucilati subito e così i bambini che ancora dormivano nei loro letti.
Molti bersaglieri, avendo finito le munizioni in dotazione, per non
tornare a rifornirsi al campo base situato fuori il paese, usavano la
baionetta in canna al fucile e passavano all’arma bianca i poveri
disgraziati di Pontelandolfo. Dopo aver ammazzato i proprietari
delle abitazioni, le saccheggiavano: oro, argento, soldi, catenine,
bracciali, orecchini, oggetti di valore, orologi, pentole e piatti.
Pochi di quegli eroi conoscevano la lingua italiana, e la maggior parte dei soldati piemontesi, analfabeti e ignoranti, qualche
parola l’avevano imparata al di qua del Tronto, comunque una parola sapevano pronunciare: «Piastre! Piastre!», dicevano entrando di prepotenza nelle case dei pontelandolfesi: «Dove avete le piastre, piastre o morte.» I barbari non si accontentavano delle piastre d’argento borboniche, bruciavano anche le case e ammazzavano senza pietà i loro occupanti.
La morte, a volte, valeva una, due, tre piastre. Intanto il sangue scorreva a fiumi per le strade di Pontelandolfo. Prima a essere
saccheggiata fu la chiesa di San Donato, ricca di ori, di argenti, di bronzi lavorati, di voti: persino le statue dei santi furono trafugate! Il saccheggio e l’eccidio durarono l’intera giornata del 14agosto 1861.
Donne seminude, sorprese mentre dormivano, cercavano scampo fuggendo; ma, se vecchie, venivano subito infilzate, se giovani
E avvenenti, venivano violentate e poi uccise.
Due dei giovani, che erano stati salvati dal De Marco in quanto liberali, nel vedere tanta barbarie e tanto accanimento contro i
Loro concittadini e contro la loro città, dopo essersi consultati col
proprio padre, si diressero verso il colonnello Negri. Non avrebbero dovuto!
Idue giovani avevano appreso le idee liberali frequentando circoli culturali a Napoli, sognavano un’Italia Una, libera, indipendente; sognavano la fratellanza. La loro adesione al liberalismo fu
vanificata da quelle scene di terrore e di orrore; di colpo s’accorsero che il re sabaudo era un macellaio e che il vero liberale era il
Re Borbone.
Il più giovane dei due aveva finito da poco gli studi all’università di Napoli e stava per cimentarsi nella libera professione
dell’avvocatura; il più grande era un buon commerciante a Pontelandolfo.
I due benpensanti liberali pontelandolfesi furono accompagnati al cospetto del colonnello Negri dal garibaldino De Marco.
L’avvocato si rivolse verso l’ufficiale piemontese, quasi a rimproverarlo: «Signor colonnello, siamo venuti qui da liberali, da unitari
E nazionali quali siamo sempre stati a fare pubblica rimostranza
per quello che sta accadendo nel paese.»
Negri: «Cosa sta accadendo?»
Rinaldi, così si chiamava l’avvocato: «I bersaglieri stanno incendiando tutte le case di Pontelandolfo e stanno uccidendo tutti.
In nome di Dio, li fermi!»
Negri: «Quei luridi reazionari hanno massacrato quaranta soldati piemontesi, quaranta eroi; per ogni soldato moriranno cento cafoni, capito?»
Rinaldi: «Signor colonnello, ciò che lei dice è contro le più
elementari leggi, è immorale, devono essere presi i responsabili e
giudicati da un tribunale.»
Negri: «Da un tribunale? Io conosco un solo tribunale, quello
che stai vedendo. La vendetta militare.»
Rinaldi: «Ma lì non ci sono militari, vi è solo gente indifesa.»
Negri: «Quella gente ha massacrato quaranta piemontesi e pagheranno con la morte.»
Rinaldi: «Signor colonnello, questo è un eccidio, passerete alla
storia come un criminale di guerra, un assassino!»
Negri: «Guardie, guardieee! Prendete questi due e fucilateli,
sono come gli altri, sono terroni, liberali o non liberali, fucilateli!
Iveri liberali stanno a Torino.»
Dieci bersaglieri presero i Rinaldi, li svuotarono dei soldi che
avevano nelle tasche e li portarono nei pressi della chiesa di San
Donato. I due fratelli chiesero un prete per l’ultima confessione;
gli fu negato.
Istantaneamente furono bendati e fucilati. Morirono gridando
ai piemontesi: «Assassini maledetti!», furono raggiunti dai pallettoni mentre sputavano verso il plotone d’esecuzione.
L’avvocato morì subito mentre il fratello, nonostante fosse stato
colpito da nove pallottole era ancora vivo. Il colonnello Negri si
avvicinò e lo finì con un colpo di baionetta.
La strage continuò: ogni casa veniva rovistata, saccheggiata,
incendiata. I morti venivano accatastati l’un sull’altro, e fra quei
corpi vi era anche qualcuno ancora vivo, che per il dolore mordeva
il corpo del cadavere sottostante. Chi non riusciva a morire subito
doveva anche sopportare la tortura del fuoco, che veniva appiccato
sopra i cadaveri con legna secca e fascine fatte portare lì da giovani
sotto la minaccia delle baionette.
Il colonnello Gaetano Negri, il generale De Sonnaz, il generale
Cialdini, il maggiore Rossi erano orgogliosi di portare la coccarda
azzurra come segno di fedeltà a Casa Savoia. Tutti appartenevano
alla casta militare piemontese, tutti di fede massonica.
Pontelandolfo stava bruciando; i saccheggi continuava o senza
sosta come pure gli assassinii.
Moltissime donne furono violentate e poi ammazzate; alcune
che s’erano rifugiate nelle chiese furono trucidate dopo essere state
denudate davanti all’altare. Una, oltre a opporre resistenza, graffiò
a sangue il viso di un piemontese; le vennero mozzate entrambe le
mani e poi finita a fucilate. Furono uccisi uomini, donne e bambini. Tutte le chiese furono profanate e spogliate dei doni centenari.
Le ostie sante furono gettate, le pissidi, i voti d’argento, i calici, le
statue, i quadri, i vasi preziosi e le tavolette votive, rubati.
165ue di quei soldati, di fede cattolica, rubarono il mantello
della Madonna e la corona inghirlandata che cingeva la sua testa.
Poiché per un cattolico è peccato mortale profanare i luoghi sacri
idue eroi piemontesi, credendo crollasse la chiesa dopo tale misfatto, fuggirono impauriti. Due settimane dopo, uno di essi tornò
davanti alla Madonna spogliata e sfregiata, piangendo e implorando il perdono, in quanto il compagno che aveva rubato e profanato
con lui la chiesa era morto inspiegabilmente. Dopo ore di stragi,
di eccidi, di massacri, di ruberie, il generale De Sonnaz fece suonare l’adunata e il ritiro della colonna infame.
I bersaglieri erano stanchi di assassinare, stanchi di correre,
madidi di sudore dovuto al caldo afoso di quel giorno d’agosto e
al fuoco che divampava nelle case. A molti sanguinavano le dita e
le mani per aver sparato troppo. I loro zaini erano pieni di refurtiva e le loro tasche piene di piastre d’argento.
Al suono del trombettiere tutti si ritirarono. Inquadrati e sull’attenti al cospetto del generale De Sonnaz e del colonnello Negri
ascoltarono quest’ultimo: «Soldati, oggi avete scritto una pagina
memorabile per la storia d’Italia. Vi siete comportati da eroi, da
veri soldati. Tutto il ricavato del saccheggio è vostro e vi sarà concessa pure una breve licenza premio. Forza Italia! Viva l’Italia! E
ora in marcia verso Benevento, siamo a secco di munizioni e se arrivano i briganti non potremo difenderci, avanti march!»
La colonna degli eroi infami si diresse verso Fragneto e poi a
Benevento, ove il giorno dopo, nei loro alloggiamenti, i piemontesi mercanteggiarono tutto il bottino sacro profanato; e per questo
motivo dai beneventani, fu chiamata Caserma del Gesù.
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LE PREFAZIONI ALLE DUE EDIZIONI DEL LIBRO " I SAVOIA E IL MASSACRO DEL SUD", DI PINO APRILE, ULTIMA EDIZIONE E DI LUCIO BARONE, LA PRIMA EDIZIONE

 PREFAZIONE

di Pino Aprile

Questo libro fu pubblicato, la prima volta, quindici anni fa. È il risultato della riflessione, della dignità e dell’indignazione di un uomo che ha riscoperto, nella sua carne, una ferita antica e mai chiusa: il martirio della sua città, Gaeta, per favorire la nascita del- l’Italia unita, rivelatasi matrigna e persino ancora nemica di chi, a quella costruzione storica, ha pagato, per tutti, il prezzo più alto, in risorse e sangue. Antonio Ciano è un uomo perbene, mosso da quella passione civile che spinge alla ricerca della verità, alla denuncia delle storture, e soprattutto all’azione, magari in totale solitudine, o in assoluta minoranza; per l’incapacità di tradire il primo comandamento degli onesti: fa’ quel che devi!

Perché ne parlo così? Perché lo conosco.

Sono l’autore di Terroni, la rilettura, da Sud, di 150 anni di storia d’Italia, dal Risorgimento a oggi, con il racconto dell’invasione, le stragi, il saccheggio del Sud, gli stupri, le torture, le rappresaglie, le leggi per drenare danaro nel Meridione e spenderlo al Nord, allora come oggi (è solo un degno continuatore di una delinquenziale e consolidata pratica il ministro Giulio Tremonti che sottrae decine di miliardi di euro dai Fondi per le aree sottoutilizzare (cui erano destinati per legge!) e li dilapida all’ombra della sue Alpi, per esempio per pagare le multe europee per le truffe degli degli allevatori padani). È stato detto che Terroni ha risvegliato l’orgoglio del Sud e lo ha indotto a cercare strumenti politici per pretendere il rispetto di quel diritto all’equità, da parte dello Stato, che sin qui è stato negato ai meridionali (si era pensato di sostituirlo con l’insulto…).

Altrimenti, non si spiegherebbe il sorprendente successo del libro, che ha polverizzato ogni più rosea previsione editoriale, sino a divenire un fenomeno non solo letterario, ma sociale, politico. La verità è un’altra: Terroni ha incontratoun’onda insospettatamente alta, che era montata negli anni, senza che nessuno si fosse accorto di quanto potente e vasta fosse; nemmeno io che, pure, a questi temi ho dedicato studio e scritti.

Quella sollevazione di tanto popolo si deve ad altri: alla reazione dei meridionali per la quantità e vomitevole qualità di offese, discriminazioni, attacchi razzisti firmati dalla Lega e benedetti da buona parte dei reazionari del Nord, sostenuti da reazionari del Sud, ignorati da progressisti del Nord e del Sud: dallo sciaguratoaccordo Pagliarini-Van Miert (il primo, leghista, allora purtroppo per l’Italia e per il Sud, ministro; il secondo rappresentante dell’Unione Europea), che tolse, solo al nostro Mezzogiorno, gli sgravi fiscali concessi alle aree depresse del continente, e costò 100mila posti di lavoro nelle regioni italiane già a più alta disoccupazione;alle manovre leghiste per togliere a Napoli la paternità della pizza e della dieta mediterranea!

Ma quella sollevazione di tanto popolo si deve anche alla conoscenza diffusa da tanti autori, prima di Terroni, sulle vere vicende del Risorgimento e la diseguale, ferocemente diseguale, distribuzione delle risorse: nessuna industria ha reso tanto al Nord, quanto la fabbrica della sottrazione delle risorse destinate al Sud (persinol’Ici sulle case di lusso fu abolita in tutt’Italia, grazie al solito manolesta Tremonti, con i 3,5 miliardi di euro stanziati per riassestare strade e porti di Calabria e Sicilia).

Uno dei primi e più attivi di quella nuova leva di meridionalisti che produssero il riemergere di una sopita e rassegnata sensibilità è Antonio Ciano.

PREFAZIONE

di Lucio Barone

Antonio Ciano nasce contadino ma, come gran parte dei suoi
concittadini che si fanno onore su tutti i mari in un lavoro duro,
stressante, lontano dagli affetti più cari, si fa marinaio dopo aver
completato gli studi nautici. E forse è proprio rincorrendo i suoi
ricordi nelle lunghe notti stellate dei mari sudamericani, ricordando i racconti del nonno Pasquale, le scorribande nei vicoli della
città vecchia squassata dalle cannonate piemontesi e piena di sgarrupi, rivedendo a lampi il macabro rituale dello spiazzo di Montesecco dove con gli altri scugnizzi, ragazzino, in attesa di festeggiare il centenario di una unità che oggi è in discussione, assiste
ignaro al disseppellimento di mille e più cadaveri ammassati alla
rinfusa: divise azzurre, ciocie, bottoni d’argento strappati non più
luccicanti, ma anneriti dal tempo. Visione agghiacciante di uomini
edonne massacrati da una calcolata guerra di conquista condotta
in nome di un ideale condiviso da pochi ma combattuto dai più.
Lì i fratelli uccisero i fratelli. Lì l’odio prese il sopravvento e creò
le premesse per uno scadimento sociale ed economico che ancora
oggi mostra i segni e crea divisioni, ancora oggi fa riaffiorare il
verme del razzismo e dell’egoismo.
ECiano torna dopo anni alla sua terra, ai suoi ulivi famosi nel
mondo, al suo tormento di sempre, deciso a innalzare con la penna
un monumento che possa trovare nei tempi attuali più attento
riscontro assieme ai pochi illustri predecessori. Raccoglie testimonianze difficili ma non impossibili, riscontri alle figure romanzate
di tanti briganti condannati a esseretali dai vincitori e da tutta
una storiografia risorgimentale di parte, che esalta i pochi vincitori e distrugge, annienta e cancella i più.

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