di Gigi Di Fiore
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Negli ultimi giorni, ho letto tanti interventi, rinnovate polemiche sullo squilibrio economico tra Nord e Sud. C'è chi dice: tutta colpa dei meridionali, che sanno solo piangersi addosso e si danno classi dirigenti non all'altezza da sempre.
Le repliche: no, lo squilibrio si è accentuato nel tempo per scelte di politica economica, a partire dai primi vent'anni dell'unità d'Italia, che hanno favorito le regioni settentrionali. E ancora: il Sud è stato sempre considerato terra di consumo, di tassazione, di interventi residuali.
Mentre impazzano questi scritti sui giornali, arriva la notizia che la Corte dei conti, numeri alla mano, ha scoperto che da noi si pagano molte più imposte che nelle altre regioni italiani. E che tutto nasce da una discutibile interpretazione di federalismo. Insomma, è ormai chiaro che il famigerato squilibrio in tempi di crisi e la scomoda questione meridionale siano il vero nodo del possibile sviluppo dell'intero Paese.
Negli interventi degli ultimi giorni, per evidenziare i limiti della classe dirigente del Sud, qualcuno ha citato Gramsci, le sue idee sul ceto latifondista meridionale che, all'alba dell'unità d'Italia, si chiuse nella conservazione di potere e ricchezze, saldandosi con i ceti imprenditoriali del Nord. Ma Gramsci era andato più avanti nelle sue interpretazioni sul Risorgimento. Aveva considerato la guerra del brigantaggio una lotta civile, una guerra contadina, anche se non organizzata.
E aveva auspicato che, dopo quella guerra, i contadini meridionali potessero prendere coscienza di classe unendo le loro forze agli operai del Nord. Dunque, brigantaggio sanguinosa rivolta sociale contro le false promesse unitarie e la conservazione dei ceti dei possidenti meridionali. Una lettura che sarebbe stata seguita anche da Franco Molfese, mentre Gaetano Salvemini riprese poi la tesi gramsciana sulla speranza di saldatura sociale operai del nord-contadini del Sud, per favorire lo sviluppo nel Mezzogiorno.
Le tasse. Il prezioso studio di Francesco Saverio Nitti, "Il bilancio dello Stato dal 1862 al 1896-97" pubblicato nel 1900, già conteneva interessanti osservazioni sulla tassazione dei primi 30 anni di unità. "L'Italia meridionale è assai più duramente colpita dalle imposte dell'Italia settentrionale", scriveva lo studioso lucano. Era il risultato di uno studio statistico su distribuzione dei tributi, ripartizione della spesa pubblica e ricchezza comparati tra le diverse regioni italiane.
"Per 40 anni lo Stato ha destinato le sue risorse prevalentemente alle regioni della valle del Po" scriveva ancora Nitti. Aggiungendo: "In proporzione alla sua ricchezza, l'Italia settentrionale ha pagato assai meno di quanto dovuto allo Stato e l'Italia meridionale molto di più". Da qui una conclusione: il famoso divario Nord-Sud, all'inizio minimo, nei primi 30 anni di unità era andato progressivamente aumentato. Curioso, no?
Naturalmente, anche Nitti fu allora criticato. Molti polemizzarono con il suo metodo statistico, con le sue conclusioni. E ti pareva. Nitti pensava a correttivi in uno Stato accentrato nella sua amministrazione. La ricetta di Salvemini era invece il decentramento nelle scelte.
"Dal 1860 ad oggi vi è stato un drenaggio continuo di capitali dal Sud al Nord per opera della politica dello Stato"; "Il Mezzogiorno ha funzionato come colonia di consumo e ha permesso lo svolgersi della grande industria del Nord": altre affermazioni di Nitti. Leggo di nuovo questi scritti e mi rendo conto che, nel dibattito in corso, si ripropongono tesi già di un secolo fa. Forse, queste analisi si dovrebbero conoscere di più. Forse si dovrebbe ripartire da basi nuove. Con onestà intellettuale. Ma spesso, in un mercato di lettori (pochi di questi tempi) assai spesso vergini di conoscenze storiche, imporre tesi e libri a effetto è gioco facile. Ahimé.
Le repliche: no, lo squilibrio si è accentuato nel tempo per scelte di politica economica, a partire dai primi vent'anni dell'unità d'Italia, che hanno favorito le regioni settentrionali. E ancora: il Sud è stato sempre considerato terra di consumo, di tassazione, di interventi residuali.
Mentre impazzano questi scritti sui giornali, arriva la notizia che la Corte dei conti, numeri alla mano, ha scoperto che da noi si pagano molte più imposte che nelle altre regioni italiani. E che tutto nasce da una discutibile interpretazione di federalismo. Insomma, è ormai chiaro che il famigerato squilibrio in tempi di crisi e la scomoda questione meridionale siano il vero nodo del possibile sviluppo dell'intero Paese.
Negli interventi degli ultimi giorni, per evidenziare i limiti della classe dirigente del Sud, qualcuno ha citato Gramsci, le sue idee sul ceto latifondista meridionale che, all'alba dell'unità d'Italia, si chiuse nella conservazione di potere e ricchezze, saldandosi con i ceti imprenditoriali del Nord. Ma Gramsci era andato più avanti nelle sue interpretazioni sul Risorgimento. Aveva considerato la guerra del brigantaggio una lotta civile, una guerra contadina, anche se non organizzata.
E aveva auspicato che, dopo quella guerra, i contadini meridionali potessero prendere coscienza di classe unendo le loro forze agli operai del Nord. Dunque, brigantaggio sanguinosa rivolta sociale contro le false promesse unitarie e la conservazione dei ceti dei possidenti meridionali. Una lettura che sarebbe stata seguita anche da Franco Molfese, mentre Gaetano Salvemini riprese poi la tesi gramsciana sulla speranza di saldatura sociale operai del nord-contadini del Sud, per favorire lo sviluppo nel Mezzogiorno.
Le tasse. Il prezioso studio di Francesco Saverio Nitti, "Il bilancio dello Stato dal 1862 al 1896-97" pubblicato nel 1900, già conteneva interessanti osservazioni sulla tassazione dei primi 30 anni di unità. "L'Italia meridionale è assai più duramente colpita dalle imposte dell'Italia settentrionale", scriveva lo studioso lucano. Era il risultato di uno studio statistico su distribuzione dei tributi, ripartizione della spesa pubblica e ricchezza comparati tra le diverse regioni italiane.
"Per 40 anni lo Stato ha destinato le sue risorse prevalentemente alle regioni della valle del Po" scriveva ancora Nitti. Aggiungendo: "In proporzione alla sua ricchezza, l'Italia settentrionale ha pagato assai meno di quanto dovuto allo Stato e l'Italia meridionale molto di più". Da qui una conclusione: il famoso divario Nord-Sud, all'inizio minimo, nei primi 30 anni di unità era andato progressivamente aumentato. Curioso, no?
Naturalmente, anche Nitti fu allora criticato. Molti polemizzarono con il suo metodo statistico, con le sue conclusioni. E ti pareva. Nitti pensava a correttivi in uno Stato accentrato nella sua amministrazione. La ricetta di Salvemini era invece il decentramento nelle scelte.
"Dal 1860 ad oggi vi è stato un drenaggio continuo di capitali dal Sud al Nord per opera della politica dello Stato"; "Il Mezzogiorno ha funzionato come colonia di consumo e ha permesso lo svolgersi della grande industria del Nord": altre affermazioni di Nitti. Leggo di nuovo questi scritti e mi rendo conto che, nel dibattito in corso, si ripropongono tesi già di un secolo fa. Forse, queste analisi si dovrebbero conoscere di più. Forse si dovrebbe ripartire da basi nuove. Con onestà intellettuale. Ma spesso, in un mercato di lettori (pochi di questi tempi) assai spesso vergini di conoscenze storiche, imporre tesi e libri a effetto è gioco facile. Ahimé.
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