martedì 8 ottobre 2013

Meno vincoli sulle grandi opere. Il governo prenda una posizione forte






Di Gianfranco Viesti
Fonte : Il Mattino, 7 ottobre 2013


In Italia è altissima l’attenzione per le politiche europee che sono in vigore. Tutta l’azione di governo è condizionata dalle nuove norme sulla finanza pubblica, e dal controllo che gli Stati Membri hanno concesso a Bruxelles: “non si può fare perché l’Europa non ce lo permette”. Un’Europa come un’entità oscura, disattenta al benessere dei cittadini, inflessibile: non ci si può sorprendere che cresca nel nostro paese (per la verità come in altri) una profonda disaffezione verso le istituzioni comunitarie, e la simpatia e il sostegno verso movimenti esplicitamente antieuropei.

Però in Italia è bassissima l’attenzione – anche nel mondo della politica e della comunicazione di massa -
per la costruzione delle nuove regole europee. Certo, questi processi sono, oltre che terribilmente
complessi tecnicamente, molto difficili politicamente. L’Europa è dominata dalla Germania e dai suoi
alleati; predomina un’impostazione di austerità assoluta (tanto da essere contestata persino dal Fondo
Monetario Internazionale), anche perché favorisce l’economia dei paesi del Nord, che godono della moneta
unica e di tassi di interesse molto contenuti, ponendo tutti i problemi dell’aggiustamento a carico dei
Mediterranei.

Ma spazi ci sono. Consiglio Europeo, Commissione e Parlamento sono un cantiere continuo: a cominciare
dal fatto che stanno ancora definendo il bilancio comunitario dei prossimi 7 anni. E dal loro lavorio posso
scaturire innovazioni significative. A patto di seguirli con attenzione e soprattutto saperli condizionare. Un
tema è della massima importanza. Le più importanti regole europee, quelle sui limiti al deficit del bilancio
pubblico, sono “stupide”, come disse l’allora Presidente della Commissione Romano Prodi. Come ben
sappiamo a nostre spese, obbligano a politiche restrittive anche paesi in recessione, aggravandola. Non
distinguono fra spese pubbliche correnti (che si ripetono ogni anno) e di investimento (che sono una
tantum). E’ come fossimo obbligati a comprare un’auto o una casa solo e integralmente con il reddito di un
anno, senza poter fare un mutuo e quindi calcolare solo le rate. Ma se i paesi europei non investono – in
innovazione, in infrastrutture, nei trasporti, nelle città – la loro crescita rimane stentata.

Su questo si è aperto uno spiraglio. I Consigli Europei (i summit dei capi di governo) del giugno 2012 e del
marzo 2013 hanno affermato la possibilità di “bilanciare le necessità di investimenti pubblici produttivi con
gli obiettivi della disciplina fiscale”; hanno cioè aperto alla possibilità di non conteggiare nei limiti imposti al
deficit pubblici (il famoso 3%) alcune spese infrastrutturali.
Il 3 luglio il Presidente della Commissione
Barroso ha annunciato che si sarebbe lavorato per questo già sui bilanci del 2014. E’ una possibilità assai
minore di ciò che servirebbe. Riguarda solo gli stati che hanno i conti in ordine, per ammontari che poi
dovranno essere recuperati negli anni successivi, per tipologie precise di spesa. Ma è una possibilità
importante per l’Italia: perché è ormai è uno dei paesi europei con i conti maggiormente in ordine (mai
dimenticare che nel 2013 abbiamo un avanzo pubblico primario, cioè al netto degli interessi, migliore di
quello tedesco: 2,4 contro 2,3!); perché le tipologie di spese previste sono le grandi reti infrastrutturali
europee e i fondi strutturali. In sintesi ciò che è principalmente in discussione è la possibilità, a partire
dall’anno prossimo, di escludere dal Patto di Stabilità il cofinanziamento nazionale dei fondi strutturali.

Per noi sarebbe fondamentale: perché abbiamo ancora moltissimo da spendere delle risorse del vecchio
ciclo 2007-13 e questo accelererebbe la spesa; perché abbiamo pochissimi altri margini per spesa di
investimento (che in infatti in Italia si è paurosamente ristretta: non manuteniamo e aumentiamo quasi più
il nostro patrimonio pubblico); perché si concentrerebbe molto al Sud: dove la crisi economica è ancora
gravissima. Consentirebbe di realizzare opere importanti, di sostenere al tempo stesso domanda e occupazione, e di creare un volano di sviluppo anche per il Centro Nord: sia perché una parte dei Fondi
Europei sono anche lì, sia perché ogni euro speso al Sud crea domanda aggiuntiva per circa 30 centesimi al
Centro-Nord.

Tutto bene? Neanche per idea. La Germania e altri stati rigoristi stanno facendo di tutto, fin da quando si è
iniziato a discutere concretamente, per annullare nei fatti questa opzione, ponendo tali e tante condizioni
da renderla irrilevante. All’interno della Commissione si discute molto. Il Parlamento Europeo è mobilitato.
Martedì voterà un’importante risoluzione proposta dall’eurodeputata campana Erminia Mazzoni (PPE) che
prova a contrastare queste manovre. Vi sono ancora margini per un’interpretazione delle norme più
ragionevole e ampia. Si decide a breve.

Questo fa nascere alcune domande di fondo: perché il Governo italiano non fa di questo tema una priorità
politica assoluta, con il sostegno del Parlamento? Perché PD e PDL, sull’onda della fiducia votata l’altro
giorno, non trovano su questo una forte posizione comune? L’attenzione al Mezzogiorno non può stare
solo in futuribili grande opere immancabilmente presenti in ogni discorso: ma anche in azioni e obiettivi
concreti, precisi, immediati.
Perché il Presidente Letta non vola a Berlino e a Bruxelles provando, una volta tanto, a prendere una
posizione forte con la Cancelliera Merkel: a spiegarle che l’economia italiana è ancora allo stremo, che i
rischi sociali e politici sono ancora enormi, che abbiamo fatto enormi, straordinari, sacrifici, che su questi
temi il Consiglio si è già espresso e che le regole europee non possono essere sempre a senso unico?
A spiegarle che il rilancio dell’economia italiana è interesse anche tedesco, e che, se non proviamo a costruire un’Europa più ragionevole e attenta al benessere di tutti i suoi cittadini, l’ondata populista e nazionalista alla lunga potrebbe travolgerci.


Fonte : Il Mattino, 7 ottobre 2013

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Di Gianfranco Viesti
Fonte : Il Mattino, 7 ottobre 2013


In Italia è altissima l’attenzione per le politiche europee che sono in vigore. Tutta l’azione di governo è condizionata dalle nuove norme sulla finanza pubblica, e dal controllo che gli Stati Membri hanno concesso a Bruxelles: “non si può fare perché l’Europa non ce lo permette”. Un’Europa come un’entità oscura, disattenta al benessere dei cittadini, inflessibile: non ci si può sorprendere che cresca nel nostro paese (per la verità come in altri) una profonda disaffezione verso le istituzioni comunitarie, e la simpatia e il sostegno verso movimenti esplicitamente antieuropei.

Però in Italia è bassissima l’attenzione – anche nel mondo della politica e della comunicazione di massa -
per la costruzione delle nuove regole europee. Certo, questi processi sono, oltre che terribilmente
complessi tecnicamente, molto difficili politicamente. L’Europa è dominata dalla Germania e dai suoi
alleati; predomina un’impostazione di austerità assoluta (tanto da essere contestata persino dal Fondo
Monetario Internazionale), anche perché favorisce l’economia dei paesi del Nord, che godono della moneta
unica e di tassi di interesse molto contenuti, ponendo tutti i problemi dell’aggiustamento a carico dei
Mediterranei.

Ma spazi ci sono. Consiglio Europeo, Commissione e Parlamento sono un cantiere continuo: a cominciare
dal fatto che stanno ancora definendo il bilancio comunitario dei prossimi 7 anni. E dal loro lavorio posso
scaturire innovazioni significative. A patto di seguirli con attenzione e soprattutto saperli condizionare. Un
tema è della massima importanza. Le più importanti regole europee, quelle sui limiti al deficit del bilancio
pubblico, sono “stupide”, come disse l’allora Presidente della Commissione Romano Prodi. Come ben
sappiamo a nostre spese, obbligano a politiche restrittive anche paesi in recessione, aggravandola. Non
distinguono fra spese pubbliche correnti (che si ripetono ogni anno) e di investimento (che sono una
tantum). E’ come fossimo obbligati a comprare un’auto o una casa solo e integralmente con il reddito di un
anno, senza poter fare un mutuo e quindi calcolare solo le rate. Ma se i paesi europei non investono – in
innovazione, in infrastrutture, nei trasporti, nelle città – la loro crescita rimane stentata.

Su questo si è aperto uno spiraglio. I Consigli Europei (i summit dei capi di governo) del giugno 2012 e del
marzo 2013 hanno affermato la possibilità di “bilanciare le necessità di investimenti pubblici produttivi con
gli obiettivi della disciplina fiscale”; hanno cioè aperto alla possibilità di non conteggiare nei limiti imposti al
deficit pubblici (il famoso 3%) alcune spese infrastrutturali.
Il 3 luglio il Presidente della Commissione
Barroso ha annunciato che si sarebbe lavorato per questo già sui bilanci del 2014. E’ una possibilità assai
minore di ciò che servirebbe. Riguarda solo gli stati che hanno i conti in ordine, per ammontari che poi
dovranno essere recuperati negli anni successivi, per tipologie precise di spesa. Ma è una possibilità
importante per l’Italia: perché è ormai è uno dei paesi europei con i conti maggiormente in ordine (mai
dimenticare che nel 2013 abbiamo un avanzo pubblico primario, cioè al netto degli interessi, migliore di
quello tedesco: 2,4 contro 2,3!); perché le tipologie di spese previste sono le grandi reti infrastrutturali
europee e i fondi strutturali. In sintesi ciò che è principalmente in discussione è la possibilità, a partire
dall’anno prossimo, di escludere dal Patto di Stabilità il cofinanziamento nazionale dei fondi strutturali.

Per noi sarebbe fondamentale: perché abbiamo ancora moltissimo da spendere delle risorse del vecchio
ciclo 2007-13 e questo accelererebbe la spesa; perché abbiamo pochissimi altri margini per spesa di
investimento (che in infatti in Italia si è paurosamente ristretta: non manuteniamo e aumentiamo quasi più
il nostro patrimonio pubblico); perché si concentrerebbe molto al Sud: dove la crisi economica è ancora
gravissima. Consentirebbe di realizzare opere importanti, di sostenere al tempo stesso domanda e occupazione, e di creare un volano di sviluppo anche per il Centro Nord: sia perché una parte dei Fondi
Europei sono anche lì, sia perché ogni euro speso al Sud crea domanda aggiuntiva per circa 30 centesimi al
Centro-Nord.

Tutto bene? Neanche per idea. La Germania e altri stati rigoristi stanno facendo di tutto, fin da quando si è
iniziato a discutere concretamente, per annullare nei fatti questa opzione, ponendo tali e tante condizioni
da renderla irrilevante. All’interno della Commissione si discute molto. Il Parlamento Europeo è mobilitato.
Martedì voterà un’importante risoluzione proposta dall’eurodeputata campana Erminia Mazzoni (PPE) che
prova a contrastare queste manovre. Vi sono ancora margini per un’interpretazione delle norme più
ragionevole e ampia. Si decide a breve.

Questo fa nascere alcune domande di fondo: perché il Governo italiano non fa di questo tema una priorità
politica assoluta, con il sostegno del Parlamento? Perché PD e PDL, sull’onda della fiducia votata l’altro
giorno, non trovano su questo una forte posizione comune? L’attenzione al Mezzogiorno non può stare
solo in futuribili grande opere immancabilmente presenti in ogni discorso: ma anche in azioni e obiettivi
concreti, precisi, immediati.
Perché il Presidente Letta non vola a Berlino e a Bruxelles provando, una volta tanto, a prendere una
posizione forte con la Cancelliera Merkel: a spiegarle che l’economia italiana è ancora allo stremo, che i
rischi sociali e politici sono ancora enormi, che abbiamo fatto enormi, straordinari, sacrifici, che su questi
temi il Consiglio si è già espresso e che le regole europee non possono essere sempre a senso unico?
A spiegarle che il rilancio dell’economia italiana è interesse anche tedesco, e che, se non proviamo a costruire un’Europa più ragionevole e attenta al benessere di tutti i suoi cittadini, l’ondata populista e nazionalista alla lunga potrebbe travolgerci.


Fonte : Il Mattino, 7 ottobre 2013

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