martedì 5 marzo 2013

Gianfranco Viesti: “Il Sud non vive sulle spalle di chi produce”


Non è affatto vero che il sud vive sulle spalle di chi produce. Tutti gli indicatori, le cifre contenute nei documenti ufficiali del governo,  dicono il contrario, che il Sud in questi anni è stato privato di risorse che gli erano dovute. Dobbiamo combattere il pregiudizio che dipinge il Sud antropologicamente diverso, perciò incapace di emulare gli standard europei. Il sud deve fare però la sua parte, responsabilizzandosi”. Parliamo di Mezzogiorno, Europa e federalismo con il professor Gianfranco Viesti, ordinario di Economia applicata presso la Facoltà di Scienze politiche dell’Università di Bari.
Gianfranco Viesti professore di Economia applicata presso la Facoltà di Scienze politiche dell’Università di Bari.
Gianfranco Viesti (laurea in economia all’Università Bocconi) ha lavorato a lungo presso il Centro Studi sui processi di Internazionalizzazione della Bocconi e  l’Istituto per la Ricerca Sociale (Milano). Ha collaborato con l’Ocse, la Banca Mondiale e l’ILO in Asia e in America Latina. Ha fatto anche parte del Consiglio di amministrazione della Cassa Depositi e Prestiti. Figura di spicco nei Comitati scientifici dell’Osservatorio sulle Piccole e Medie Imprese, di Legambiente, del Consiglio Italiano per le Scienze Sociali,  oggi è Presidente dell’Ente Fiera del Levante. Tra i più insigni intellettuali meridionalisti, fra i suoi ultimi lavori possiamo citareMezzogiorno a tradimento. Il Nord, il Sud e la politica che non c’è” (Laterza Roma-Bari, 2009) e “Più lavoro, più talenti. Giovani, donne, Sud. Le risposte alla crisi”  (Donzelli, Roma, marzo 2010). L’ultima sua fatica, appena uscita per i tipi di Laterza, è “Il Mezzogiorno vive sulle spalle dell’Italia che produce: falso!”.
Professor Viesti, recentemente  ha affermato che la crisi potrebbe essere l’occasione per ripensare al Sud e alle sue debolezze e ricercare con creatività soluzioni ai suoi problemi. Può chiarire questa sua posizione?
Di solito si pensa molto poco al Sud perché si ritiene che tutto sia stato già fatto, tutto sia stato sperimentato e non ci sia più nulla da fare. Ma questo tipo di ragionamento adesso si può applicare allo stesso modo all’Italia. Anche l’Italia appare come un paese travolto dalle sue difficoltà. E proprio per questo che la crisi, economica e politica, deve obbligarci a mettere da parte questo tipo di pregiudizi e, quindi, a tornare a ripensare all’Italia ed al Mezzogiorno partendo dalle loro potenzialità, dalle loro possibilità. È difficile, lo so, ma è l’unica cosa da fare.
In un saggio del 2003 lei diceva che il  Mezzogiorno è una buona scusa per non affrontare realmente i problemi italiani. Vogliamo esplicitarlo questo concetto?
E certo, perché si ritiene che tantissime cose positive che accadono negli altri paesi europei, in Italia non si possono fare perché gli italiani sono fatti in maniera diversa, perché da noi le cose vanno in certo modo. Il Mezzogiorno, secondo questa tesi, è l’Italia al quadrato, nel senso che si ritiene che al Sud sia impossibile fare tutta una serie di cose perché l’atteggiamento delle persone, delle istituzioni, della politica, è di basso livello ed impediscono al Sud di diventare un posto normale, secondo quelli che sono gli standard europei. Se non combattiamo questi pregiudizi le cose che si possono fare diventano pochissime. Non dobbiamo accettare di farci vincere dal peso dei guai, del retaggio del passato, che potrebbero gravare molto negativamente anche sul futuro.
Si può affermare che negli ultimi anni c’è stata una drastica redistribuzione di risorse   dal Sud al Centro nord?
Certamente.  Ed è stata ancora più grave perché si sono associate due cose: la crisi economica, con un calo di reddito, di benessere, per tutti, e, nell’ambito di questo calo, un’azione che ha penalizzato molto più il Sud rispetto al resto del paese. Questa azione è stata più intensa, forte, più determinata tra il 2008 ed il 2011, durante il governo guidato da Berlusconi. I numeri di questa redistribuzione sono contenuti nei documenti ufficiali dei governi, sono nelle cifre relative agli investimenti pubblici ed in quelle che indicano la spesa corrente procapite. Ho provato a richiamare queste cifre in un modo comprensibile per il grande pubblico in un libro appena uscito per i tipi di Laterza, che si intitola: “Il Mezzogiorno vive sulle spalle dell’Italia che produce: falso!”. In esso sono trattati, argomentati, anche questi fenomeni che sono ignorati da gran parte dell’opinione pubblica.
Cosa può fare lo Stato per aiutare il Mezzogiorno ad uscire dalla sua condizione?
Deve fare lo Stato. Deve svolgere bene le sue funzioni di base, deve garantire innanzitutto la sicurezza dei cittadini, intraprendere una guerra finale senza quartiere contro le mafie, innalzando il livello di legalità diffusa. Deve garantire il territorio e la sicurezza delle persone dai rischi geologici, sismici, idraulici, mettendo in sicurezza il territorio. Deve far si che le scuole siano dei posti civili, dove tutti i ragazzi possano andare ad imparare senza rischi per la propria sicurezza, che le università pubbliche nel sud sopravvivano, vengano sostenute, cosa nient’affatto garantita dopo le misure degli ultimi governi, compreso quello guidato dal professor Monti. Deve consentire ai cittadini del Sud di muoversi sul territorio in modi e con costi ragionevoli. La circostanza che sia impossibile usare un qualsiasi mezzo pubblico per andare da Bari a Cosenza è totalmente inaccettabile: non è possibile che un cittadino di Bari o di Cosenza debba avere solo l’automobile come possibilità per recarsi da una città all’altra. Non è più tempo di pensare a futuribili, grandi investimenti in infrastrutture, non è un problema di binari, per intenderci, ma di treni.
E l’Europa?
L’Europa può fare moltissimo. È assolutamente decisiva per il futuro di tutti noi e bisognerebbe parlarne molto di più. L’Europa deve fare però due cose. La prima è  modificare questa linea di politica economica di austerità cieca e assoluta, che sta portando le società europee in una situazione di grande difficoltà e di grande pericolo, che io vedo molto simile a quello degli anni Trenta del Novecento. Ce lo dice quello che sta accadendo in Grecia, in Spagna, ed oggi anche in Italia. L’austerità da sola genera recessione e quindi altra austerità. La seconda cosa che deve fare l’Europa è avere più coraggio, come l’ha avuto moltissime volte in passato, nell’investimento sul suo futuro. Deve invertire questa tendenza autolesionista a ridurre il bilancio comunitario, a bloccare le grandi infrastrutture europee, a contenere i grandi progetti di ricerca comunitaria. Queste misure di politica economica sono decisive per il rilancio della competitività delle nostre economie e, quindi, del benessere nell’intera Europa.
Il dibattito sul federalismo fiscale si è da tempo arenato. A che punto è l’applicazione dei  decreti attuativi della Legge 42 del 2009?
Pessimo, perché siamo in mezzo al guado. Il primo lavoro che fu fatto con i governi precedenti è stato a mio avviso molto negativo, perché confuso ed, in misura rilevante, ispirato dall’obiettivo di mantenere una parte più grande possibile di gettito fiscale nelle regioni più ricche. Parliamo, per fare un esempio, del problema del finanziamento delle amministrazioni comunali, soprattutto di quelle del Mezzogiorno, lasciato dalla riforma nell’assoluta incertezza. Con il governo Monti l’operazione si è del tutto arenata, il che è un bene perché non si è proseguito su quelle linee, ma è un male perché ci lascia in una condizione di assoluta incertezza. Qualsiasi sindaco del Mezzogiorno è alle prese con un’assoluta difficoltà nel fornire ai propri cittadini più elementari, di base. Se a ciò si aggiunge che negli ultimi anni sono stati ridotti del 90% le risorse nazionali per le politiche sociali, cioè le politiche per i più deboli, le famiglie più numerose, la non autosufficienza, si capisce che proprio in questo periodo di forte emergenza, indotta dalla crisi, il peso dei servizi di assistenza è stato scaricato tutto sulle spalle delle amministrazioni locali, che non sono assolutamente in grado di farvi fronte.
Crede  che il federalismo sia la risposta giusta ai problemi dell’Italia?
Dunque, la parola in sé non mi piace. Credo che un ragionevole grado di decentramento delle responsabilità sia una buona cosa. Deve essere però ragionevole: molte cose le deve fare il governo nazionale, alcune cose devono farle le regioni e i comuni. Ma il decentramento deve accompagnarsi ad una responsabilità fiscale di tutti, soprattutto nel Mezzogiorno. Voglio dire che è comunque finito il tempo delle risorse indefinite e della possibilità, quando finiscono i soldi, di indebitarsi con lo Stato. Per il Sud il decentramento può essere utile perché così è chiamato ad essere responsabile di ciò che fa.
Quali responsabilità imputerebbe alle classi dirigenti meridionali per le condizioni in cui attualmente versano le regioni del Sud?
Molte, ma meno di quelle che normalmente si attribuiscono loro. Nel dibattito italiano il Sud va male perché tutte le colpe sono delle classi dirigenti locali, ignorando il quadro politico nazionale, la situazione dei bilanci dei comuni, la dotazione di infrastrutture. Sicuramente, il quadro è molto più vario e la cosa veramente  importante non è dire che la classi dirigenti meridionali fanno schifo, come dicono da più parti nel mondo politico e tra gli opinionisti, ma riconoscere che nel Mezzogiorno ci sono amministrazioni buone ed altre molto cattive. Il punto è quindi capire perché alcune amministrazioni sono efficienti, virtuose, ed altre no.
twitter: @profgviesti
Fonte: Calabriaonwen

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Non è affatto vero che il sud vive sulle spalle di chi produce. Tutti gli indicatori, le cifre contenute nei documenti ufficiali del governo,  dicono il contrario, che il Sud in questi anni è stato privato di risorse che gli erano dovute. Dobbiamo combattere il pregiudizio che dipinge il Sud antropologicamente diverso, perciò incapace di emulare gli standard europei. Il sud deve fare però la sua parte, responsabilizzandosi”. Parliamo di Mezzogiorno, Europa e federalismo con il professor Gianfranco Viesti, ordinario di Economia applicata presso la Facoltà di Scienze politiche dell’Università di Bari.
Gianfranco Viesti professore di Economia applicata presso la Facoltà di Scienze politiche dell’Università di Bari.
Gianfranco Viesti (laurea in economia all’Università Bocconi) ha lavorato a lungo presso il Centro Studi sui processi di Internazionalizzazione della Bocconi e  l’Istituto per la Ricerca Sociale (Milano). Ha collaborato con l’Ocse, la Banca Mondiale e l’ILO in Asia e in America Latina. Ha fatto anche parte del Consiglio di amministrazione della Cassa Depositi e Prestiti. Figura di spicco nei Comitati scientifici dell’Osservatorio sulle Piccole e Medie Imprese, di Legambiente, del Consiglio Italiano per le Scienze Sociali,  oggi è Presidente dell’Ente Fiera del Levante. Tra i più insigni intellettuali meridionalisti, fra i suoi ultimi lavori possiamo citareMezzogiorno a tradimento. Il Nord, il Sud e la politica che non c’è” (Laterza Roma-Bari, 2009) e “Più lavoro, più talenti. Giovani, donne, Sud. Le risposte alla crisi”  (Donzelli, Roma, marzo 2010). L’ultima sua fatica, appena uscita per i tipi di Laterza, è “Il Mezzogiorno vive sulle spalle dell’Italia che produce: falso!”.
Professor Viesti, recentemente  ha affermato che la crisi potrebbe essere l’occasione per ripensare al Sud e alle sue debolezze e ricercare con creatività soluzioni ai suoi problemi. Può chiarire questa sua posizione?
Di solito si pensa molto poco al Sud perché si ritiene che tutto sia stato già fatto, tutto sia stato sperimentato e non ci sia più nulla da fare. Ma questo tipo di ragionamento adesso si può applicare allo stesso modo all’Italia. Anche l’Italia appare come un paese travolto dalle sue difficoltà. E proprio per questo che la crisi, economica e politica, deve obbligarci a mettere da parte questo tipo di pregiudizi e, quindi, a tornare a ripensare all’Italia ed al Mezzogiorno partendo dalle loro potenzialità, dalle loro possibilità. È difficile, lo so, ma è l’unica cosa da fare.
In un saggio del 2003 lei diceva che il  Mezzogiorno è una buona scusa per non affrontare realmente i problemi italiani. Vogliamo esplicitarlo questo concetto?
E certo, perché si ritiene che tantissime cose positive che accadono negli altri paesi europei, in Italia non si possono fare perché gli italiani sono fatti in maniera diversa, perché da noi le cose vanno in certo modo. Il Mezzogiorno, secondo questa tesi, è l’Italia al quadrato, nel senso che si ritiene che al Sud sia impossibile fare tutta una serie di cose perché l’atteggiamento delle persone, delle istituzioni, della politica, è di basso livello ed impediscono al Sud di diventare un posto normale, secondo quelli che sono gli standard europei. Se non combattiamo questi pregiudizi le cose che si possono fare diventano pochissime. Non dobbiamo accettare di farci vincere dal peso dei guai, del retaggio del passato, che potrebbero gravare molto negativamente anche sul futuro.
Si può affermare che negli ultimi anni c’è stata una drastica redistribuzione di risorse   dal Sud al Centro nord?
Certamente.  Ed è stata ancora più grave perché si sono associate due cose: la crisi economica, con un calo di reddito, di benessere, per tutti, e, nell’ambito di questo calo, un’azione che ha penalizzato molto più il Sud rispetto al resto del paese. Questa azione è stata più intensa, forte, più determinata tra il 2008 ed il 2011, durante il governo guidato da Berlusconi. I numeri di questa redistribuzione sono contenuti nei documenti ufficiali dei governi, sono nelle cifre relative agli investimenti pubblici ed in quelle che indicano la spesa corrente procapite. Ho provato a richiamare queste cifre in un modo comprensibile per il grande pubblico in un libro appena uscito per i tipi di Laterza, che si intitola: “Il Mezzogiorno vive sulle spalle dell’Italia che produce: falso!”. In esso sono trattati, argomentati, anche questi fenomeni che sono ignorati da gran parte dell’opinione pubblica.
Cosa può fare lo Stato per aiutare il Mezzogiorno ad uscire dalla sua condizione?
Deve fare lo Stato. Deve svolgere bene le sue funzioni di base, deve garantire innanzitutto la sicurezza dei cittadini, intraprendere una guerra finale senza quartiere contro le mafie, innalzando il livello di legalità diffusa. Deve garantire il territorio e la sicurezza delle persone dai rischi geologici, sismici, idraulici, mettendo in sicurezza il territorio. Deve far si che le scuole siano dei posti civili, dove tutti i ragazzi possano andare ad imparare senza rischi per la propria sicurezza, che le università pubbliche nel sud sopravvivano, vengano sostenute, cosa nient’affatto garantita dopo le misure degli ultimi governi, compreso quello guidato dal professor Monti. Deve consentire ai cittadini del Sud di muoversi sul territorio in modi e con costi ragionevoli. La circostanza che sia impossibile usare un qualsiasi mezzo pubblico per andare da Bari a Cosenza è totalmente inaccettabile: non è possibile che un cittadino di Bari o di Cosenza debba avere solo l’automobile come possibilità per recarsi da una città all’altra. Non è più tempo di pensare a futuribili, grandi investimenti in infrastrutture, non è un problema di binari, per intenderci, ma di treni.
E l’Europa?
L’Europa può fare moltissimo. È assolutamente decisiva per il futuro di tutti noi e bisognerebbe parlarne molto di più. L’Europa deve fare però due cose. La prima è  modificare questa linea di politica economica di austerità cieca e assoluta, che sta portando le società europee in una situazione di grande difficoltà e di grande pericolo, che io vedo molto simile a quello degli anni Trenta del Novecento. Ce lo dice quello che sta accadendo in Grecia, in Spagna, ed oggi anche in Italia. L’austerità da sola genera recessione e quindi altra austerità. La seconda cosa che deve fare l’Europa è avere più coraggio, come l’ha avuto moltissime volte in passato, nell’investimento sul suo futuro. Deve invertire questa tendenza autolesionista a ridurre il bilancio comunitario, a bloccare le grandi infrastrutture europee, a contenere i grandi progetti di ricerca comunitaria. Queste misure di politica economica sono decisive per il rilancio della competitività delle nostre economie e, quindi, del benessere nell’intera Europa.
Il dibattito sul federalismo fiscale si è da tempo arenato. A che punto è l’applicazione dei  decreti attuativi della Legge 42 del 2009?
Pessimo, perché siamo in mezzo al guado. Il primo lavoro che fu fatto con i governi precedenti è stato a mio avviso molto negativo, perché confuso ed, in misura rilevante, ispirato dall’obiettivo di mantenere una parte più grande possibile di gettito fiscale nelle regioni più ricche. Parliamo, per fare un esempio, del problema del finanziamento delle amministrazioni comunali, soprattutto di quelle del Mezzogiorno, lasciato dalla riforma nell’assoluta incertezza. Con il governo Monti l’operazione si è del tutto arenata, il che è un bene perché non si è proseguito su quelle linee, ma è un male perché ci lascia in una condizione di assoluta incertezza. Qualsiasi sindaco del Mezzogiorno è alle prese con un’assoluta difficoltà nel fornire ai propri cittadini più elementari, di base. Se a ciò si aggiunge che negli ultimi anni sono stati ridotti del 90% le risorse nazionali per le politiche sociali, cioè le politiche per i più deboli, le famiglie più numerose, la non autosufficienza, si capisce che proprio in questo periodo di forte emergenza, indotta dalla crisi, il peso dei servizi di assistenza è stato scaricato tutto sulle spalle delle amministrazioni locali, che non sono assolutamente in grado di farvi fronte.
Crede  che il federalismo sia la risposta giusta ai problemi dell’Italia?
Dunque, la parola in sé non mi piace. Credo che un ragionevole grado di decentramento delle responsabilità sia una buona cosa. Deve essere però ragionevole: molte cose le deve fare il governo nazionale, alcune cose devono farle le regioni e i comuni. Ma il decentramento deve accompagnarsi ad una responsabilità fiscale di tutti, soprattutto nel Mezzogiorno. Voglio dire che è comunque finito il tempo delle risorse indefinite e della possibilità, quando finiscono i soldi, di indebitarsi con lo Stato. Per il Sud il decentramento può essere utile perché così è chiamato ad essere responsabile di ciò che fa.
Quali responsabilità imputerebbe alle classi dirigenti meridionali per le condizioni in cui attualmente versano le regioni del Sud?
Molte, ma meno di quelle che normalmente si attribuiscono loro. Nel dibattito italiano il Sud va male perché tutte le colpe sono delle classi dirigenti locali, ignorando il quadro politico nazionale, la situazione dei bilanci dei comuni, la dotazione di infrastrutture. Sicuramente, il quadro è molto più vario e la cosa veramente  importante non è dire che la classi dirigenti meridionali fanno schifo, come dicono da più parti nel mondo politico e tra gli opinionisti, ma riconoscere che nel Mezzogiorno ci sono amministrazioni buone ed altre molto cattive. Il punto è quindi capire perché alcune amministrazioni sono efficienti, virtuose, ed altre no.
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Fonte: Calabriaonwen

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