Di Antonio Coppola
Fonte: Linkiesta
Quando Mario Monti è stato chiamato a guidare un governo tecnico, per riordinare e risanare le dissestate finanze dello Stato, gli italiani hanno tirato un sospiro di sollievo, pur essendo consapevoli che sarebbero stati chiamati a sopportare dei sacrifici, a scomputo dell’enorme debito statale accumulatosi negli anni precedenti.
L’uomo godeva di fama di esperto in economia e di indubbia credibilità internazionale, acquisita sopratutto attraverso lunga esperienza all’estero.
E quando Monti, in una delle prime dichiarazioni ufficiali, affermò che il processo di risanamento sarebbe avvenuto nel rispetto dei principi di ragionevolezza ed equità, si tranquillizzarono ulteriormente e guardarono con simpatia ai nuovi governanti, privi di esperienza politica – e, per fortuna, di partito – dotati tuttavia di profondo bagaglio tecnico e di riconosciuta onestà intellettuale.
Ma il protrarsi della fase di transizione e le indecisioni del governo sul nuovo assetto da dare all’economia del paese cominciarono a far sorgere le prime perplessità.
Dubbi che si acuirono quando cominciò a trasparire, con sempre maggiore evidenza, l’esigenza del governo di barcamenarsi tra le spinte – quasi sempre contrapposte – dei due maggiori partiti che formavano la singolare – se non sconcertante – coalizione di maggioranza.
La sbandierata autonomia del governo tecnico ha finito, così, col perdere – se mai l’ha avuta – consistenza, per dar luogo a soluzioni di chiaro compromesso, del tutto prive di reale capacità risolutiva (valga, per tutte, la cosiddetta riforma dell’articolo 18).
Ma è stato l’indirizzo di fondo assunto dall’economista Monti a generare nel paese progressivamente, con la delusione, una crescente preoccupazione per il presente e, più ancora, per il futuro dell’Italia.
Monti, infatti, venuto a trovarsi di fronte all’ingente passivo delle finanze dello Stato, sotto la spinta di input ad opera di alcuni Stati dominanti in Europa, ha adottato il più scontato dei rimedi: aumentare le tasse!
E lo ha fatto non solo in modo incontrollato – vale a dire in modo incongruo e senza rendersi conto degli effetti recessivi che iniziative del genere inevitabilmente comportano – ma anche in palese violazione del principio di equità, sbandierato all’inizio del mandato.
È scaturita, così, una situazione di malessere generale, perchè la tassazione, spesso indiretta, ha finito col colpire le fasce più deboli del paese, vale a dire i pensionati, gli artigiani, i piccoli imprenditori, per non parlare dei disoccupati – che hanno definitivamente perso la speranza di un posto di lavoro.
I dati statistici relativi ai suicidi, al tasso di disoccupazione, ai fallimenti ed alle chiusure di aziende e negozi sono eloquenti (solo a Napoli sono stati chiusi negli ultimi tempi ben 6500 negozi). Il paese è allo stremo.
Eppure Mario Monti, da esperto economista, avrebbe dovuto conoscere il modello adottato, in situazione analoga, dal re borbone Ferdinando II.
Venuto a trovarsi, a seguito degli avvenimenti del 1820-21, di fronte ad un enorme deficit del bilancio del Regno delle due Sicilie, che si trascinava di anno in anno al punto che veniva definito “debito galleggiante”, Ferdinando deciso a risanare le finanze dello stato, non solo non fece ricorso a nuove tasse ma diminuì notevolmente quelle esistenti, anche le più lucrative (come quella sul macinato); in particolare, non volle chiedere sacrifici alla proprietà ed all’industria, nel timore di arrecare loro ferite gravi.
Contestualmente ricorse alla riduzione della spesa pubblica, ma in modo veramente equo ed illuminato, chiedendo sacrifici solo a coloro che beneficavano di pubbliche benemerenze e di brillanti carriere: il che faceva presupporre un benessere eccedente le normali esigenze.
Infine il re borbone incentivò le opere pubbliche.
Infine il re borbone incentivò le opere pubbliche.
Si creò così nel regno un processo virtuoso che, attraverso il fiorire delle attività d’impresa risanò in un triennio l’economia ed eliminò del tutto la disoccupazione.
A questo punto il raffronto tra Mario e Ferdinando è inevitabile quanto impietoso. Il grande economista dei tempi nostri ha sostenuto – e sembra sostenere tuttora – una politica finanziaria meramente ragionieristica, priva di slanci vitali, fatta di compressione dell’esistenza: il che non poteva non comportare la grave recessione che il paese vive.
Il re borbone, per converso, ha dimostrato una intelligenza ed una cultura di statista che va ben al di la di un tecnicismo autocratico.
Sorprende il fatto che Monti abbia del tutto ignorato la storia del re Ferdinando di Borbone.
Forse il compassato e paludato economista del Nord non è riuscito nemmeno ad immaginare che un re borbone, considerato nell’immaginario collettivo come gaudente e burlone, potesse impartire la lezione di una politica economica di illuminato respiro, in grado di assicurare il superamento di una profonda crisi attraverso il miglioramento delle condizione operative e di vita dei cittadini, piuttosto che mediante l’adozione di misure fiscali opprimenti e scoraggianti, destinate a spegnere alla radice lo slancio vitale di ogni iniziativa imprenditoriale.
Fonte: http://www.linkiesta.it/blogs/dialogando/monti-sbaglia-salvare-l-italia-dovrebbe-copiare-ferdinando-di-borbone#ixzz29ZdkZT79
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