Fu generale dei briganti contro l’esercito piemontese, antieroe dimenticato
di Gian Ugo BertiFonte: Il Tirreno
PORTOFERRAIO. Ci voleva uno sceneggiato televisivo, andato in onda alcuni mesi fa, per farlo di nuovo conoscere agli italiani. Siamo però certi che, già oggi, tanti, troppi, se lo sono scordato come avvenuto dopo altre iniziative. Eppure Carmine Crocco detto Donatello, dal nome del nonno paterno Donato, con il grado di “generale” combattè fieramente contro Giuseppe Garibaldi e l’esercito piemontese per difendere la propria terra. Venne sconfitto, ma ciò non rappresenta un motivo sufficiente - crediamo – per azzerarne la memoria. Forse perchè è anche più noto come il “bandito di Lucania”.
Nessuno lo nega, nemmeno lui nell’autobiografia. I delitti e le efferatezze di cui s’è macchiato si commentano da soli. Ma una critica storica oggettiva (non facile da tramandare alle nuove generazioni, anche se sono trascorsi 107 anni dalla scomparsa), pur tenendo conto di questi aspetti assai diversi, della sua esistenza, non può volutamente cancellarlo. Comunque lo si voglia inquadrare è stato un protagonista delle vicende, non sempre chiare, del nostro Risorgimento.
Crocco non è stato il solo, né sarà l’ultimo ad affrontare sentenze dei posteri discordanti, ma il fatto che i libri scolastici di storia, dove la coscienza dei giovani è più facilmente plasmabile, non ne facciano menzione, rappresenta un elemento di partenza tutt’altro che obiettivo ed attendibile, certo una presa di posizione che sa di scelta di campo. Già la notizia della scomparsa non venne riportata dalla stampa dell’epoca. Non che se ne dovesse parlare della morte d’un bandito ergastolano. L’evento, giornalisticamente, poteva non costituire motivo di particolare interesse per la cronaca, soprattutto a così ampia distanza di tempo da quegli avvenimenti. In ogni caso, si trattava della conclusione d’ un percorso che aveva a lungo segnato la storia dell’unità d’Italia. Un compromesso però lo si potrebbe oggi trovare in un duplice gioco di parole: non è stato un bandito comune, né un comune rivoluzionario. La sua figura è in pratica espressione, forse tra le più forti come personalità e carisma, del brigatismo meridionale sorto come reazione ad un potere, quello sabaudo, che prima ha illuso e promesso, poi di fatto ha tradito, considerando questi patrioti come delinquenti, dei fuorilegge. Da qui, la loro volontà di costituire con ogni mezzo un’autonomia a difesa delle proprie tradizioni e della propria cultura.
Potremo definirli come vittime della logica politica, che prima li ha usati per contrastare e superare i Borboni nel nome d’una effimera, ma credibile uguaglianza, quindi ha di fatto mantenuto la situazione sociale precedente. A quel punto, per loro, l’esercito piemontese non appare più sinonimo di liberazione, bensì d’occupazione. Ed ecco che s’accende la scintilla della rivolta e la ricerca d’un alleato, come appunto i Borboni, gli antichi padroni, in quel frangente soltanto il male minore. Ciò che ne scaturisce, non può essere che la naturale conseguenza d’una forzata unione di genti, profondamente diverse, che la politica ha voluto unificare, alla faccia delle radici storiche di ogni singola popolazione. Inascoltato, all’epoca, fu in particolare Carlo Cattaneo – tra i più lungimiranti e duttili interpreti d’una situazione così fragile e delicata - quando parlava della opportunità di creare una federazione di Stati, ciascuna con le proprie autonomie, nel contesto d’un governo centrale.
Abbiamo accennato alla crudeltà di Crocco e dei suoi uomini. Niente di più vero: 67 omicidi,7 tentati omicidi,4 attentati all’ordine pubblico,5 ribellioni, 20 estorsioni, 15 incendi di case e biche con un danno economico di oltre 1 milione e duecentomila lire.
Le motivazioni della sentenza di morte non sono da meno come omicidio volontario, formazione di banda armata,grassazione, sequestro di persona e ribellione contro lo Stato. Ma quale Stato, ci si deve chiedere? Quello che ha chiesto il suo aiuto contro i Borboni e che non è andato troppo per il sottile nel reclutare uomini e formare un vero e proprio esercito oppure quello che ha voluto eliminarlo perché diventato ormai scomodo e pericoloso per l’opinione pubblica italiana ed internazionale? Si parla in particolare di soprusi e torture, ma le testimonianze riferiscono atrocità compiute da entrambe le parti, senza esclusione di colpi. Accanto ai briganti combattevano anche le donne e le loro donne, alla pari, vivendo alla macchia, abbandonando case e famiglie, immolandosi per i loro ideali. Ebbene torture ed infamie vennero compiute su di loro ed i loro cadaveri, esposti al ludibrio della gente a scopo d’immagine intimidatoria.
La guerra è guerra, da qualunque parte la si voglia vedere e, dai numeri, si trattò d’una guerra civile. Lapidaria in tal senso fu la risposta del generale dei bersaglieri, La Marmora, alla commissione parlamentare d’inchiesta: «In tre anni abbiamo fucilato 7151 briganti, altro non so e non posso dire».
Lo storico Valentino Romano scrive: «Più che d’un esercito unificatore, s’è trattato d’un esercito occupatore. A farne le spese sono state soprattutto le classi umili, non certo i galantuomini, cioè i veri fomentatori della rivolta, che se ne uscirono tutti per il rotto della cuffia, riuscendo a dimostrare un’innocenza che non avevano». Ancor oggi per la gente del meridione, Crocco è e rimane un eroe perché era uno di loro e per la loro terra s’è battuto, contro le ingiustizie sociali da qualunque parte fossero commesse.
C’è l’eroe istituzionale, quello cioè che gli Stati considerano tale per un’azione portata a compimento a favore di altri, anche con il sacrificio della vita. C’è poi l’eroe popolare, un mito, al di là del tempo, perché ha compiuto qualcosa di unico che, poi, è andato alimentandosi sulle ali della leggenda. Se i morti della guerra sono dunque tutti uguali, perché nessuno tornerà alle proprie famiglie, vincitori o vinti, bisogna spiegare alle giovani generazioni che anche gli eroi, proprio per quello in cui hanno creduto e vissuto, sono uguali.
I se ed i ma, lasciano il tempo che trovano e la storia, quella vera, anche con due opposte verità, andrebbe parimenti riscritta ogni volta, senza falsi pudori. Se i morti dunque non parlano, sta ai vivi tramandarne la memoria, anche davanti alla verità più dura e crudele.
Così che, coloro i quali s’apprestino a vivere la propria vita, sappiano riflettere e giudicare. Ed il primo passo in tal senso è l’istruzione scolastica, come mezzo d’informazione obiettiva ed, a conti fatti, coraggiosa. Altrimenti le guerre esisteranno sempre con l’illusione di cambiare anche se tutto, alla fine, rimarrà uguale.
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Fu generale dei briganti contro l’esercito piemontese, antieroe dimenticato
di Gian Ugo BertiFonte: Il Tirreno
PORTOFERRAIO. Ci voleva uno sceneggiato televisivo, andato in onda alcuni mesi fa, per farlo di nuovo conoscere agli italiani. Siamo però certi che, già oggi, tanti, troppi, se lo sono scordato come avvenuto dopo altre iniziative. Eppure Carmine Crocco detto Donatello, dal nome del nonno paterno Donato, con il grado di “generale” combattè fieramente contro Giuseppe Garibaldi e l’esercito piemontese per difendere la propria terra. Venne sconfitto, ma ciò non rappresenta un motivo sufficiente - crediamo – per azzerarne la memoria. Forse perchè è anche più noto come il “bandito di Lucania”.
Nessuno lo nega, nemmeno lui nell’autobiografia. I delitti e le efferatezze di cui s’è macchiato si commentano da soli. Ma una critica storica oggettiva (non facile da tramandare alle nuove generazioni, anche se sono trascorsi 107 anni dalla scomparsa), pur tenendo conto di questi aspetti assai diversi, della sua esistenza, non può volutamente cancellarlo. Comunque lo si voglia inquadrare è stato un protagonista delle vicende, non sempre chiare, del nostro Risorgimento.
Crocco non è stato il solo, né sarà l’ultimo ad affrontare sentenze dei posteri discordanti, ma il fatto che i libri scolastici di storia, dove la coscienza dei giovani è più facilmente plasmabile, non ne facciano menzione, rappresenta un elemento di partenza tutt’altro che obiettivo ed attendibile, certo una presa di posizione che sa di scelta di campo. Già la notizia della scomparsa non venne riportata dalla stampa dell’epoca. Non che se ne dovesse parlare della morte d’un bandito ergastolano. L’evento, giornalisticamente, poteva non costituire motivo di particolare interesse per la cronaca, soprattutto a così ampia distanza di tempo da quegli avvenimenti. In ogni caso, si trattava della conclusione d’ un percorso che aveva a lungo segnato la storia dell’unità d’Italia. Un compromesso però lo si potrebbe oggi trovare in un duplice gioco di parole: non è stato un bandito comune, né un comune rivoluzionario. La sua figura è in pratica espressione, forse tra le più forti come personalità e carisma, del brigatismo meridionale sorto come reazione ad un potere, quello sabaudo, che prima ha illuso e promesso, poi di fatto ha tradito, considerando questi patrioti come delinquenti, dei fuorilegge. Da qui, la loro volontà di costituire con ogni mezzo un’autonomia a difesa delle proprie tradizioni e della propria cultura.
Potremo definirli come vittime della logica politica, che prima li ha usati per contrastare e superare i Borboni nel nome d’una effimera, ma credibile uguaglianza, quindi ha di fatto mantenuto la situazione sociale precedente. A quel punto, per loro, l’esercito piemontese non appare più sinonimo di liberazione, bensì d’occupazione. Ed ecco che s’accende la scintilla della rivolta e la ricerca d’un alleato, come appunto i Borboni, gli antichi padroni, in quel frangente soltanto il male minore. Ciò che ne scaturisce, non può essere che la naturale conseguenza d’una forzata unione di genti, profondamente diverse, che la politica ha voluto unificare, alla faccia delle radici storiche di ogni singola popolazione. Inascoltato, all’epoca, fu in particolare Carlo Cattaneo – tra i più lungimiranti e duttili interpreti d’una situazione così fragile e delicata - quando parlava della opportunità di creare una federazione di Stati, ciascuna con le proprie autonomie, nel contesto d’un governo centrale.
Abbiamo accennato alla crudeltà di Crocco e dei suoi uomini. Niente di più vero: 67 omicidi,7 tentati omicidi,4 attentati all’ordine pubblico,5 ribellioni, 20 estorsioni, 15 incendi di case e biche con un danno economico di oltre 1 milione e duecentomila lire.
Le motivazioni della sentenza di morte non sono da meno come omicidio volontario, formazione di banda armata,grassazione, sequestro di persona e ribellione contro lo Stato. Ma quale Stato, ci si deve chiedere? Quello che ha chiesto il suo aiuto contro i Borboni e che non è andato troppo per il sottile nel reclutare uomini e formare un vero e proprio esercito oppure quello che ha voluto eliminarlo perché diventato ormai scomodo e pericoloso per l’opinione pubblica italiana ed internazionale? Si parla in particolare di soprusi e torture, ma le testimonianze riferiscono atrocità compiute da entrambe le parti, senza esclusione di colpi. Accanto ai briganti combattevano anche le donne e le loro donne, alla pari, vivendo alla macchia, abbandonando case e famiglie, immolandosi per i loro ideali. Ebbene torture ed infamie vennero compiute su di loro ed i loro cadaveri, esposti al ludibrio della gente a scopo d’immagine intimidatoria.
La guerra è guerra, da qualunque parte la si voglia vedere e, dai numeri, si trattò d’una guerra civile. Lapidaria in tal senso fu la risposta del generale dei bersaglieri, La Marmora, alla commissione parlamentare d’inchiesta: «In tre anni abbiamo fucilato 7151 briganti, altro non so e non posso dire».
Lo storico Valentino Romano scrive: «Più che d’un esercito unificatore, s’è trattato d’un esercito occupatore. A farne le spese sono state soprattutto le classi umili, non certo i galantuomini, cioè i veri fomentatori della rivolta, che se ne uscirono tutti per il rotto della cuffia, riuscendo a dimostrare un’innocenza che non avevano». Ancor oggi per la gente del meridione, Crocco è e rimane un eroe perché era uno di loro e per la loro terra s’è battuto, contro le ingiustizie sociali da qualunque parte fossero commesse.
C’è l’eroe istituzionale, quello cioè che gli Stati considerano tale per un’azione portata a compimento a favore di altri, anche con il sacrificio della vita. C’è poi l’eroe popolare, un mito, al di là del tempo, perché ha compiuto qualcosa di unico che, poi, è andato alimentandosi sulle ali della leggenda. Se i morti della guerra sono dunque tutti uguali, perché nessuno tornerà alle proprie famiglie, vincitori o vinti, bisogna spiegare alle giovani generazioni che anche gli eroi, proprio per quello in cui hanno creduto e vissuto, sono uguali.
I se ed i ma, lasciano il tempo che trovano e la storia, quella vera, anche con due opposte verità, andrebbe parimenti riscritta ogni volta, senza falsi pudori. Se i morti dunque non parlano, sta ai vivi tramandarne la memoria, anche davanti alla verità più dura e crudele.
Così che, coloro i quali s’apprestino a vivere la propria vita, sappiano riflettere e giudicare. Ed il primo passo in tal senso è l’istruzione scolastica, come mezzo d’informazione obiettiva ed, a conti fatti, coraggiosa. Altrimenti le guerre esisteranno sempre con l’illusione di cambiare anche se tutto, alla fine, rimarrà uguale.
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