Il Governo Monti presenta la sua riforma del lavoro come una di quelle fondamentali di cui il Paese ha bisogno, necessarie per fare dell’Italia un Paese moderno ed efficiente. In materia di innovazioni legislative sul lavoro, non si può certo dire che in Italia ci si annoi: ce n’è stata una nel 1997 (la Legge Treu) e una nel 2003 (la Legge Biagi). Tutte naturalmente storiche, improrogabili, risolutive. Tutte pensate da gente di sinistra e percepite come peggiorative delle condizioni dei lavoratori.
La riforma del Governo Monti si propone di intervenire sostanzialmente su tre fronti:
la tipologia dei contratti di lavoro,
la licenziabilità,
gli ammortizzatori sociali.
Il tema della licenziabilità – ovvero della modifica dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori - è quello più dibattuto, nella declinazione italica di dibattere: coagulare fazioni l’un contro l’altra armate che oscurano quasi del tutto l’oggetto del contendere. Il Governo vuole limitare fortemente il ricorso giudiziario da parte del lavoratore, circoscrivendo la possibilità del reintegro sul posto di lavoro solo ai licenziamenti illegittimi di natura discriminatoria. Ricordateil film Philadelphia con Tom Hanks, dove il protagonista veniva licenziato in quanto malato di AIDS? Ecco, in un caso del genere l’articolo 18 non viene abolito, ma anzi ne viene riconfermata l’estensione anche alle imprese con meno di 15 dipendenti. Ma chi ha visto il film ricorderà anche che i cattivi della storia non sono stati così maldestri da dichiarare l’intento discriminatorio. Ci sarà sempre una giustificazione economica, una ragione organizzativa, insomma un “mi dispiace ma … ” da parte dell’impresa. E, di fronte a un licenziamento per ragioni economiche, anche se riconosciute dal giudice come illegittime, si potrà contare solo su un indennizzo. Sarà invece il giudice a scegliere tra indennizzo e reintegro in caso di licenziamento illegittimo con motivi disciplinari.
Per quanto riguarda gli ammortizzatori sociali, il Governo vuole semplificare e risparmiare, creando un’assicurazione unica in luogo dei trattamenti di disoccupazione, mobilità e cassa integrazione attuali. L’intento semplificatorio è certamente condivisibile. La restrizione delle risorse finanziarie, che si aggiunge a mille altre misure analoghe, improntate cioè a far spendere meno allo Stato e a mettere in difficoltà le famiglie dei ceti sociali bassi e medi, è semplicemente suicida. Ma questa è un’altra storia.
Veniamo al disastro. Il Governo impone il contratto a tempo indeterminato come contratto dominante. Si tratta solo di propaganda, per il Governo e per il Sindacato. Prima di tutto perché, con le innovazioni in tema di licenziamento, il posto fisso – cioè quello a tempo indeterminato – non è più tale: l’imprenditore può cambiare l’organizzazione dell’impresa e licenziare, nella peggiore delle ipotesi a fronte di un indennizzo. Il secondo motivo per cui è criticabile questo aspetto della riforma è il fatto che l’appiattimento del lavoratore sulla figura del dipendente deprime ogni pratica di responsabilizzazione verso l’impresa. Va superata l’idea per cui al primo va lo stipendio e alla seconda gli utili, come se fossero due destini separati. Si possono invece sperimentare modalità per mettere in relazione i risultati dell’impresa con il reddito del lavoratore. Approfondiremo questo punto più avanti.
La critica di fondo che si può fare alla riforma del Governo, ed anche all’approccio del Sindacato, è che entrambe le parti interpretano lo sviluppo come produzione di cose. Più cose produciamo, più si crea lavoro. Più lavoro si crea, più è alto il reddito di cui dispongono i lavoratori per comprare le cose prodotte. Questo ciclo è finito. La battaglia da fare – se non come misura di emergenza – non è quella re-distributiva. E’ quella per un tempo liberato e una vita sostenibile, è quella per la felicità. Da questo punto di vista, i tre punti toccati dalla riforma del lavoro (contratti, licenziabilità, ammortizzatori sociali) possono vedere altre proposte.
Se i settori fondamentali di una nuova economia sono la cultura, l’agricoltura, la creatività, la tecnologia e l’ambiente, possiamo immaginare imprese piccole, elastiche, immateriali. In contesti del genere, un lavoratore non rimane legato all’impresa per via di un articolo di legge (sacrosanto in contesti industriali otto/novecenteschi) ma per la sua preparazione e i suoi apporti multipli, legati cioè all’investimento di suoi risparmi, alla conseguente partecipazione agli utili e al suo diritto alla trasparenza nella gestione. E’ un mondo partecipato e interconnesso quello che abbiamo davanti, con relazioni multiple e mobili, e allora perché non favorire questo processo anche nella vita economica? In questa ottica, in tema di contratti, le partite Iva (ovvero le collaborazioni da lavoro autonomo) e i contratti di associazione in partecipazione con apporto di lavoro non andavano combattuti, ma al contrario arricchiti.
Se lavoro per un’impresa, è naturale che il mio reddito dipenda dall’andamento di questa: scende in periodi di crisi, ma sale se, anche grazie a me, si raggiungono risultati positivi.
Se lavoro in un’impresa, limitatamente ai miei mezzi, dovrebbe essere possibile per me investirvi per finanziarla, a condizioni migliori di quelle che l’impresa stessa trova sul mercato dei capitali. Su questi aspetti il modello cooperativo e la legislazione di riferimento (L.142/2001, istituto dei ristorni, prestito sociale etc.) è più avanti e avrebbe potuto fornire una traccia davvero innovativa su cui lavorare.
Se lavoro in un’impresa e posso perdere il lavoro (è un fatto che siano migliaia i disoccupati di questi anni, vigente l’articolo 18), devo poter cambiare lavoro, nel senso di impararne un altro in tempi brevi e flessibili. Un bancario che diventa un cuoco, un’operaia che si propone come sarta, un docente precario che sceglie l’agricoltura … Sembra una barzelletta, invece dovrebbe essere uno dei primi diritti di cittadinanza e non solo il risultato straordinario di singoli coraggiosi.
Infine, se vivo svolgendo più lavori, magari con più imprese, ma come cittadino attivo e non col perenne rimpianto del “posto”, devo poter contare su un sistema fiscale e contributivo che stia dalla mia parte, e non più da quella delle corporazioni e dei mariuoli. Il regime dei minimi al 5% di Irpef, zero Iva, zero Irap è ottimo, sebbene appesantito da alcuni limiti all’accesso e alla durata.
Per i lavoratori autonomi, titolari di partita Iva ma non aderenti ad Ordini professionali, resta da riformare il fardello contributivo che invece si pensa di portare dal 28% attuale al 33% tra pochi anni. Confrontando il supporto assistenziale (aiuto fornito durante l’età lavorativa) e quello pensionistico futuro che l’INPS assicura a chi ha dai 40 anni in giù e appartiene a questa categoria, il prelievo del 33% rappresentata un vero e proprio furto sistematico e generalizzato.
Per i lavoratori autonomi, titolari di partita Iva ma non aderenti ad Ordini professionali, resta da riformare il fardello contributivo che invece si pensa di portare dal 28% attuale al 33% tra pochi anni. Confrontando il supporto assistenziale (aiuto fornito durante l’età lavorativa) e quello pensionistico futuro che l’INPS assicura a chi ha dai 40 anni in giù e appartiene a questa categoria, il prelievo del 33% rappresentata un vero e proprio furto sistematico e generalizzato.
Infine, gli ammortizzatori sociali.
In attesa di capire il funzionamento dell’assicurazione proposta dal Governo – che speriamo soprattutto rinsecchisca costi, procedure, uffici, luoghi di sottopotere delle parti sociali e proceda verso un salario minimo di cittadinanza – qualcuno dovrebbe chiedere a gran voce fondi di garanzia e contributi in conto capitale e in conto gestione per piccole imprese: una forma di micro-credito supportata dallo Stato.
Ricapitolando: la riforma del lavoro che nascerà dal gioco delle parti di governo, sindacato e grandi imprese incarna una visione desueta dell’economia e della società. Dobbiamo augurarci invece di lavorare meno e di lavorare meglio, di essere più felici potendo dedicare più tempo ai piaceri e agli affetti, non alla necessità di procurarci cose. Un mondo più felice vede sempre meno industrie e sempre più imprese legate alla cultura, all’ambiente, all’innovazione. In queste imprese non ci si rimane a lavorare per sempre, ma, fin tanto che ci si è dentro, si condividono lavoro, rischio e soddisfazioni. Si può immaginare di inventarsi un nuovo lavoro, magari come imprenditori di se stessi, grazie a curiosità che diventano abilità con percorsi formativi seri e tempestivi, con aiuti economici per partire e con un prelievo fiscale e contributivo compatibile.
Questo è il lavoro che vogliamo nel Paese che vogliamo, che un po’ somigli a felici esperienze del Mezzogiorno contadino, antiche eppure evidentemente all’avanguardia.
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