In un grosso pezzo d'Italia meno di un giovane su tre - e di una donna su quattro - ha un lavoro: una generazione digraziata vista nei rapporti ISTAT
Abbiamo passato gli ultimi tre anni a rincorrere i decimi di percentuali di un tasso di disoccupazione giovanile, diffuso mensilmente dall’ISTAT, che si aggirava intorno al 28-29 per cento. Finalmente, l’ultima rilevazione di qualche giorno fa ci informa che la cifra – simbolica, se non fosse carne e sangue dei ragazzi italiani – del 30 per cento è stata raggiunta e superata: il 30,1 per cento di novembre è il tasso più alto di sempre.
Il bollettino che reca le ultime dal fronte del mercato del lavoro e dalla trincea dell’inattività, rimbalza ripetutamente nel dibattito pubblico – “un giovane su tre è disoccupato” – fino al punto di esserne stravolta: spesso diventa “un giovane su tre non ha lavoro”, secondo l’uso molto approssimativo di numeri e statistiche che contraddistingue la classe dirigente del Paese.
È che questo dato, di per sé allarmante, in realtà ne nasconde altri più drammatici ed eloquenti. Se si estende l’età di riferimento (rispetto ai 15-24 anni del bollettino ISTAT, età in cui la gran parte dei giovani è ancora in formazione) fino ai 34 anni, ricomprendendo l’intera fase di ingresso sul mercato del lavoro anche di giovani altamente scolarizzati, motore dei processi di sviluppo nei Paesi avanzati e in quelli emergenti, dove ricoprono importanti responsabilità professionali e pubbliche; e se si prende in considerazione il “tasso di occupazione” (abbandonando il tasso di disoccupazione che, pur considerato un indicatore essenziale a livello comunitario, “non dice tutta la verità” di un mercato del lavoro segnato in larghe aree del Paese da elevati tassi di inattività e di “scoraggiamento”), allora la situazione diventa assai più rispondente alla realtà – e più preoccupante, dunque.
Nel Mezzogiorno, secondo le elaborazioni della Svimez, il tasso di occupazione giovanile (15-34 anni) nel 2010 era il 31,7 per cento (e la media dei primi tre trimestri del 2011 – in lievissimo miglioramento – non si discosta di molto da questa percentuale che nel 2009 era del 33,3 per cento) e per le donne non raggiungeva che il 23,3 per cento. Insomma, più che “un giovane su tre è disoccupato” si dovrebbe forse dire che in mezza Italia e non solo tra i giovanissimi “meno di un giovane su tre ha un lavoro” e “meno di una donna su quattro”: e senza guardare alla “qualità” dei lavori, caratterizzati – al Sud come al Nord – da precarietà e “mala occupazione” (sottopagamento, sottoinquadramento, eccetera: tutte forme, per chiamarle col loro nome, di sfruttamento del lavoro, magari “sofisticato” mentre rimane brutale come un tempo con i figli degli altri Sud).
La particolare pregnanza dei dati relativi alla fascia d’età tra i 25 e i 34 anni, che si presume “depurata” dal vasto effetto di partecipazione al mondo dell’istruzione, rivela due fenomeni che, accentuati al Sud, caratterizzano l’intero Paese e si combinano in un rapporto di causa effetto con le carenze strutturali del nostro sistema economico: una tendenza “patologica” a prolungare permanenza nel sistema formativo e tempi assai più dilatati di transizione dal mondo della formazione a un’occupazione caratterizzata da un grado accettabile di stabilità e sicurezza economica.
Il negativo dell’istantanea di una generazione che emerge dalle cifre citate è tutto in un altro dato: nel 2010, tra i 25 e i 34 anni, risultavano «inattivi» 1.162.000 giovani meridionali, il 41% della popolazione di riferimento (contro il 16,7 per cento del Centro-Nord, comunque più alto delle media Ue): un tasso di inattività che per le giovani donne raggiunge il 54,7 per cento. Al netto degli universitari, si tratta di un esercito di giovani donne e uomini che partecipa a un mondo “grigio”, tra la marginalità sociale, l’attività irregolare nell’economia sommersa e la ricerca estemporanea di lavori saltuari, attraverso canali informali se non di carattere clientelare. Una generazione che sfugge totalmente alle statistiche e che rischia di essere “perduta”. È quel fenomeno peculiare di scivolamento verso un’inattività “involontaria” o “mascherata”, fatta spesso non di reale disinteresse al lavoro ma di ricerca di lavoro non convenzionali (non rilevate dall’ISTAT, cioè) e del costante aumento dello “scoraggiamento” a cercare lavoro, che si concentra quasi esclusivamente nel Mezzogiorno.
Dal Mezzogiorno all’Italia intera: dal brain drain al brain waste
La condizione delle giovani generazioni (e in particolare delle giovani donne) è il frammento di specchio che più nitidamente restituisce l’immagine di un Sud alla deriva, e con esso del Paese intero. I dati sopra citati – con cui i pochi e sempre meno affezionati alle cose del Mezzogiorno hanno dimestichezza – ci hanno fatto per molto tempo pensare che la difficile condizione giovanile, nei suoi aspetti strutturali e istituzionali (mercato del lavoro e squilibri del sistema di welfare), fosse essenzialmente una “questione meridionale”, che nemmeno le statistiche ufficiali e diffuse riuscivano a cogliere a pieno nella sua drammaticità.
Sempre più chiaramente, però, le cifre ci dicono di uno stato di cose non riguarda solo il Sud, ma da tempo, ormai, l’Italia tutta. L’Italia sarà quel che il Mezzogiorno sarà, fu la profezia del nostro migliore Risorgimento. Ma è nello stanco e precipitoso declino nazionale che l’Italia, oggi, finisce per somigliare a un Sud che ne anticipa i passi falsi.
È impressionante che, tra il 2004 e il 2010, gli occupati tra 25 e 34 anni, se sono diminuiti nel Mezzogiorno di quasi il 18 per cento, sono calati al Centro-Nord di oltre il 16 per cento. La crisi precedeva “la crisi”, e quest’ultima ha scaricato i suoi effetti sociali sul Sud perché si è sommata a debolezze strutturali. Ma la dinamica del mercato del lavoro giovanile non è stata meno grave nel Centro-Nord (nel 2010, addirittura, gli occupati tra 15 e 24 anni sono calati più nel Centro-Nord che nel Mezzogiorno, del -6,2 per cento contro il -4,4 per cento).
Nell’Italia delle molte fratture, delle crescenti disuguaglianze, dei divari che persistono, la condizione delle nuove generazioni è insomma la cifra comune di una società in cui le opportunità e le aspettative di benessere individuali e collettive si riducono, in cui tornano ad essere determinanti le “eredità” familiari e geografiche.
In questi anni, il divario di opportunità tra Nord e Sud si poteva raccontare con un frammento di specchio, ancora più piccolo ma che restituiva più nitidamente l’immagine della condizione giovanile: la ripresa dell’emigrazione, in particolare di quella “interna” verso il Centro-Nord (e, in minor misura, verso l’estero), e in particolare del capitale umano più qualificato (la quota dei laureati nella popolazione migratoria è assai crescente, e riguarda ormai oltre un terzo dei “pendolari di lungo raggio” – quelli più difficili da censire, perché non cambiano residenza).
Ora, il peggior andamento dell’occupazione giovanile al Centro-Nord sembra restringere la “valvola di sfogo” della fuoriuscita migratoria e allargare per tutto il Paese le maglie dell’emigrazione verso l’estero.
Allo stesso tempo ha reso più “selettiva” l’emigrazione meridionale dei giovani maggiormente qualificati. È particolarmente preoccupante il fatto che a fronte di una crescita della “qualità” dell’emigrazione nel 2009 si sia ridotta significativamente la “qualità” delle occupazioni svolte dagli emigrati stessi. E pensare che la determinante principale dei flussi resta e diventa sempre più la ricerca di un’occupazione all’altezza delle proprie competenze e delle legittime ambizioni maturate in percorsi di studio qualificati.
La gravità del fenomeno, nel XXI secolo, non è ovviamente nella mobilità dei giovani meridionali: è che la scelta spesso non è scelta ma come un tempo necessità ed è soprattutto la mancanza di brain exchange.
Vi fossero infatti flussi multidirezionali di mobilità verso le aree in ragione delle specializzazioni, chi lamenterebbe il brain drain? Purtroppo i nostri flussi sono monodirezionali: verso il Nord, per le emigrazioni interne; e dall’Italia verso l’estero, come avviene più o meno con le stesse proporzioni in tutte le aree del Paese.
Eppure oggi, più che il brain drain, a raccontare la penalizzazione dei giovani e dunque delle possibilità di ripartenza dell’Italia, è una nuova categoria che siamo chiamati a fronteggiare: il brain waste, lo “spreco di cervelli”, una sottoutilizzazione di dimensioni abnormi del capitale umano. La condizione di Neet (non studio e non lavoro: 1.900 mila giovani meridionali 15-34, secondo la Svimez, nel 2010), generalmente più diffusa tra i meno istruiti è cresciuta, nell’ultimo triennio, più rapidamente per i giovani con elevati livelli di istruzione – soprattutto, tra laureati. Circa il 30 per cento dei laureati meridionali, sotto i 34 anni, non lavora e ritiene (ragionevolmente) inutile continuare a formarsi; nel Nord sono circa due su dieci.
Lo “spreco” non ha solo la conseguenza economica del mancato rendimento dell’investimento formativo e della perdita di capitale umano della massa di giovani che, in anni di non studio e non lavoro, rischiano di dimenticare le competenze accumulate o di consegnarle all’obsolescenza. Ha anche delle conseguenze sociali deflagranti: la marginalizzazione di fasce crescenti della popolazione giovanile, la formazione di un esercito di “scomparsi” che hanno nulla da perdere e l’esposizione al ricatto e alla seduzione dell’economia criminale e delle mafie (che peraltro nella crisi hanno reagito, e con la grande liquidità di cui nella generale penuria dispongono puntano a un cambiamento di paradigma: il passaggio dal parassitismo di un’economia in ritardo ma più o meno sana, al protagonismo in un’economia debole, inquinata e malata).
Lo “spreco” ha la conseguenza di un prolungamento “patologico” dei tempi biologici, di affermazione dell’autonomia e della responsabilità individuale: con qualche schematismo, vi si può far risalire quel calo della natalità che, unito alle “nuove emigrazioni” e al mancato (o sepolto in mare) afflusso migratorio, determinerà nel tempo uno squilibrio demografico, che potrebbe rendere insostenibile il divario di sviluppo non solo dal punto di vista economico, ma soprattutto sociale.
Infine, la conseguenza peggiore è un’altra e immediata forma di “scoraggiamento”, frutto amaro della consapevolezza che puntare sul talento, sul merito, sulle capacità e sulle competenze, forse non serve e scuramente non basta. Il dato che lo rivela sopra tutti è il tasso di passaggio dalle scuole superiori all’Università. Il rapporto tra immatricolati e maturi nell’anno precedente, che dal 2000 al 2004 era aumentato di dieci punti percentuali sia al Centro-Nord che al Sud, raggiungendo rispettivamente il 73,4 per cento e il 72,2 per cento, è tornato nel 2010 sotto i livelli di inizio anni duemila (nel Mezzogiorno è sceso al 60,9 per cento, mentre si ferma a poco più del 64 per cento nel Centro-Nord). Intrecciando questo dato recente con il drammatico tasso di occupazione nella fascia d’età tra i 24 e i 35 anni, abbiamo la fotografia di una generazione che rischia di soccombere.
Il Sud nei “minuti di recupero”
Grazie al cielo (o allo spread, o a Napolitano), sono definitivamente archiviati i tempi in cui Sacconi (ministro della Repubblica dalle molte infamie), spiegava l’inoccupazione giovanile con la indisponibilità ad accettare lavori “manuali e umili”, richiamando la peggiore trappola culturale di questi anni: l’over education rispetto “alle esigenze del mondo produttivo”, che si registrerebbe specialmente nel Mezzogiorno.
Ora, l’eccesso di istruzione non esiste. Per definizione. E nel nostro Paese esiste semmai una “sotto istruzione” rispetto ad ogni media e target europeo (tra i 30 e i 34 anni, meno della metà dei laureati di Francia e Regno Unito). Sono le esigenze del mondo produttivo che si stanno giocando al ribasso: del resto, la principale esigenza sarebbe proprio quella di acquisire competenze e migliorare la qualità del lavoro. Studiosi della Banca d’Italia dicono che un 10 per cento in più di lavoratori laureati porterebbe a un aumento della produttività totale dei fattori di quasi un punto percentuale. Un’enormità, nello stagno competitivo della nostra economia.
Sono archiviati quei tempi, dicevamo. E anzi oggi viviamo un “tempo nuovo”. Fabrizio Barca, ministro per la Coesione territoriale, nei suoi primi indirizzi di politica di sviluppo a fine 2011 [pdf] punta prioritariamentesul miglioramento di capitale umano per lo sviluppo del Mezzogiorno. (Non mi soffermo sull’importanza dell’aver istituito un ministero ad hoc, dopo gli anni più antimeridionalisti della storia repubblicana, né sulle qualità dell’uomo chiamato a guidarlo, al cui impegno culturale e politico in ambito europeo si deve in larga parte l’aver salvaguardato, innovando, un’impostazione favorevole al Mezzogiorno nel futuro delle politiche di coesione europee).
Però, nell’emergenza, il tempo nuovo di questo Governo è in realtà dei “minuti di recupero”. E nel breve periodo rischiano di accelerare quei processi di deterioramento e perdita di capitale umano se il sistema economico e produttivo non sarà in grado di assorbire o attrarre i giovani formati e ben qualificati del Mezzogiorno. I quali vivono un curioso e terribile paradosso: essere le punte più avanzate della “modernizzazione” (persino sul piano civile, si pensi alle manifestazioni contro la mafia, il “pizzo”, per la scuola pubblica, alla mobilitazione referendaria, che li hanno visti protagonisti) – perché hanno investito in un percorso di formazione e di conoscenza che li rende depositari di quel “capitale umano” che serve per competere nell’economia della conoscenza – e insieme le vittime designate di una società più immobile che altrove, e dunque più ingiusta, che finisce per “sottoutilizzare”, relegare in condizioni di marginalità o “espellere” le sue energie migliori (la meglio gioventù dei nuovi “fuorusciti”).
Questo non significa che il sistema formativo meridionale non abbia molto da migliorare, a partire dalle infrastrutture scolastiche, dalla lotta ai fenomeni gravi e angoscianti di dispersione scolastica, che si stima in aumento con la crisi e che un uomo come Marco Rossi-Doria ben conosce. Molte delle sue inefficienze, però, e anche deficienze qualitative (quelle rilevate dalle indagini PISA, per intenderci), non sono ascrivibili al sistema scolastico ma riconducili a “fattori di contesto”: la prossimità a comportamenti marginalizzanti (disoccupazione, sommerso, povertà) incide sulla corretta formazione delle competenze; e un mercato del lavoro stagnante, dove è difficile trovare un’occupazione regolare, dove magari i comportamenti illegali vincono su quelli legali, non spinge al successo scolastico come strumento di affermazione personale.
Insomma, il circolo vizioso del mancato sviluppo del Mezzogiorno rischia di ridurre drasticamente nei fatti le possibilità dei giovani di emanciparsi, attraverso l’investimento formativo, dal retroterra economico, sociale, culturale e geografico. L’idea che l’attore pubblico debba limitarsi a investire nel sistema formativo (e nel sistema giudiziario) per riavviare lo sviluppo di un’area in ritardo come il Mezzogiorno – l’idea di Zingales e tanti altri, insomma – è assai ideologica: sono tutte premesse necessarie per lo sviluppo, ma non sufficienti. E anzi, senza politiche mirate a riattivare nel breve una dinamica di investimenti produttivi – compresa la “stramaledetta” spesa pubblica: ché nel Mezzogiorno non si risolve solo in sprechi e intermediazione impropria, o peggio in finanziamento a mafie e camorre, come dicono i Zingales e gli opinionisti che contano su tutti i grandi giornali (mentre nessuno si scandalizza del gigantesco buco nero di spesa pubblica a Malpensa) – lo stesso investimento formativo rischia in parte di essere vanificato. È la lezione dei numeri di questi anni: se l’investimento formativo al Sud, a causa di un deficit di domanda di lavoro (specie qualificato), conduce all’emigrazione come unico strumento di mobilità sociale o peggio all’inattività e alla disoccupazione di lunga durata, allora le nuove generazioni possono essere scoraggiate ad investire nell’istruzione superiore.
Si tratta di far tesoro della lezione del migliore meridionalismo che, da Nitti in poi, individuò nell’istruzione e nella produzione un binomio inscindibile, essendo ancora oggi il binario necessario su cui mettere in moto il Sud e, con esso, il resto del Paese.
L’emergenza lavoro per dati da “primavere arabe”
L’OCSE ha recentemente mostrato che quasi tutti i Paesi europei hanno presentato, proprio nella fase di crisi, politiche pubbliche a favore della formazione e dell’occupazione giovanile (soprattutto verso i settori più innovativi: green economy, ICT, servizi avanzati alle imprese e alle persone). Nello studio, tra i Paesi sviluppati, manca solo il capitolo Italia: non c’era nulla da dire, con ogni triste evidenza.
La priorità dell’agenda generazionale del Governo dev’essere la necessità di mettere in campo quelle politiche “attive” che aiutino a creare occasioni di lavoro produttivo, specie nel Mezzogiorno che, con la crisi, di fronte al rischio di ulteriore deindustrializzazione e licenziamenti, a un sistema “informale” e familiare di protezione e sicurezza sociale che rischia di saltare con l’erosione dei risparmi privati (testimoniata dal crollo dei consumi, persino di beni alimentari di prima necessità), alle vie dell’emigrazione interna che si fanno più strette e ardue, presenta dati occupazionali da “primavere arabe”. Quelle primavere che abbiamo volto per tutta un’estate nell’inferno di Lampedusa. Mentre era proprio lì un pezzo decisivo della nuova “prospettive” e anche della “speranza”, sull’altra sponda del Mare nostro, che ci riguarda tanto da vicino col suo profumo acre di sangue e gelsomini.
Solo l’uscita dal ricatto dei bisogni materiali insoddisfatti – con lavoro e reddito – può rendere la società non solo più coesa, ma anche più forte nella difesa e promozione dello stato di diritto e nella “domanda” di buona politica. Nel bel mezzo di una recessione, non ci si può illudere di affrontare la questione solo con la riforma (improcrastinabile) della disciplina del mercato del lavoro (della assunzioni, tanto meno dei licenziamenti) o che la politica meridionalista si esaurisca nell’agenda del ministro Barca, con le poche risorse aggiuntive rimaste a disposizione, da impiegare perciò con maggiore efficacia ed efficienza.
Occorre una strategia meridionalistica complessiva del governo orientata al lavoro, in particolare giovanile e femminile. Una politica che veda impegnati in primo luogo Monti e Passera. E le liberalizzazioni sono necessarie, tanto più al Sud, ma forse non avremo da esse le grandi occasioni di lavoro che oggi mancano.
In un quadro macroeconomico europeo da mettere radicalmente in discussione, da noi occorrono politiche industriali immediate, per attivare processi di internazionalizzazione e innovazione, consolidando e rafforzando l’esistente, ma soprattutto favorendo la penetrazione in settori “nuovi” in grado creare “nuove” opportunità di lavoro (autonomo, dipendente e cooperativo), specie per i giovani ad elevata formazione. Questo avrebbe la ricaduta nel breve periodo di contrastare il fenomeno della inoccupazione e dell’emigrazione qualificate, e nel medio-lungo di cambiare il modello di specializzazione produttiva dell’area (e del Paese), con benefici effetti per tutti. Puntare sulla crescita dimensionale e sull’innovazione tecnologica; incentivare le produzioni sostenibili (a partire dalla mobilità) e la “conversione ecologica”; volgere all’efficienza energetica l’edilizia e sviluppare in modo diffuso le energie rinnovabili; mettere in campo una vasta opera di difesa e valorizzazione dell’ambiente e del territorio; sviluppare filiere agro-alimentari di qualità nella prospettiva dell’integrazione mediterranea; avviare una moderna industria culturale (settore in forte espansione in tutto il mondo e in cui l’Italia rimane paradossalmente molto indietro), non solo turistica; favorire i servizi avanzati e l’impresa sociale, come veicolo di integrazione, anche tra generazioni, per una civiltà della convivenza e del benessere. Sono tutti ambiti in cui i giovani possono essere “naturalmente” protagonisti – sia sul versante dell’offerta che su quello della domanda, si potrebbe dire.
Al Sud c’è chi prova a farcela. Ora, serve una politica che ne faccia la “frontiera”, il luogo dove osare un’economia e un’Italia diverse, in un tempo in cui cambiare non solo è necessario, ma conviene. È solo in questo quadro che il Mezzogiorno può diventare “utile” (anche alle regioni del Nord…) e non solo “tollerato” in virtù di solidarietà a cui, coi tempi cannibali che corrono, meglio non chiedere troppo.
Fonte: Il Post
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