di Pino Aprile
Perché i terroni salveranno l’Italia, come racconto in Giù al Sud? Perchésono i più interessati (ma non i soli) a farlo. Alcune cose sono divenute più chiare, nel Paese, con l’ascesa al potere della Lega nord e l’adozione di una politica ai danni del Sud, che l’ha subita inerte e persino partecipe. La parte del Paese già pesantemente penalizzata (taglio di 1.000 chilometri di ferrovie in 70 anni; esclusione dai piani di sviluppo autostradale, a parte la Salerno-Reggio Calabria; dell’alta velocità, degli aeroporti) è stata ulteriormente impoverita con la sottrazione dei fondi a essa destinati, e con i quali sono stati pagati investimenti al Nord, multe degli allevatori padani disonesti, il terremoto dell’Aquila e altro.
Ed è ripresa l’emigrazione da sud, con flussi simili a quelli degli anni 50 e 60: l’Istat ha contato, nei 10 anni fino al 2008, 700 mila emigrati; 122 mila nel solo 2008. Tantissimi i laureati, con corsi di studio eccellenti, esperienze all’estero.
L’Istat misura macrofenomeni, a me tocca, per mestiere e passione, spiare l’erba che cresce, per capire quali piantine diverranno alberi. Per il mioTerroni, ho girato per il nostro Mezzogiorno come mai in vita mia, negli ultimi due anni: centinaia d’incontri e paesini di cui ignoravo pure l’esistenza. Ho scoperto che una maggiore e più diffusa sensibilità, nel Meridione, era maturata da tempo. Il mio libro è stato solo uno degli strumenti per rivelarla.
Questa nuova consapevolezza si manifesta nella creazione di iniziative culturali, politiche, economiche (magari piccole, ma il seme più piccolo è quello dell’albero più grande, il baobab). A dare vita a tali fermenti sono quasi sempre giovani di ottimi studi che talvolta rifiutano offerte lusinghiere al Nord e all’estero, convinti di poter migliorare la propria condizione con quella della propria terra. È un’onda che si sta alzando, questa di chi non se ne va, tanto che l’etnologo Vito Teti la studia (Una antropologia del restare) come fosse una nuova tribù, quella della «restanza».
E proprio nella regione più povera, la Calabria, è più forte: la più numerosa associazione antimafia («E adesso ammazzateci tutti»); la più vasta rete di associazioni culturali, volontariato, cooperative di lavoro, con ambizioni e programma politico («Io resto in Calabria»); la proliferazione di iniziative giornalistiche antimafia, magari con blog personali, di coraggiosi venti-trentenni (in nove mesi, 25 «attenzionati» dalla ‘ndrangheta, con auto bruciate, minacce, proiettili per posta), come narrano i colleghi Gigi Di Fiore e Attilio Bolzoni.
L’Italia fu unificata, 150 anni fa, con la spoliazione del Sud (distrutte industrie e commerci, svuotate le banche) e la trasformazione in «colonia interna», come Irlanda o Scozia. Il Mezzogiorno fu ridotto in stato di minorità (e oggi si cancellano persino i poeti e autori del Sud dai programmi ministeriali per i licei), nacque la questione meridionale, che prima non esisteva: lo documenta il Consiglio nazionale delle ricerche. Tale sistema, pur squilibrato, portò il nostro Paese fra i primi 10 del mondo. Adesso è superato e dannoso.
Ma chi ne trae vantaggio, il Nord, non ha interesse a cambiarlo; chi ne è penalizzato sì. Per questo, come accaduto in Irlanda, in Scozia e altrove, ci si muove per riequilibrarlo. Un’Italia più equa, invece di impoverirsi nel conflitto fra le sue parti, può correre più forte tutta insieme.
E perché dovrebbe partire oggi e dal Sud? Fu una percentuale fra l’1 e il 2 per cento della popolazione a fare l’unità d’Italia: erano professionisti (avvocati, professori, giornalisti), specie in Lombardia, Veneto, cui l’Austria dava poche possibilità di esprimere le proprie doti, dirigere. Essi crearono, allora, la propria impresa e la compirono: l’unità; ancora oggi sono maggioranza in Parlamento.
Un fenomeno analogo muove oggi il Sud. Se ci riuscirà (io, da quel che ho visto, ci credo, e lo racconto), avremo un’Italia migliore.
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