di Damiano Praticò -
“Ancora oggi, a Mongiana, da un terzo alla metà dei maschi si chiamano Ferdinando: il nome del nonno, in cui rivive il rispetto per il re che al paese dette una ragione di esistere”.
La storia di Mongiana, oggi in Provincia di Vibo Valentia, che iniziamo a trattare citando un passo del libro “Terroni” di Pino Aprile, è molto simile a quella di Saline Joniche. Entrambi i paesi hanno trovato la loro succitata “ragione di esistere” da un impianto industriale: la Liquichimica per Saline, il polo siderurgico per Mongiana. Ed entrambi i paesi, ancora, hanno anche trovato la loro causa di morte proprio dal fallimento (indotto) della causa per cui sono sorti. Mongiana, dopo la chiusura del polo industriale a fine ‘800, non ha avuto scelta: diaspora. L’emigrazione ha prosciugato il paese, rendendolo, da uno dei centri industriali, una volta, più grandi d’Italia, un Comune povero, tra i meno sviluppati d’Europa. E che stenta, ancora oggi, ad avere memoria della sua, non è esagerato, età d’oro.
Questa è la storia di quello che, un tempo, esisteva a Mongiana, Italia. Sud Italia: Calabria. Altro che Silicon Valley.
Il primo complesso industriale venne costituito nel 1771 per la produzione di ferro e di acciaio, elementi ricavati dalle tante miniere presenti sulle Serre calabresi. Nel 1806 il Ministero della Guerra e Marina francese (Francia napoleonica che, nel frattempo, aveva conquistato Calabria ed Italia) divenne proprietario del polo, che utilizzava eminentemente ad usi militari. Con la caduta di Napoleone e l’inizio della Restaurazione, il Regno delle Due Sicilie ottenne il possesso dello stabilimento. Il Sud, nel frattempo, come ci suggerisce ancora Pino Aprile in “Terroni”, “aveva intrapreso la via dell’industria con buon vigore. […] Nel complesso, la percentuale di popolazione attiva addetta all’industria era superiore al Sud rispetto al Nord”. I Borbone riconvertirono la produzione siderurgica anche ad usi civili: oltre a rendere “autonomo il regno nella produzione di armi e di travi per la costruzione dei primi ponti sospesi in ferro d’Italia”, Mongiana “riforniva la stupefacente industria ferroviaria napoletana di Pietrarsa, il più grande complesso industriale dell’intera penisola”, duemila lavoratori.
Ma c’è di più: la prima linea ferroviaria italiana è stata la Napoli-Portici (mica Brianza!), inaugurata sul finire del 1839. Ebbene, indovinate un po’ chi ha fornito il ferro per la costruzione della ferrovia? Sì, il polo siderurgico calabrese.
“A Mongiana” – scrive Pino Aprile – “arrivavano specialisti tedeschi, svizzeri, francesi, inglesi; si confrontavano e discutevano le tecniche di produzione in uso nei diversi paesi”. Il più grande impero a livello mondiale, la Gran Bretagna, temette sempre le ferriere calabresi, soprattutto in base a margini di sviluppo in prospettiva, nonostante il volume generale del settore siderurgico inglese non avesse rivali in tutto il globo. Nel 1861-62 acciai e vari prodotti del polo calabrese ottennero diversi riconoscimenti all’Esposizione industriale di Firenze ed a quella internazionale di Londra.
Carl Marx, se fosse passato dalla Calabria, avrebbe sicuramente denunciato, come fece in Inghilterra, le condizioni di sfruttamento in cui gli operai lavoravano dentro gli stabilimenti di Mongiana. Tuttavia, avrebbe anche notato un orario di lavoro nettamente inferiore rispetto alle 16-18 ore di una fabbrica di Manchester, oppure, in nuce, forme di assistenza medica e previdenziale ancora sconosciute in Europa.
Insomma, “col Borbone, c’erano occupazione, sviluppo, prestigio. I mongianesi erano protagonisti, concorrenti dei migliori produttori d’acciaio d’Europa”. Non è un caso, allora,che, nel momento in cui stava per nascere il Regno d’Italia, Mongiana dicesse no in blocco al referendum per l’annessione. Coi Borbone i mongianesi stavano bene. E chi l’avrebbe mai detto oggi?! Lo stesso Ferdinando II si recò in visita alle ferriere catanzaresi (oggi in Provincia di Vibo) per l’importanza che esse avevano nell’economia del Regno.
Poi, quando ‘poi’ sta per Regno d’Italia, le cose cambiarono. Paradossalmente (ma anche no), lo Stato nazionale gettò alle ortiche l’intero impianto industriale. A niente valse l’accorato appello al Governo italiano da parte del Consiglio comunale di Mongiana. Nel 1874 venne tutto venduto all’asta, sia gli impianti sia i boschi della zona. Le attività industriali si arrestarono definitivamente nel 1881. Milleduecento operai persero il lavoro. Davvero il caso di dire: una ‘miniera’ per l’occupazione meridionale.
Voci ufficiali dell’epoca sostennero la tesi in base alla quale il polo di Mongiana venne chiuso in quanto si consideravano ormai antiquati impianti siderurgici in zone di montagna. Un modo come un altro per arrampicarsi sugli specchi e non confessare che Mongiana venne condannata a morte solo perché “Sud Italia”, solo e soltanto perché lo stereotipo del Meridione era (ed è) fame, disoccupazione, criminalità, sottosviluppo.
E così sia.
Ma la memoria, da tempo perduta, sta riaffiorando. Mongiana, oggi un piccolo Comune con meno di novecento abitanti, sta costruendo mattone su mattone un Museo per non dimenticare le proprie radici.
E allora, forse, non sarà sempre così.
Fonte: Strill
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