giovedì 29 dicembre 2011

Il Mezzogiorno sforna dottori e il Nord li assume

Di Cristian Fuschetto
Fonte: Il Denaro

L’Istat pubblica il primo rapporto sugli esiti occupazionali dei giovani più “titolati” del nostro sistema formativo.
Fuga dei cervelli e scarsa attrattività condannano la Campania

Debole capacità di trattenimento e scarsa capacità attrattiva. Dalla prima fotografia sugli esiti occupazionali dei dottori di ricerca pubblicata ieri dall’Istat emerge, per la Campania, un quadro probabilmente già noto ma non per questo meno triste. L’emigrazione dal Sud al Nord non solo non ha mai avuto fine, ma da almeno dieci anni a questa parte coinvolge la forza lavoro più qualificata. Oltre alle braccia emigrano soprattutto cervelli, e il risultato è sistematicamente lo stesso: l’ulteriore impoverimento dell’area più fragile del Paese. Il dottorato di ricerca è il più prestigioso titolo del nostro sistema formativo ma il combinato disposto del blocco del turn over nelle università e della mancata valorizzazione della qualifica nel mondo del lavoro rischia di farlo diventare pressoché inutile.
Dopo essersi “ultraspecializzati”, spesso con notevoli sacrifici da parte delle famiglie, i dottori di ricerca, da un lato, non riescono a essere più assorbiti dall’accademia e, dall’altro, risultano troppo “vecchi” per il mercato. Se questo vale in generale per il sistema Italia, nel Mezzogiorno le cose si complicano ancor di più. Innanzitutto perché qui si registra una scarsa capacità di “trattenimento”: nelle regioni meridionali resta il 74 per cento degli iscritti, mentre nel Nord la percentuale supera l’85 per cento. “Le emigrazioni dei dottori di ricerca dalla ripartizione geografica di origine seguono la direttrice Sud-Nord – si legge nel rapporto compilato su dati raccolti fra dicembre 2009 e febbraio 2010 su un totale di 18.568 dottori “sfornati” tra il 2004 e il 2006 – riflettendo, a volte, scelte di trasferimento assunte già prima del dottorato.
Più dell’80 per cento dei dottori originari di Piemonte, Lombardia, Emilia-Romagna, Toscana, Lazio e Sardegna continua a vivere nella stessa regione. Una minore capacità di trattenimento (inferiore al 70 per cento) è esercitata dalla maggior parte delle regioni meridionali”. Tra esse, a differenza di Calabria, Basilicata e Puglia, la Campania non fa registrare il risultato peggiore. Ma c’è poco da stare allegri. La Campania è infatti la regione con più atenei nel Mezzogiorno, ben sette, e investire tanto in formazione per poi non riuscire a trattenere all’interno del proprio tessuto produttivo le forze più qualificate è senz’altro un cortocircuito si cui intervenire al più presto.
All’incapacità a trattenere va poi a sommarsi la scarsa attrattività. “La capacità attrattiva maggiore si riscontra per Trentino-Alto Adige, Emilia-Romagna, Lombardia, Veneto, Toscana, Lazio e Piemonte: oltre il 24 per cento dei dottori di ricerca che vivono in queste regioni al momento dell’intervista risulta provenire da altri contesti regionali. Guardando al Centro e al Mezzogiorno – si evince ancora dal rapporto – il saldo (rispetto alla residenza prima dell’iscrizione all’Università) risulta decisamente negativo per le regioni dell’Adriatico centro-meridionale, per la Basilicata, la Calabria e la Sicilia (bilancio negativo di oltre il 20 per cento)”.
In questo caso la pillola è ancora più amara perché si estende anche al popolo dei laureati. “Anche se si focalizza l’attenzione sui laureati, il saldo a tre anni dal titolo, con riferimento all’origine territoriale (residenza prima dell’iscrizione all’università), è negativo in tutte le regioni meridionali”.
Oltre all’emigrazione nelle regioni del Nord e alla bassa attrattività, le regioni meridionali difettano, per così dire, in internazionalizzazione. Sui 18 mila dottori di ricerca quasi 1300 (il 7 per cento) ora lavorano all’estero, e di questi 1300 quasi la metà proviene dal Nord. Per l’esattezza, il 41,2 per cento risiedeva nel nord Italia, il 23,3 per cento al Centro e il 24,2 per cento al Sud.
Tra le regioni settentrionali si va dal minimo dell’Emilia-Romagna, dove il 6,9 per cento dei dottori ora svolge la sua attività in altri Paesi, al massimo del 10,5 per cento della Liguria. Inoltre, evidenzia il rapporto, “i dottori di ricerca che hanno trascorso dei periodi in un altro Paese, durante e grazie al corso di dottorato, risultano vivere all’estero al momento dell’intervista in una quota doppia rispetto alla media generale (12,9 per cento contro 6,4 per cento)”. Un risultato che non è difficile attribuire al fatto che le politiche a sostegno della formazione e tese a favorire nei più giovani la prosecuzione di una carriera votata alla ricerca, sono ben più strutturate all’estero che non nel Belpaese.
Ma sulla mobilità dei giovani studiosi svolgono un ruolo determinante anche fattori sociali e di genere. A “emigrare” all’estero sono più i maschi delle femmine (7,6 per cento contro 5,1 per cento), sono soprattutto gli studenti che hanno conseguito il dottorato in giovane età (meno di 32 anni) e chi proviene da famiglie con un elevato livello d’istruzione.
“L’incidenza della mobilità verso altri Paesi cresce all’aumentare del livello d’istruzione dei genitori. In particolare, il 10 per cento dei dottori di ricerca settentrionali con almeno uno dei due genitori laureati vive all’estero al momento dell’intervista”.
Mobilità interna o esterna, trattenimento e attrattività, la serie dei criteri con cui interpretare il primo rapporto sulla popolazione dei “dottori” in Italia sono numerosi. Tra tutti spicca probabilmente questo: uno studente che completa il suo percorso di studio con il dottorato costa allo Stato italiano circa 500mila euro.
Non saper sfruttare questo patrimonio è imperdonabile. Che si tratti di un patrimonio pregiatissimo lo confermano non solo i costi di formazione ma anche e il “pil” prodotto.
Da una recente ricerca è emerso che i nostri venti migliori ricercatori che lavorano all’estero hanno prodotto, tra il 1989 e il 2009, 155 brevetti per il valore commerciale di oltre 2 miliardi di euro.


Ci si forma al Sud per poi emigrare al Nord

Pur non risultando tra le prime in classifica, la Campania registra una bassa capacità di trattenere sul territorio i dottori di ricerca formati nei propri atenei.


La regione più attrattiva è il Trentino Alto Adige

Le regioni dove vivono più dottori provenienti da altri contesti regionali sono quelle del Nord. Nel Mezzogiorno il saldo è, invece, nettamente ne

























Fonte: Il Denaro

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Di Cristian Fuschetto
Fonte: Il Denaro

L’Istat pubblica il primo rapporto sugli esiti occupazionali dei giovani più “titolati” del nostro sistema formativo.
Fuga dei cervelli e scarsa attrattività condannano la Campania

Debole capacità di trattenimento e scarsa capacità attrattiva. Dalla prima fotografia sugli esiti occupazionali dei dottori di ricerca pubblicata ieri dall’Istat emerge, per la Campania, un quadro probabilmente già noto ma non per questo meno triste. L’emigrazione dal Sud al Nord non solo non ha mai avuto fine, ma da almeno dieci anni a questa parte coinvolge la forza lavoro più qualificata. Oltre alle braccia emigrano soprattutto cervelli, e il risultato è sistematicamente lo stesso: l’ulteriore impoverimento dell’area più fragile del Paese. Il dottorato di ricerca è il più prestigioso titolo del nostro sistema formativo ma il combinato disposto del blocco del turn over nelle università e della mancata valorizzazione della qualifica nel mondo del lavoro rischia di farlo diventare pressoché inutile.
Dopo essersi “ultraspecializzati”, spesso con notevoli sacrifici da parte delle famiglie, i dottori di ricerca, da un lato, non riescono a essere più assorbiti dall’accademia e, dall’altro, risultano troppo “vecchi” per il mercato. Se questo vale in generale per il sistema Italia, nel Mezzogiorno le cose si complicano ancor di più. Innanzitutto perché qui si registra una scarsa capacità di “trattenimento”: nelle regioni meridionali resta il 74 per cento degli iscritti, mentre nel Nord la percentuale supera l’85 per cento. “Le emigrazioni dei dottori di ricerca dalla ripartizione geografica di origine seguono la direttrice Sud-Nord – si legge nel rapporto compilato su dati raccolti fra dicembre 2009 e febbraio 2010 su un totale di 18.568 dottori “sfornati” tra il 2004 e il 2006 – riflettendo, a volte, scelte di trasferimento assunte già prima del dottorato.
Più dell’80 per cento dei dottori originari di Piemonte, Lombardia, Emilia-Romagna, Toscana, Lazio e Sardegna continua a vivere nella stessa regione. Una minore capacità di trattenimento (inferiore al 70 per cento) è esercitata dalla maggior parte delle regioni meridionali”. Tra esse, a differenza di Calabria, Basilicata e Puglia, la Campania non fa registrare il risultato peggiore. Ma c’è poco da stare allegri. La Campania è infatti la regione con più atenei nel Mezzogiorno, ben sette, e investire tanto in formazione per poi non riuscire a trattenere all’interno del proprio tessuto produttivo le forze più qualificate è senz’altro un cortocircuito si cui intervenire al più presto.
All’incapacità a trattenere va poi a sommarsi la scarsa attrattività. “La capacità attrattiva maggiore si riscontra per Trentino-Alto Adige, Emilia-Romagna, Lombardia, Veneto, Toscana, Lazio e Piemonte: oltre il 24 per cento dei dottori di ricerca che vivono in queste regioni al momento dell’intervista risulta provenire da altri contesti regionali. Guardando al Centro e al Mezzogiorno – si evince ancora dal rapporto – il saldo (rispetto alla residenza prima dell’iscrizione all’Università) risulta decisamente negativo per le regioni dell’Adriatico centro-meridionale, per la Basilicata, la Calabria e la Sicilia (bilancio negativo di oltre il 20 per cento)”.
In questo caso la pillola è ancora più amara perché si estende anche al popolo dei laureati. “Anche se si focalizza l’attenzione sui laureati, il saldo a tre anni dal titolo, con riferimento all’origine territoriale (residenza prima dell’iscrizione all’università), è negativo in tutte le regioni meridionali”.
Oltre all’emigrazione nelle regioni del Nord e alla bassa attrattività, le regioni meridionali difettano, per così dire, in internazionalizzazione. Sui 18 mila dottori di ricerca quasi 1300 (il 7 per cento) ora lavorano all’estero, e di questi 1300 quasi la metà proviene dal Nord. Per l’esattezza, il 41,2 per cento risiedeva nel nord Italia, il 23,3 per cento al Centro e il 24,2 per cento al Sud.
Tra le regioni settentrionali si va dal minimo dell’Emilia-Romagna, dove il 6,9 per cento dei dottori ora svolge la sua attività in altri Paesi, al massimo del 10,5 per cento della Liguria. Inoltre, evidenzia il rapporto, “i dottori di ricerca che hanno trascorso dei periodi in un altro Paese, durante e grazie al corso di dottorato, risultano vivere all’estero al momento dell’intervista in una quota doppia rispetto alla media generale (12,9 per cento contro 6,4 per cento)”. Un risultato che non è difficile attribuire al fatto che le politiche a sostegno della formazione e tese a favorire nei più giovani la prosecuzione di una carriera votata alla ricerca, sono ben più strutturate all’estero che non nel Belpaese.
Ma sulla mobilità dei giovani studiosi svolgono un ruolo determinante anche fattori sociali e di genere. A “emigrare” all’estero sono più i maschi delle femmine (7,6 per cento contro 5,1 per cento), sono soprattutto gli studenti che hanno conseguito il dottorato in giovane età (meno di 32 anni) e chi proviene da famiglie con un elevato livello d’istruzione.
“L’incidenza della mobilità verso altri Paesi cresce all’aumentare del livello d’istruzione dei genitori. In particolare, il 10 per cento dei dottori di ricerca settentrionali con almeno uno dei due genitori laureati vive all’estero al momento dell’intervista”.
Mobilità interna o esterna, trattenimento e attrattività, la serie dei criteri con cui interpretare il primo rapporto sulla popolazione dei “dottori” in Italia sono numerosi. Tra tutti spicca probabilmente questo: uno studente che completa il suo percorso di studio con il dottorato costa allo Stato italiano circa 500mila euro.
Non saper sfruttare questo patrimonio è imperdonabile. Che si tratti di un patrimonio pregiatissimo lo confermano non solo i costi di formazione ma anche e il “pil” prodotto.
Da una recente ricerca è emerso che i nostri venti migliori ricercatori che lavorano all’estero hanno prodotto, tra il 1989 e il 2009, 155 brevetti per il valore commerciale di oltre 2 miliardi di euro.


Ci si forma al Sud per poi emigrare al Nord

Pur non risultando tra le prime in classifica, la Campania registra una bassa capacità di trattenere sul territorio i dottori di ricerca formati nei propri atenei.


La regione più attrattiva è il Trentino Alto Adige

Le regioni dove vivono più dottori provenienti da altri contesti regionali sono quelle del Nord. Nel Mezzogiorno il saldo è, invece, nettamente ne

























Fonte: Il Denaro

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