La fanteria italiana in trincea in Tripolitania, in una cartolina di propaganda dei tempi della prima guerra di Libia
Una mostra a Rovereto nel centenario dell'impresa coloniale italiana: molte analogie con le vicende d'oggi
DOMENICO QUIRICO
INVIATO A ROVERETO
Ufficialmente, cento anni fa, in Libia andammo per riparare a una ingiustizia, insomma per fare del bene. Felice Giuffrida, che aveva dato del filo da torcere a Giolitti e ai carabinieri, uno di sinistra insomma, lo diceva chiaro e tondo: «La Tripolitania estesa per mille chilometri resta con qualche milione di abitanti pressoché incolta! Pindaro magnifica donne cavalli miele frutta, i romani lo consideravano il paese più favorito dal cielo sulla terra...». Come si vede, la dannazione della Libia è che, dal grano al petrolio, ha sempre qualcosa che solleva appetiti incontinenti. I turchi, all’epoca i distratti e accidiosi padroni, a mazziniani e eredi più o meno legittimi stavano sommamente antipatici: corrotti, brutali, impalatori. «Un covo di ladroni» scriveva Pagine libere , rivista rivoluzionaria e rossa. Sembra di leggere contemporanei ritratti di Gheddafi e famiglia sbozzati da una gauche pentita del terzomondismo.
Grazie a Pindaro ecco una buona occasione, dunque, in quell’alba di secolo, per rimettere le cose a posto. Proprio come ora proclama di voler fare la Nato. Anche allora si applicava il diritto all’intrusione umanitaria, non ancora inventato ma che già galleggiava nell’aria sub specie di fardello civilizzatore dell’Occidente. Quanto a Giolitti, il promotore delle cannonate, da ragioniere in palamidone diventato in un lampo guerriero (come Sarkozy), che «il bel suol d’amore» su cui esercitava l’ugola Gea della Garisenda fosse di sabbia lo sapeva benissimo: faceva finta di credere alle odi di Pindaro come se fossero il rapporto di un economista solo perché voleva dimostrare di poter stare degnamente nell’Europa dei Signori. La chiamava «fatalità storica». E più o meno dopo cento anni è la stessa ragione per cui abbiamo ripreso a tirar bombe su quei deserti. I maligni potrebbero tirar fuori anche le pressioni, molto interessate, della Banca di Roma, che più che alla civiltà credeva ai propri affari laggiù. Son storie eterne: visto che nel 2011 a rafforzare le tentazioni dei politici ha provveduto la Total.
Ora che il Colonnello resiste, c’è una ragione in più per salire al castello di Rovereto dove si è aperta una densa mostra sulla prima guerra di Libia, la nostra: sì, quella dell’Italietta e della Quarta sponda.
Anche allora sembrava facile. Perché su quella sperduta plaga dove i sultani spedivano i funzionari più incapaci a controllare che beduini e pastori venissero tosati fino all’ultima piastra, come la coalizione di oggidì scatenammo un uragano di ferro e di fuoco. Volevamo strappargli la pelle a Tripoli. Fu la nostra replica del giorno più lungo, uno sbarco sontuoso, micidiale, senza scampo per il nemico, un acuto assordante che infatti non ripetemmo mai più. E che anche allora fece cilecca: come i bombardamenti selettivi.
Schierammo una squadra navale di rombanti e modernissime corazzate con «tre pipe», per vederle da lontano arare il mare avanti e indietro davanti a Tripoli ogni mattina la popolazione si riversava sul lungomare. Ma largheggiammo: fotoelettriche, la radio per cui scomodammo Marconi. E poi aerei e dirigibili, per una primizia militare, il bombardamento, destinata a un luminoso e sanguinoso avvenire. Non solo bombe, però. Enver bey, che con astuzia luciferina guidava la resistenza, diceva beffardo che avevano ammazzato più turchi le tonnellate di carta dei nostri proclami lanciate dai dirigibili che le pallottole.
Sì: come oggi, fu modernissima guerra di propaganda, e di bugie. Il generalissimo italiano, Luigi Caneva, adorava far esercizio di citazioni dal Corano: «Popolazioni della Tripolitania e della Cirenaica, ricordate che Dio ha detto nel Libro: a coloro i quali non portano la guerra religiosa e non vi cacciano dai vostri paesi voi dovete fare del bene e proteggerli».
Sul fronte interno la propaganda, sulle orme prosastiche di Alfredo Oriani, funzionò benissimo. A parte alcuni schiamazzatori professionisti guidati da un certo Mussolini, lo sbarco intenerì il Paese intero; come mostra a Rovereto la sezione curata da Enrico Sturani dedicata alle cartoline dell’epoca. E l’entusiasmo non impallidì neppure quando nel sobborgo tripolino di Sciara Sciat sperimentammo il jihad . «I nostri fratelli arabi ansiosi di giustizia e di affetto», come li chiamava Caneva, lavorarono sui bersaglieri con cecchini e ammazzamenti. Perfino i bambini che in una settimana avevano imparato la bella formula «italiano bono, mangeria» si trasformarono in killer spietati.
Non ci davano retta, i dannati. Eppure avevamo, anche allora, dei libici «buoni» pronti ad aiutarci. Il nostro uomo si chiamava Hassuma pascià, gran tempra di opportunista, che ci faceva le moine perché era disposto a credere di aver trovato in noi la vigna del Signore. Poi rimestammo tra gli odi tribali per trovare alleati disposti a tutto. Nulla è cambiato in Libia, nonostante i cento anni.
Per pacificare quella meraviglia impiegammo, come racconta nella mostra Gabriele Bassi, venti anni. Quando Graziani esportò nel deserto i metodi brutali dello squadrismo. Nel frattempo pagammo l’affitto. C’era un parlamento libico, addirittura: avevamo inaugurato il post colonialismo!
Contro Omar al Muktar, l’idolo di Gheddafi, un Annibale in età da pensione, Graziani fece la guerra come i libici: sguinzagliò colonne mobili di camion e cammelli. Il deserto bengasino, il Gebel roccioso, il Garian intontito dal sole divennero teatro di acciuffamenti quotidiani. Il Maresciallo tolse ai ribelli l’arma più sicura delle guerriglie, l’invincibilità. In anticipo sui francesi in Algeria e gli americani in Vietnam, inventò tutto l’armamentario delle repressioni, delle pulizie etniche, fece spuntare nel deserto campi di concentramento, scatenò i tribunali volanti, giudici che si posavano come arcangeli sterminatori in aereo e sfornavano sentenze ovunque: tre ore, processo sentenza e esecuzione. L’aereo già rombava, avanti un altro. Le cifre con cui Gheddafi ci ha ricattato per anni per i risarcimenti, ventimila morti di cui seimila giustiziati, sono una delle sue tante bugie. Certo nei campi dove finirono in 60 mila, le condizioni furono infernali e lasciarono solchi terribili.
Fonte:La Stampa
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La fanteria italiana in trincea in Tripolitania, in una cartolina di propaganda dei tempi della prima guerra di Libia
Una mostra a Rovereto nel centenario dell'impresa coloniale italiana: molte analogie con le vicende d'oggi
DOMENICO QUIRICO
INVIATO A ROVERETO
Ufficialmente, cento anni fa, in Libia andammo per riparare a una ingiustizia, insomma per fare del bene. Felice Giuffrida, che aveva dato del filo da torcere a Giolitti e ai carabinieri, uno di sinistra insomma, lo diceva chiaro e tondo: «La Tripolitania estesa per mille chilometri resta con qualche milione di abitanti pressoché incolta! Pindaro magnifica donne cavalli miele frutta, i romani lo consideravano il paese più favorito dal cielo sulla terra...». Come si vede, la dannazione della Libia è che, dal grano al petrolio, ha sempre qualcosa che solleva appetiti incontinenti. I turchi, all’epoca i distratti e accidiosi padroni, a mazziniani e eredi più o meno legittimi stavano sommamente antipatici: corrotti, brutali, impalatori. «Un covo di ladroni» scriveva Pagine libere , rivista rivoluzionaria e rossa. Sembra di leggere contemporanei ritratti di Gheddafi e famiglia sbozzati da una gauche pentita del terzomondismo.
Grazie a Pindaro ecco una buona occasione, dunque, in quell’alba di secolo, per rimettere le cose a posto. Proprio come ora proclama di voler fare la Nato. Anche allora si applicava il diritto all’intrusione umanitaria, non ancora inventato ma che già galleggiava nell’aria sub specie di fardello civilizzatore dell’Occidente. Quanto a Giolitti, il promotore delle cannonate, da ragioniere in palamidone diventato in un lampo guerriero (come Sarkozy), che «il bel suol d’amore» su cui esercitava l’ugola Gea della Garisenda fosse di sabbia lo sapeva benissimo: faceva finta di credere alle odi di Pindaro come se fossero il rapporto di un economista solo perché voleva dimostrare di poter stare degnamente nell’Europa dei Signori. La chiamava «fatalità storica». E più o meno dopo cento anni è la stessa ragione per cui abbiamo ripreso a tirar bombe su quei deserti. I maligni potrebbero tirar fuori anche le pressioni, molto interessate, della Banca di Roma, che più che alla civiltà credeva ai propri affari laggiù. Son storie eterne: visto che nel 2011 a rafforzare le tentazioni dei politici ha provveduto la Total.
Ora che il Colonnello resiste, c’è una ragione in più per salire al castello di Rovereto dove si è aperta una densa mostra sulla prima guerra di Libia, la nostra: sì, quella dell’Italietta e della Quarta sponda.
Anche allora sembrava facile. Perché su quella sperduta plaga dove i sultani spedivano i funzionari più incapaci a controllare che beduini e pastori venissero tosati fino all’ultima piastra, come la coalizione di oggidì scatenammo un uragano di ferro e di fuoco. Volevamo strappargli la pelle a Tripoli. Fu la nostra replica del giorno più lungo, uno sbarco sontuoso, micidiale, senza scampo per il nemico, un acuto assordante che infatti non ripetemmo mai più. E che anche allora fece cilecca: come i bombardamenti selettivi.
Schierammo una squadra navale di rombanti e modernissime corazzate con «tre pipe», per vederle da lontano arare il mare avanti e indietro davanti a Tripoli ogni mattina la popolazione si riversava sul lungomare. Ma largheggiammo: fotoelettriche, la radio per cui scomodammo Marconi. E poi aerei e dirigibili, per una primizia militare, il bombardamento, destinata a un luminoso e sanguinoso avvenire. Non solo bombe, però. Enver bey, che con astuzia luciferina guidava la resistenza, diceva beffardo che avevano ammazzato più turchi le tonnellate di carta dei nostri proclami lanciate dai dirigibili che le pallottole.
Sì: come oggi, fu modernissima guerra di propaganda, e di bugie. Il generalissimo italiano, Luigi Caneva, adorava far esercizio di citazioni dal Corano: «Popolazioni della Tripolitania e della Cirenaica, ricordate che Dio ha detto nel Libro: a coloro i quali non portano la guerra religiosa e non vi cacciano dai vostri paesi voi dovete fare del bene e proteggerli».
Sul fronte interno la propaganda, sulle orme prosastiche di Alfredo Oriani, funzionò benissimo. A parte alcuni schiamazzatori professionisti guidati da un certo Mussolini, lo sbarco intenerì il Paese intero; come mostra a Rovereto la sezione curata da Enrico Sturani dedicata alle cartoline dell’epoca. E l’entusiasmo non impallidì neppure quando nel sobborgo tripolino di Sciara Sciat sperimentammo il jihad . «I nostri fratelli arabi ansiosi di giustizia e di affetto», come li chiamava Caneva, lavorarono sui bersaglieri con cecchini e ammazzamenti. Perfino i bambini che in una settimana avevano imparato la bella formula «italiano bono, mangeria» si trasformarono in killer spietati.
Non ci davano retta, i dannati. Eppure avevamo, anche allora, dei libici «buoni» pronti ad aiutarci. Il nostro uomo si chiamava Hassuma pascià, gran tempra di opportunista, che ci faceva le moine perché era disposto a credere di aver trovato in noi la vigna del Signore. Poi rimestammo tra gli odi tribali per trovare alleati disposti a tutto. Nulla è cambiato in Libia, nonostante i cento anni.
Per pacificare quella meraviglia impiegammo, come racconta nella mostra Gabriele Bassi, venti anni. Quando Graziani esportò nel deserto i metodi brutali dello squadrismo. Nel frattempo pagammo l’affitto. C’era un parlamento libico, addirittura: avevamo inaugurato il post colonialismo!
Contro Omar al Muktar, l’idolo di Gheddafi, un Annibale in età da pensione, Graziani fece la guerra come i libici: sguinzagliò colonne mobili di camion e cammelli. Il deserto bengasino, il Gebel roccioso, il Garian intontito dal sole divennero teatro di acciuffamenti quotidiani. Il Maresciallo tolse ai ribelli l’arma più sicura delle guerriglie, l’invincibilità. In anticipo sui francesi in Algeria e gli americani in Vietnam, inventò tutto l’armamentario delle repressioni, delle pulizie etniche, fece spuntare nel deserto campi di concentramento, scatenò i tribunali volanti, giudici che si posavano come arcangeli sterminatori in aereo e sfornavano sentenze ovunque: tre ore, processo sentenza e esecuzione. L’aereo già rombava, avanti un altro. Le cifre con cui Gheddafi ci ha ricattato per anni per i risarcimenti, ventimila morti di cui seimila giustiziati, sono una delle sue tante bugie. Certo nei campi dove finirono in 60 mila, le condizioni furono infernali e lasciarono solchi terribili.
Fonte:La Stampa
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