Lui, quel ragazzotto, da dove è uscito? Da sotto un cavolo?
Si chiama Gigino e vive tra la gente di tutte le specie. Lo tirarono fuori da sotto un cavolo grosso come una città, Napoli. Bella, bellissima ma parimenti imprecisa, incompleta, impalpabile, cattiva, colpita e ferita ma che sa sempre ride di se. Lui, Luigino, si dice, che spessissimo abbia dimostrato, in passato, simpatia per Berlinguer e per il PCI e che forse ha anche votato. Che vuol dire? Niente, proprio niente!
Però se ( che sia vero) uno, in passato, riusciva anche a votare PCI è come se avesse avuto una patologia, una sorta di vocazione, di propensione per coloro che sono più deboli, che hanno più problemi di sopravvivenza, diciamo di ordinaria fame, di quelli che vengono sfruttati, di quelli che, da un giorno all’altro, non hanno più niente, neppure la voglia di esprimere il proprio profondo lacerante dolore neppure di lasciar cadere una lacrima perché è uno spreco.
Nella sua breve ma intensa vita Loigino, ha già capito che bisogna stare attenti! Attenti anche a taluni che sembrano esserti vicino e amici. Ha imparato, forse dal suo papà, che dovette dirgli di stare attento, molto attento soprattutto se fai la scelta di entrare nel cancelletto, nascosto dalle abbondanti fronde e robusti fusti, dell’accesso al “giardino dei misteri”. Se scegli di farlo, forse, gli diceva il padre, ebbene, devi riarmarti di quei tanti valori ormai smarriti, del sano buon senso, di tanto coraggio (… ad avercelo) e della sapienza di un mondo della memoria del passato che non nega il nuovo ne la paura dell’estraneo ma che apre invece al nuovo in quanto nuovo e giusto.
Ha imparato da subito che una civiltà, un popolo, una città senza passato e memoria, è senza anima, senza futuro avendo smarrito l’orgoglio della propria identità, ovvero, della propria libertà.
Armato di queste risorse, di questi straordinari mezzi che le sue origini gli avevano regalato come un pozzo di petrolio scoppiatogli dentro, s’è avviato pel mondo.
Qualcuno prova a rubargli il pozzo della ricchezza. Lo spinge sul baratro. Resiste e si costipa, si ricompatta, si rinvigorisce. Si ripresenta ma col sorriso, un bel sorriso e un bel faccione.
Viene a sapere che c’è gente che vive nella monnezza e nella disperazione. Viene a sapere che quel luogo è la sua città. Lui possiede sempre quel suo patrimonio e può sicuramente fare qualcosa di buono. E’ talmente grande quel tesoro che pensa di darne un po’a ciascuno per aiutare quei disfatti. E’ un patrimonio che non si materializza, non è denaro e neppure case. E’ una specie di pantheon di Dei lontani, di valori. Li offre a tutti, li mette in piazza e urla dai palchi perché tutti sentano!
La gente incomincia a capire e ad amarlo ma non sa bene chi veramente è e perché! Non è, infatti, l’uomo della Provvidenza, non ha nessuna somiglianza con l’allampanato e segaligno Messia consumato dal fuoco interiore e profetico della verità, di strabocchevole giustezza. Non fa miracoli sorprendenti, non passa neppure per i vicoli e lascia pacchi di pasta e zucchero nei bassi, … dinte ‘e vascio, e neppure lancia banconote dall’auto in corsa, insomma … di magro e divinatore, “ … nun tene propete niente”.
Ma allora perché quest’ approvazione?
Avete mai visto un dipinto di Bruegel “proverbi olandesi” del 1559 o, ad esempio, il “Giudizio Universale” di Bosh, oppure un’opera di Mimmo Rotella della sua «Art Typò e “dècollage” (diceva: “…Io penso di discendere da Duchamp. Sento forte questa derivazione europea che mi distingue dagli americani. Ho dentro di me la Magna Grecia”) o il libico-italiano Mario Schifano? Ebbene, in tutti questi uomini e nelle loro opere fanno da sfondo personaggi o cose brulicanti come formiche in uno spazio apparentemente contratto ma fortemente simbolico dove fanno da padrone le improvvide accensioni coloristiche che attraversano i dipinti sempre in maniera trasversale e non lineare, dove si procede per accumulazioni e contrasti di scene. Sono abitati da mostri, ambienti grotteschi ma anche da colori stridenti ma tonali che eliminano lo spazio ed il tempo storico e ideologico creando sistemi magici posti tra una sorta di socialità e umori, tra schemi ordinati e insolenze scompoenti di feste popolari. C’è sempre un’irruzione dell’imprevedibile che crea un circuito ( è uno spazio in vortice) che attrae; è una specie di mondo alla rovescia che simbolicamente esalta la “fantasia realistica”. Insomma offrono per un verso, uno struggente e mutevole e concreto campionario di cultura viva appena deformata purtroppo dal pathos dell’ambiente e, dall’altro, una ricchezza di tensione morale. E’ il “realismo simbolico” che passa dal ‘500 fino agli anni appena calpestati sulla soglia del duemila.
C’è qualcosa di parimenti dicotomico - fantastico-realistico - anche in “Miracolo a Milano di De Sica.
In tutto il film è presente. Soprattutto nel finale da favola, quando Totò, insieme alla sua gente emarginata e calpestata, ruba le scope di saggina ai grigi spazzini, anonimi omini in camice grigio, per saltare su e raggiungere, nel cielo, un altro mondo, quello del “Bene”, del “Giusto” della “Bontà” percorrendo simbolicamente una nuova strada tutta da spazzare, da ripulire.
Anche con Luigino abbiamo vissuto la metafora. Questa delle scope potrebbe ritenersi “evangelica” proprio nell’Italia del conformismo partitico e immeritocratico di destra e sinistra, acciuffata dai giovani che l’hanno percepita, forse, una chiaroveggenza della “fantasia del potere e di una nuova politica” Anche Napoli ha avuto il suo Miracolo. Non li deluderemo!!
INSIEME CON CORAGGIO E GIOIA,!
Bruno Pappalardo del Partito del Sud.
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