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Fonte: Il Foglio del 23 febbraio 2011 pag.2
Roma. Siamo davvero messi male se abbiamo
bisogno di un comico, sia pure di genio,
come Roberto Benigni, per dirci italiani
e celebrare i 150 anni dell’Unità. Meglio
avere il coraggio di capire anziché celebrare,
o di studiare per capire cosa realmente
festeggiare. Per questo è raccomandabile
l’ultimo libro di Gigi Di Fiore, che sabato
scorso a Lecce ha inaugurato la quinta
edizione di Sfide, il ciclo di conferenze organizzato
da Alfredo Mantovano.
Dopo “Controstoria dell’Unità” sui fatti e misfatti
del Risorgimento (Rizzoli 2007, ora Bur),
il giornalista del Mattino ha ricostruito “Gli
ultimi giorni di Gaeta” (sempre Rizzoli) e
cioè l’assedio che dal settembre 1860 al febbraio
1861 le truppe dei generali piemontesi
Cialdini e Morozzo della Rocca inflissero
al re Borbone rifugiato lì col suo governo, il
suo stato maggiore, la sua famiglia e i suoi
irriducibili. E’ una grande tragedia rimossa,
fatta di astuzia e di viltà, di onore e ingenuità.
“Il 6 settembre Francesco II lascia
Napoli, il 7 arriva Garibaldi”, abbiamo
sempre letto nei libri di storia. Le cose non
andarono proprio così. Il re delle Due Sicilie,
in un primo momento, considerò lo
sbarco dei Mille una faccenda da filibustieri
da affidare alla polizia. Quando capì il
vero intento del cugino piemontese (il cui
stato era gravato da un debito pubblico di
500 milioni, che finì di restituire nel 1902)
e cioè invadere il suo di regno e annetterselo
senza manco dichiarargli guerra, lasciò
Napoli per salvare popolo e monumenti
e con 50 mila folli, consapevoli che la loro
era la sorte dei vinti, si chiuse a Gaeta.
L’assedio fece 2.700 morti, di cui 1.200 militari
borbonici e migliaia di civili finiti in
fosse comuni scoperte solo oggi, 3.000 feriti
e una resa piena di reticenze.
Gigi Di Fiore non è un neoborbonico e
nemmeno un rivendicazionista. E’ un tipo
mite e libero che sogna di riavvicinare
nord e sud in nome della verità.
Per questo racconta tutto senza indulgenza:
dal giovane re, isolato, esanime e troppo buono,
alla principessa di Wittelsbach, sua moglie,
che fino all’ultimo si prodigò per soccorrere
i feriti, dai militari piemontesi, efferati e
meticolosi, a quelli borbonici, più vecchi,
un po’ spacconi e pronti a tradire, fino alla
figura di Liborio Romano, il ministro di
Francesco II che pensò di salvare Napoli
stringendo un patto con la camorra.
Marina Valensise
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