martedì 31 agosto 2010

La casta degli storici che non insegna nulla


Gli accademici snobbano tutti i libri contro la versione "ufficiale" da loro accreditata. E così i revisionisti impazzano: il caso dell'anti-risorgimento


Di Marcello Veneziani


Egregi storici di professione che liquidate con disprezzo i testi e le persone che a nord e a sud criticano il Risorgimento e ne descrivono massacri e malefatte, dovreste tentare un’autocritica onesta e serena. So che è difficile chiedere a molti di voi l’umiltà di rimettere in discussione le vostre pompose certezze e il vostro sussiego da baroni universitari, ma tentate uno sforzo. Se oggi escono libri e libercoli a volte assai spericolati, poco documentati e rozzi nelle accuse, nostalgici del passato preunitario, lo dobbiamo anche a voi. Se nei libri di testo e di ricerca, se nei corsi di scuola e d’università, se nei convegni e negli interventi su riviste e giornali, voi aveste scritto, studiato e documentato i punti oscuri del Risorgimento, oggi non ci troveremmo a questo punto. E invece quasi nessuno storico di professione e d’accademia, nessun istituto storico di vaglia ha mai sentito il dovere e la curiosità di indagare su quelle «dicerie» che ora sbrigate con sufficienza.

Ho letto e ascoltato con quanto fastidio - e cito gli esempi migliori - Giuseppe Galasso, Galli della Loggia, Lucio Villari parlano della fiorente pubblicistica sul brigantaggio, i borboni, i massacri piemontesi e i lager dei Savoia. Ne parlano con sufficienza e scherno, quasi fossero accessi di follia o di rozza propaganda. Poi non si spiegano perché tanta gente affolla e plaude i convegni sull’antirisorgimento, a nord o a sud, e disprezza il Risorgimento, se un libro come Terroni di Pino Aprile sale in cima alle classifiche, se nessuno sa dare una spiegazione e una risposta adeguate alle accuse rivolte ai padri della patria. Curioso è il caso di Galasso che prima accusa i suddetti antirisorgimentali di scrivere sciocchezze e poi dice che erano cose risapute; ma allora sono vere o no, perché non affrontarle per ricostruirle correttamente o per confutarle? Ed è un po’ ridicolo criticare le imprecisioni altrui, ridurle ad amenità, e poi non batter ciglio se il suo articolo, professor Galasso, viene titolato sul Corriere della Sera «Nel sud preunitario», mentre il brigantaggio di cui qui si tratta si riferisce all'Italia postunitaria. Par condicio delle amenità.

Ma il problema riguarda tutto un ceto di storici boriosi, che detengono il monopolio accademico e scolastico della memoria. Perché avete rimosso, non vi siete mai cimentati col tema, non volete sottoporvi alla fatica di rimettere in discussione quel che avete acquisito e sostenuto una volta per sempre? Detestate i confronti e perfino la ricerca che dovrebbe essere il vostro pane e il vostro sale. Il risultato è che per molta gente questi temi sono scoperte inedite. Per la stessa ragione, non è possibile trovare sui libri di storia, nei testi scolastici e universitari o nei vostri interventi sui giornali, le pagine infami che seguono alla rivoluzione napoletana del 1799 con intere città messe a ferro e fuoco, migliaia di morti ad opera dei giacobini rivoluzionari. Celebrate i collaborazionisti delle truppe francesi ma omettete i loro massacri, le città rase al suolo. Non è ideologica anche la vostra omertà? O ancor peggio, poi non vi spiegate, voi storici titolati del Novecento, perché libri come quelli di Giampaolo Pansa esplodano in libreria con centinaia di migliaia di lettori: ma perché voi, temendo l’interdizione dalla casta, non avete avuto il coraggio di riaprire le pagine sanguinose della guerra partigiana, il triangolo rosso e gli eccidi comunisti. Così fu pure per le foibe. Poi con disprezzo accademico sbrigate questi libri come pamphlet giornalistici, roba volgare e imprecisa. Ma quei morti ci sono stati sì o no, e chi li uccise, e perché? Quelle ferite pesano ancora nella memoria della gente sì o no? Che coesione nazionale avremo, caro Galli della Loggia, nascondendo vagoni di scheletri negli armadi?

Sul Risorgimento non avete il coraggio di rispondere a quelle domande e così contribuite in modo determinante a rendere le celebrazioni dei 150 anni dell’Unità d’Italia come uno stanco rituale, estraneo agli italiani, dominato dai tromboni e dalle stucchevoli oleografie. Salvo poi scrivere stupefatti e indignati che il Paese non partecipa, è assente, è refrattario. Ma non vi accorgete che lo diventa se continuate con il vostro manierismo e le vostre omissioni? Come forse sapete, sono tutt’altro che un detrattore del Risorgimento e dell’Unità d’Italia, anzi sono un fautore di lunga data dell’identità italiana, quando eravamo davvero in pochi a difenderla. Sono convinto che il processo unitario fosse necessario, che molti patrioti fossero ardenti e meritevoli d’onore, e che l’idea stessa di unire l’Italia fosse il sacrosanto coronamento di un’identità, di una storia, vorrei dire di una geografia, di una cultura e di una lingua antiche. Ma per rendere autentica quell’unità non possiamo negare le sue pagine oscure e pure infami, non possiamo negare le sofferenze che ne seguirono e lo sprofondare del sud nei baratri della miseria, della malavita e dell’emigrazione. Quella malavita organizzata che dette una mano ai garibaldini come poi agli sbarchi americani. Sono convinto che l’Unità d’Italia non portò solo guai ma modernizzò il Paese, lo alfabetizzò e lo fece sviluppare; e considero meritevoli di rispetto i cent’anni e passa che seguirono all’Unità d’Italia, la nascita dello Stato italiano e di una dignitosa borghesia di Stato, la graduale integrazione dei meridionali nello Stato, il loro grande contributo alla scuola e all’università, alle prefetture e alle forze dell’ordine, alla magistratura e all’alta dirigenza dello Stato, all’impiego pubblico e militare. Non possiamo buttare a mare più di un secolo di storia per qualche decennio finale di parassitismo.

Ma bisogna avere il crudo realismo di narrare anche l’altra faccia della storia; per amor di verità, per rispetto di quei morti e per riportare dentro l’Italia gli eredi di coloro che subirono l’Unità. Perché resta ancora da costruire un’Italia condivisa e non da dividere un’Italia già costruita.


Fonte:Il Giornale del 31/08/2010


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Gli accademici snobbano tutti i libri contro la versione "ufficiale" da loro accreditata. E così i revisionisti impazzano: il caso dell'anti-risorgimento


Di Marcello Veneziani


Egregi storici di professione che liquidate con disprezzo i testi e le persone che a nord e a sud criticano il Risorgimento e ne descrivono massacri e malefatte, dovreste tentare un’autocritica onesta e serena. So che è difficile chiedere a molti di voi l’umiltà di rimettere in discussione le vostre pompose certezze e il vostro sussiego da baroni universitari, ma tentate uno sforzo. Se oggi escono libri e libercoli a volte assai spericolati, poco documentati e rozzi nelle accuse, nostalgici del passato preunitario, lo dobbiamo anche a voi. Se nei libri di testo e di ricerca, se nei corsi di scuola e d’università, se nei convegni e negli interventi su riviste e giornali, voi aveste scritto, studiato e documentato i punti oscuri del Risorgimento, oggi non ci troveremmo a questo punto. E invece quasi nessuno storico di professione e d’accademia, nessun istituto storico di vaglia ha mai sentito il dovere e la curiosità di indagare su quelle «dicerie» che ora sbrigate con sufficienza.

Ho letto e ascoltato con quanto fastidio - e cito gli esempi migliori - Giuseppe Galasso, Galli della Loggia, Lucio Villari parlano della fiorente pubblicistica sul brigantaggio, i borboni, i massacri piemontesi e i lager dei Savoia. Ne parlano con sufficienza e scherno, quasi fossero accessi di follia o di rozza propaganda. Poi non si spiegano perché tanta gente affolla e plaude i convegni sull’antirisorgimento, a nord o a sud, e disprezza il Risorgimento, se un libro come Terroni di Pino Aprile sale in cima alle classifiche, se nessuno sa dare una spiegazione e una risposta adeguate alle accuse rivolte ai padri della patria. Curioso è il caso di Galasso che prima accusa i suddetti antirisorgimentali di scrivere sciocchezze e poi dice che erano cose risapute; ma allora sono vere o no, perché non affrontarle per ricostruirle correttamente o per confutarle? Ed è un po’ ridicolo criticare le imprecisioni altrui, ridurle ad amenità, e poi non batter ciglio se il suo articolo, professor Galasso, viene titolato sul Corriere della Sera «Nel sud preunitario», mentre il brigantaggio di cui qui si tratta si riferisce all'Italia postunitaria. Par condicio delle amenità.

Ma il problema riguarda tutto un ceto di storici boriosi, che detengono il monopolio accademico e scolastico della memoria. Perché avete rimosso, non vi siete mai cimentati col tema, non volete sottoporvi alla fatica di rimettere in discussione quel che avete acquisito e sostenuto una volta per sempre? Detestate i confronti e perfino la ricerca che dovrebbe essere il vostro pane e il vostro sale. Il risultato è che per molta gente questi temi sono scoperte inedite. Per la stessa ragione, non è possibile trovare sui libri di storia, nei testi scolastici e universitari o nei vostri interventi sui giornali, le pagine infami che seguono alla rivoluzione napoletana del 1799 con intere città messe a ferro e fuoco, migliaia di morti ad opera dei giacobini rivoluzionari. Celebrate i collaborazionisti delle truppe francesi ma omettete i loro massacri, le città rase al suolo. Non è ideologica anche la vostra omertà? O ancor peggio, poi non vi spiegate, voi storici titolati del Novecento, perché libri come quelli di Giampaolo Pansa esplodano in libreria con centinaia di migliaia di lettori: ma perché voi, temendo l’interdizione dalla casta, non avete avuto il coraggio di riaprire le pagine sanguinose della guerra partigiana, il triangolo rosso e gli eccidi comunisti. Così fu pure per le foibe. Poi con disprezzo accademico sbrigate questi libri come pamphlet giornalistici, roba volgare e imprecisa. Ma quei morti ci sono stati sì o no, e chi li uccise, e perché? Quelle ferite pesano ancora nella memoria della gente sì o no? Che coesione nazionale avremo, caro Galli della Loggia, nascondendo vagoni di scheletri negli armadi?

Sul Risorgimento non avete il coraggio di rispondere a quelle domande e così contribuite in modo determinante a rendere le celebrazioni dei 150 anni dell’Unità d’Italia come uno stanco rituale, estraneo agli italiani, dominato dai tromboni e dalle stucchevoli oleografie. Salvo poi scrivere stupefatti e indignati che il Paese non partecipa, è assente, è refrattario. Ma non vi accorgete che lo diventa se continuate con il vostro manierismo e le vostre omissioni? Come forse sapete, sono tutt’altro che un detrattore del Risorgimento e dell’Unità d’Italia, anzi sono un fautore di lunga data dell’identità italiana, quando eravamo davvero in pochi a difenderla. Sono convinto che il processo unitario fosse necessario, che molti patrioti fossero ardenti e meritevoli d’onore, e che l’idea stessa di unire l’Italia fosse il sacrosanto coronamento di un’identità, di una storia, vorrei dire di una geografia, di una cultura e di una lingua antiche. Ma per rendere autentica quell’unità non possiamo negare le sue pagine oscure e pure infami, non possiamo negare le sofferenze che ne seguirono e lo sprofondare del sud nei baratri della miseria, della malavita e dell’emigrazione. Quella malavita organizzata che dette una mano ai garibaldini come poi agli sbarchi americani. Sono convinto che l’Unità d’Italia non portò solo guai ma modernizzò il Paese, lo alfabetizzò e lo fece sviluppare; e considero meritevoli di rispetto i cent’anni e passa che seguirono all’Unità d’Italia, la nascita dello Stato italiano e di una dignitosa borghesia di Stato, la graduale integrazione dei meridionali nello Stato, il loro grande contributo alla scuola e all’università, alle prefetture e alle forze dell’ordine, alla magistratura e all’alta dirigenza dello Stato, all’impiego pubblico e militare. Non possiamo buttare a mare più di un secolo di storia per qualche decennio finale di parassitismo.

Ma bisogna avere il crudo realismo di narrare anche l’altra faccia della storia; per amor di verità, per rispetto di quei morti e per riportare dentro l’Italia gli eredi di coloro che subirono l’Unità. Perché resta ancora da costruire un’Italia condivisa e non da dividere un’Italia già costruita.


Fonte:Il Giornale del 31/08/2010


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La verifica e la partita del Sud


di Claudio SCAMARDELLA

Il segno tangibile dell’immobilismo del nostro Paese è dato non solo dalla “coazione a rinviare” gli appuntamenti con le riforme, ma anche dalla ripetività dei riti e delle modalità con cui la politica fa finta di affrontare le
questioni.

Tre anni e mezzo fa, ai tempi del governo Prodi e di uno dei ciclici momenti critici della sua risicata maggioranza, l’intero esecutivo si riunì per due giorni nella Reggia di Caserta con i segretari dei numerosi partiti della coalizione. Obiettivo: ritrovare la fiducia, dimostrare che il governo fosse ancora vivo e rilanciare - davanti alle telecamere - l’immagine di unità dell’alleanza. Tra i tanti annunci-spot pronti (e facili) per l’uso, spiccò anche all’epoca quello di un piano straordinario per il Mezzogiorno con 120 miliardi da investire nelle regioni meridionali. Era, naturalmente, la somma di tutti i fondi europei, gli investimenti statali e i trasferimenti ordinari precedentemente destinati al Sud, alcuni dei quali in realtà già impegnati in progetti delle pubbliche amministrazioni meridionali. Tutti i giornali, all’epoca, titolarono: il governo riparte dal Sud con 120 miliardi.
Sappiamo come andò a finire. Prodì andò a casa e si tornò alle urne. In una lunga intervista a un giornale del Sud, Berlusconi annunciò alla vigilia del voto che lo riportò a Palazzo Chigi un “piano per il Sud da 110 miliardi”. Come è andata a finire, anche stavolta, lo abbiamo visto.

Non vorremmo essere facili profeti, eppure molti segnali lasciano prevedere che l’annunciata verifica dell’attuale maggioranza di governo a metà settembre, con un voto di fiducia su un pacchetto di punti tra i quali spicca (naturalmente) il Mezzogiorno, possa rivelarsi - soprattutto per quanto riguarda il Sud - un altro annuncio-spot. L’unica differenza rispetto al passato è la cifra: invece dei 120 miliardi di Prodi o dei 110 di Berlusconi, stavolta si parla di un piano da 80 miliardi. E non sono certo aggiuntivi agli uni o agli altri. Anzi, da quelle cifre - sempre le stesse - sono stati sottratti i fondi Fas destinati al Mezzogiorno e dirottati per affrontare e risolvere in questi anni le emergenze in altre parti del Paese. E ciò, beninteso, va ricordato non per giustificare le incapaci e inefficienti classi dirigenti meridionali - è del tutto evidente che se si ripropongono le stesse risorse, soprattutto quelle di provenienza europea, è perché si è stati incapaci di spenderle sul territorio - ma solo per sgonfiare il pallone propagandistico del leghismo bossiano. Quel leghismo che, non a caso alla vigilia della verifica di settembre della maggioranza, alza la voce, insulta, intimidisce, lancia avvertimenti ad alleati e avversari, continua ad accusare i meridionali di sprechi e inefficienze spesso su dati completamente falsi o, peggio ancora, falsificati, teorizzando una redistribuzione delle risorse a vantaggio del Nord come atto “risarcitorio” verso le vessate popolazioni settentrionali e come atto “punitivo” verso le spreconi e cialtroni popolazioni meridionali.

Ma tant’è, così va l’Italia di questi tempi: il Nord può urlare, puntare l’indice, rivendicare risorse e poteri sul territorio, perfino insultare in virtù di (presunte) “ragioni storiche”; il Sud, invece, deve continuare a tacere, timoroso e rassegnato, sedere sul banco degli imputati e aspettare il peggio che deve arrivare, in virtù di (altrettanto presunte) “colpe storiche”. Se non si riuscirà a rompere questo schema in tempi brevi, Bossi sarà sempre di più il padrone del Paese. E se le classi dirigenti meridionali non capiranno che la vera priorità è uscire da questo “complesso di minorità”, saranno travolte. Tutte. Quelle al governo e quelle all’opposizione, a Roma e sul territorio. Perché la debolezza del Mezzogiorno è, sì, debolezza degli indicatori economici e sociali, debolezza del tessuto connettivo minato dalla pervasità della criminalità organizzata, debolezza del governo del territorio. Ma il più grande e il più grave handicap del Sud, oggi, è l’essere rimasto senza parola, è il non poter contare su voci credibili e capaci di comunicare all’intero Paese, di interloquire con le leadership nazionali della politica, dell’economia e della cultura. Da almeno quindici anni, questa parte del Paese non produce più leader nazionali, esponenti politici di partito o di governo in grado di rappresentare a Roma e a Milano gli interessi delle popolazioni meridionali; di dire che i 120 miliardi di Prodi, i 110 di Berlusconi e gli 80 promessi da Tremonti per settembre sono sempre la stessa cosa; di controbattere, insomma, punto su punto alla deriva leghista.

Per superare questo “complesso di minorità” c’è bisogno di superare le divisioni dentro il Sud e tra i meridionali. Le prove e le sfide che attendono il Mezzogiorno sono di portata storica, potremmo dire epocale, e non potranno essere sostenute da una sola regione, da un solo governatore, da un solo schieramento politico, da una sola rappresentanza sociale. L’esito di questa battaglia dipenderà non tanto dalla nascita di un velleitario partito del Sud o di una caricaturale Lega meridionale, frutto di un meridionalismo lamentoso e vittimista, ma dalla massa critica e dalla forza reattiva che sarà capace di organizzare l’intero Mezzogiorno, a tutto campo, nella politica nazionale. È la prova storica a cui è chiamata a rispondere un’intera generazione politica, di fronte alla quale è necessario rifuggire da ogni tentazione personalistica, da calcoli di bottega e interessi di parte, dal perseguimento di piccole vendette politiche. Chi coltiva l’illusione che la temporanea alleanza con Bossi, cioè un’ulteriore penalizzazione del Sud in questa fase, possa danneggiare l’avversario sul territorio e avvantaggiare se stesso commetterebbe un gravissimo errore di miopia politica. E la Storia, prima o poi, gli si ritorcerà contro.

C’è una voce, non politica, ma autorevole e forte che può far ritrovare tutti: quella della Chiesa. Anche i non credenti, anche il più irriducibile degli atei non può non riconoscere che la voce della Chiesa è ormai tra le poche, se non l’unica, che si alza nella società italiana a denunciare le ingiustizie e a riportare l’astruso dibattito della politica italiana ai problemi veri della gente. Quella voce è ancora più forte e chiara quando parla di Mezzogiorno e al Mezzogiorno. E lo ha dimostrato qualche giorno fa in due occasioni. La prima: quando di fronte a quanti esultavano - leghisti e, purtroppo, non solo leghisti - per le politiche dei respingimenti dei migranti, a quanti portavano la conta delle barche a vela con a bordo bambini e donne incinte fermate sulle coste del Salento, molti vescovi pugliesi hanno ricordato che si tratta di un’odissea di esseri umani e non di viaggi di piacere. E che un paese civile non può non accogliere chi chiede aiuto e chi cerca solidarietà. La seconda: quando la Conferenza episcopale italiana è tornata a ricordare che il federalismo diventa un valore se unisce, mentre si rivela un disvalore se separa; diventa, cioè, una grande opportunità se è un progetto condiviso per costruzione (dell’intera nazione) e non un processo imposto per reazione (da un territorio su un altro). Possibile che debba essere solo la Chiesa a ricordarcelo? Possibile che la politica meridionale sia divisa anche su questo?


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di Claudio SCAMARDELLA

Il segno tangibile dell’immobilismo del nostro Paese è dato non solo dalla “coazione a rinviare” gli appuntamenti con le riforme, ma anche dalla ripetività dei riti e delle modalità con cui la politica fa finta di affrontare le
questioni.

Tre anni e mezzo fa, ai tempi del governo Prodi e di uno dei ciclici momenti critici della sua risicata maggioranza, l’intero esecutivo si riunì per due giorni nella Reggia di Caserta con i segretari dei numerosi partiti della coalizione. Obiettivo: ritrovare la fiducia, dimostrare che il governo fosse ancora vivo e rilanciare - davanti alle telecamere - l’immagine di unità dell’alleanza. Tra i tanti annunci-spot pronti (e facili) per l’uso, spiccò anche all’epoca quello di un piano straordinario per il Mezzogiorno con 120 miliardi da investire nelle regioni meridionali. Era, naturalmente, la somma di tutti i fondi europei, gli investimenti statali e i trasferimenti ordinari precedentemente destinati al Sud, alcuni dei quali in realtà già impegnati in progetti delle pubbliche amministrazioni meridionali. Tutti i giornali, all’epoca, titolarono: il governo riparte dal Sud con 120 miliardi.
Sappiamo come andò a finire. Prodì andò a casa e si tornò alle urne. In una lunga intervista a un giornale del Sud, Berlusconi annunciò alla vigilia del voto che lo riportò a Palazzo Chigi un “piano per il Sud da 110 miliardi”. Come è andata a finire, anche stavolta, lo abbiamo visto.

Non vorremmo essere facili profeti, eppure molti segnali lasciano prevedere che l’annunciata verifica dell’attuale maggioranza di governo a metà settembre, con un voto di fiducia su un pacchetto di punti tra i quali spicca (naturalmente) il Mezzogiorno, possa rivelarsi - soprattutto per quanto riguarda il Sud - un altro annuncio-spot. L’unica differenza rispetto al passato è la cifra: invece dei 120 miliardi di Prodi o dei 110 di Berlusconi, stavolta si parla di un piano da 80 miliardi. E non sono certo aggiuntivi agli uni o agli altri. Anzi, da quelle cifre - sempre le stesse - sono stati sottratti i fondi Fas destinati al Mezzogiorno e dirottati per affrontare e risolvere in questi anni le emergenze in altre parti del Paese. E ciò, beninteso, va ricordato non per giustificare le incapaci e inefficienti classi dirigenti meridionali - è del tutto evidente che se si ripropongono le stesse risorse, soprattutto quelle di provenienza europea, è perché si è stati incapaci di spenderle sul territorio - ma solo per sgonfiare il pallone propagandistico del leghismo bossiano. Quel leghismo che, non a caso alla vigilia della verifica di settembre della maggioranza, alza la voce, insulta, intimidisce, lancia avvertimenti ad alleati e avversari, continua ad accusare i meridionali di sprechi e inefficienze spesso su dati completamente falsi o, peggio ancora, falsificati, teorizzando una redistribuzione delle risorse a vantaggio del Nord come atto “risarcitorio” verso le vessate popolazioni settentrionali e come atto “punitivo” verso le spreconi e cialtroni popolazioni meridionali.

Ma tant’è, così va l’Italia di questi tempi: il Nord può urlare, puntare l’indice, rivendicare risorse e poteri sul territorio, perfino insultare in virtù di (presunte) “ragioni storiche”; il Sud, invece, deve continuare a tacere, timoroso e rassegnato, sedere sul banco degli imputati e aspettare il peggio che deve arrivare, in virtù di (altrettanto presunte) “colpe storiche”. Se non si riuscirà a rompere questo schema in tempi brevi, Bossi sarà sempre di più il padrone del Paese. E se le classi dirigenti meridionali non capiranno che la vera priorità è uscire da questo “complesso di minorità”, saranno travolte. Tutte. Quelle al governo e quelle all’opposizione, a Roma e sul territorio. Perché la debolezza del Mezzogiorno è, sì, debolezza degli indicatori economici e sociali, debolezza del tessuto connettivo minato dalla pervasità della criminalità organizzata, debolezza del governo del territorio. Ma il più grande e il più grave handicap del Sud, oggi, è l’essere rimasto senza parola, è il non poter contare su voci credibili e capaci di comunicare all’intero Paese, di interloquire con le leadership nazionali della politica, dell’economia e della cultura. Da almeno quindici anni, questa parte del Paese non produce più leader nazionali, esponenti politici di partito o di governo in grado di rappresentare a Roma e a Milano gli interessi delle popolazioni meridionali; di dire che i 120 miliardi di Prodi, i 110 di Berlusconi e gli 80 promessi da Tremonti per settembre sono sempre la stessa cosa; di controbattere, insomma, punto su punto alla deriva leghista.

Per superare questo “complesso di minorità” c’è bisogno di superare le divisioni dentro il Sud e tra i meridionali. Le prove e le sfide che attendono il Mezzogiorno sono di portata storica, potremmo dire epocale, e non potranno essere sostenute da una sola regione, da un solo governatore, da un solo schieramento politico, da una sola rappresentanza sociale. L’esito di questa battaglia dipenderà non tanto dalla nascita di un velleitario partito del Sud o di una caricaturale Lega meridionale, frutto di un meridionalismo lamentoso e vittimista, ma dalla massa critica e dalla forza reattiva che sarà capace di organizzare l’intero Mezzogiorno, a tutto campo, nella politica nazionale. È la prova storica a cui è chiamata a rispondere un’intera generazione politica, di fronte alla quale è necessario rifuggire da ogni tentazione personalistica, da calcoli di bottega e interessi di parte, dal perseguimento di piccole vendette politiche. Chi coltiva l’illusione che la temporanea alleanza con Bossi, cioè un’ulteriore penalizzazione del Sud in questa fase, possa danneggiare l’avversario sul territorio e avvantaggiare se stesso commetterebbe un gravissimo errore di miopia politica. E la Storia, prima o poi, gli si ritorcerà contro.

C’è una voce, non politica, ma autorevole e forte che può far ritrovare tutti: quella della Chiesa. Anche i non credenti, anche il più irriducibile degli atei non può non riconoscere che la voce della Chiesa è ormai tra le poche, se non l’unica, che si alza nella società italiana a denunciare le ingiustizie e a riportare l’astruso dibattito della politica italiana ai problemi veri della gente. Quella voce è ancora più forte e chiara quando parla di Mezzogiorno e al Mezzogiorno. E lo ha dimostrato qualche giorno fa in due occasioni. La prima: quando di fronte a quanti esultavano - leghisti e, purtroppo, non solo leghisti - per le politiche dei respingimenti dei migranti, a quanti portavano la conta delle barche a vela con a bordo bambini e donne incinte fermate sulle coste del Salento, molti vescovi pugliesi hanno ricordato che si tratta di un’odissea di esseri umani e non di viaggi di piacere. E che un paese civile non può non accogliere chi chiede aiuto e chi cerca solidarietà. La seconda: quando la Conferenza episcopale italiana è tornata a ricordare che il federalismo diventa un valore se unisce, mentre si rivela un disvalore se separa; diventa, cioè, una grande opportunità se è un progetto condiviso per costruzione (dell’intera nazione) e non un processo imposto per reazione (da un territorio su un altro). Possibile che debba essere solo la Chiesa a ricordarcelo? Possibile che la politica meridionale sia divisa anche su questo?


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LE UNIVERSITA' DEL SUD ITALIA TRA LE MIGLIORI AL MONDO


http://www.youtube.com/watch?v=5rzdjEazXbw

Università della Calabria - dipartimento d'informatica tra i migliori al mondo.
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http://www.youtube.com/watch?v=5rzdjEazXbw

Università della Calabria - dipartimento d'informatica tra i migliori al mondo.

Lampedusa, l’Italia degli affari e delle cricche, ma anche della generosità di chi non chiude le porte alla disperazione

Il sindaco resta sindaco anche se arrestato e rinviato a giudizio per concussione. Vice sindaco leghista. Assessore al Turismo che immagina un casinò, la Protezione Civile di Bertolaso fa il bello e il cattivo tempo, eppure la gente resiste nel buon senso di un'accoglienza difficile in un'isola che si sente abbandonata. Parlano Favio Sanfilippo e Alice Scajola, autori di "A Lampedusa", dove raccontano queste storie



di Luca Leone

A Lampedusa di Favio Sanfilippo e Alice ScajolaLampedusa, estremo sud d’Italia e meta agognata dalle migliaia di migranti che intraprendono rischiosi “viaggi della speranza” lungo le rotte del Mediterraneo. Terra di mammane, di scarse scuole e troppe case, bella e sfregiata dall’abusivismo edilizio; isola dalle mille contraddizioni dove anche l’immigrazione può diventare guadagno. Spesso dai contorni loschi. Questi i temi dello splendido “A Lampedusa”, di Fabio Sanfilippo e Alice Scialoja (Infinito edizioni, 168 pagine, 13 euro).

Fabio Sanfilippo e Alice Scialoja raccontano l’isola più discussa del Mediterraneo conducendo un’appassionante inchiesta giornalistica e dando voce a chi di questa terra ha contribuito a tracciare la cronaca saliente di questi ultimi anni: dalla senatrice leghista Angela Maraventano ex vicesindaco di Lampedusa e Linosa ai rappresentanti delle organizzazioni che hanno operato sul posto – Msf, Unhcr, Legambiente ecc. Dal viceparroco tanzanese ai tanti Mourad che vengono dal Marocco o da altri Paesi africani. Dal prefetto Mario Morcone ad Adelina l’ostetrica che a Lampedusa ha fatto nascere tutti. O quasi.

Scrive sul libro Carlo Bonini:

In un Paese senza memoria – il nostro – prigioniero della sindrome da assedio, A Lampedusa è una luce nel buio pesto. È un atto di coraggio civile. È il racconto minuzioso di un’isola ridotta a discarica di corpi, cose e barche, spiaggiati da quel tratto di mare che oggi divide gli uomini non tra bianchi e neri. Ma tra la vita e la speranza di poter avere un giorno qualcosa che le somigli.

Dell’isola, della sua gente, dei suoi problemi abbiamo parlato con gli autori.

Per la maggior parte degli italiani Lampedusa è associata a due immagini: il mare turchese dell’Isola dei conigli e gli sbarchi dei migranti senza documenti. Leggendo “A Lampedusa” si scopre che questo scoglio in mezzo al Mediterraneo è molto di più. Potete raccontarcelo?

Lampedusa è il simbolo di un’Italia furba ma con un cuore grande, abitata da uomini e donne che si impegnano per soccorrere i disgraziati che sopravvivono ai viaggi bestiali lungo il mare. Ma anche di un Paese con il vizio di litigare per le proprie competenze, con una classe politica incline ad accendere o sopire gli animi a seconda delle opportunità e delle convenienze del momento. Una classe politica, come nel caso del sindaco di Lampedusa, refrattaria al passo indietro, nonostante un arresto e un rinvio a giudizio per concussione. È il simbolo dell’Italia delle cricche pronte a sfruttare le tragedie pur di fare business. È l’Italia della Protezione civile che anche a Lampedusa, in questi ultimi anni di “emergenza clandestini”, ha fatto il bello e il cattivo tempo diventando il principale e quasi esclusivo ente appaltante nell’isola. Appalti che sono stati affidati per via diretta, bypassando le regole comuni. È il simbolo di un sud sempre arrabbiato con Roma ma che da Roma pretende e, nel caso di Lampedusa, pretende a titolo di risarcimento per il danno di immagine (parole dell’assessore al Turismo) subìto a causa dell’immigrazione: fondi a compensazione, creazione di una zona franca, costruzione di un casinò. Un’Italia dove sviluppo significa cemento, abusivismo edilizio e sfruttamento intensivo del territorio. E che, spesso, si dimentica dei suoi concittadini più sfortunati e poveri che per curarsi – visto che a Lampedusa non c’è l’ospedale o comunque un centro medico degno di questo nome – sono costretti a spendere i risparmi di una vita.

Da quale suggestione, idea o tesi nasce il libro e che cosa vuole dimostrare?

“A Lampedusa” non è un libro a tesi. È certamente un libro politico, perché attraverso la nostra inchiesta interveniamo su temi cruciali quali sono l’immigrazione e la legalità e alimentiamo il dibattito pubblico. Abbiamo voluto raccontare il contraddittorio rapporto – nell’anno degli sbarchi record, il 2008 – tra Lampedusa (e quindi l’Italia) e il fenomeno dell’immigrazione irregolare. E lo abbiamo fatto cambiando la prospettiva, mettendo l’isola al centro e guardando Lampedusa da Lampedusa. E quello che è venuto fuori, lo dicevamo prima, è l’affresco di un Paese furbo ma al tempo stesso generoso.

La pubblicazione come è stata accolta dai lampedusani e dai siciliani?

I siciliani – quelli “di terra” – sono fatalisti, diffidenti e curiosi allo stesso tempo. E curioso, diffidente e fatalista è stato il pubblico che abbiamo incontrato nel corso delle presentazioni del libro a Palermo, Catania e Agrigento. A commento delle pratiche al limite della legalità che raccontiamo nel libro, spesso ci siamo sentiti dire: “Cose che si sanno, che fanno tutti e che si sono sempre fatte”. Però a pochi salta in mente di denunciarli, quei fatti e quelle pratiche, di combatterle. Ma c’è una parte sana della società siciliana, che è invece capace di indignarsi, di sorprendersi, di denunciare e di lavorare per un futuro fatto di legalità, uguaglianza e integrazione. E noi abbiamo avuto la fortuna di incontrarne tante di persone così. Anche, e forse soprattutto, a Lampedusa, dove abbiamo avuto modo di confrontarci con la società civile e con qualche esponente delle passate amministrazioni. Peccato, invece, che siano stati proprio gli amministratori in carica a non avere accettato il confronto. Ci ha fatto molto piacere, e lo diciamo con una punta di orgoglio, che siano stati proprio i lampedusani a definire il libro un atto d’amore nei confronti dell’isola. È come – ci hanno detto – se ci aveste messo di fronte a uno specchio, costretti a guardarci e a fare i conti con quello che siamo.


Fonte:Domani.Arcoiris


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Il sindaco resta sindaco anche se arrestato e rinviato a giudizio per concussione. Vice sindaco leghista. Assessore al Turismo che immagina un casinò, la Protezione Civile di Bertolaso fa il bello e il cattivo tempo, eppure la gente resiste nel buon senso di un'accoglienza difficile in un'isola che si sente abbandonata. Parlano Favio Sanfilippo e Alice Scajola, autori di "A Lampedusa", dove raccontano queste storie



di Luca Leone

A Lampedusa di Favio Sanfilippo e Alice ScajolaLampedusa, estremo sud d’Italia e meta agognata dalle migliaia di migranti che intraprendono rischiosi “viaggi della speranza” lungo le rotte del Mediterraneo. Terra di mammane, di scarse scuole e troppe case, bella e sfregiata dall’abusivismo edilizio; isola dalle mille contraddizioni dove anche l’immigrazione può diventare guadagno. Spesso dai contorni loschi. Questi i temi dello splendido “A Lampedusa”, di Fabio Sanfilippo e Alice Scialoja (Infinito edizioni, 168 pagine, 13 euro).

Fabio Sanfilippo e Alice Scialoja raccontano l’isola più discussa del Mediterraneo conducendo un’appassionante inchiesta giornalistica e dando voce a chi di questa terra ha contribuito a tracciare la cronaca saliente di questi ultimi anni: dalla senatrice leghista Angela Maraventano ex vicesindaco di Lampedusa e Linosa ai rappresentanti delle organizzazioni che hanno operato sul posto – Msf, Unhcr, Legambiente ecc. Dal viceparroco tanzanese ai tanti Mourad che vengono dal Marocco o da altri Paesi africani. Dal prefetto Mario Morcone ad Adelina l’ostetrica che a Lampedusa ha fatto nascere tutti. O quasi.

Scrive sul libro Carlo Bonini:

In un Paese senza memoria – il nostro – prigioniero della sindrome da assedio, A Lampedusa è una luce nel buio pesto. È un atto di coraggio civile. È il racconto minuzioso di un’isola ridotta a discarica di corpi, cose e barche, spiaggiati da quel tratto di mare che oggi divide gli uomini non tra bianchi e neri. Ma tra la vita e la speranza di poter avere un giorno qualcosa che le somigli.

Dell’isola, della sua gente, dei suoi problemi abbiamo parlato con gli autori.

Per la maggior parte degli italiani Lampedusa è associata a due immagini: il mare turchese dell’Isola dei conigli e gli sbarchi dei migranti senza documenti. Leggendo “A Lampedusa” si scopre che questo scoglio in mezzo al Mediterraneo è molto di più. Potete raccontarcelo?

Lampedusa è il simbolo di un’Italia furba ma con un cuore grande, abitata da uomini e donne che si impegnano per soccorrere i disgraziati che sopravvivono ai viaggi bestiali lungo il mare. Ma anche di un Paese con il vizio di litigare per le proprie competenze, con una classe politica incline ad accendere o sopire gli animi a seconda delle opportunità e delle convenienze del momento. Una classe politica, come nel caso del sindaco di Lampedusa, refrattaria al passo indietro, nonostante un arresto e un rinvio a giudizio per concussione. È il simbolo dell’Italia delle cricche pronte a sfruttare le tragedie pur di fare business. È l’Italia della Protezione civile che anche a Lampedusa, in questi ultimi anni di “emergenza clandestini”, ha fatto il bello e il cattivo tempo diventando il principale e quasi esclusivo ente appaltante nell’isola. Appalti che sono stati affidati per via diretta, bypassando le regole comuni. È il simbolo di un sud sempre arrabbiato con Roma ma che da Roma pretende e, nel caso di Lampedusa, pretende a titolo di risarcimento per il danno di immagine (parole dell’assessore al Turismo) subìto a causa dell’immigrazione: fondi a compensazione, creazione di una zona franca, costruzione di un casinò. Un’Italia dove sviluppo significa cemento, abusivismo edilizio e sfruttamento intensivo del territorio. E che, spesso, si dimentica dei suoi concittadini più sfortunati e poveri che per curarsi – visto che a Lampedusa non c’è l’ospedale o comunque un centro medico degno di questo nome – sono costretti a spendere i risparmi di una vita.

Da quale suggestione, idea o tesi nasce il libro e che cosa vuole dimostrare?

“A Lampedusa” non è un libro a tesi. È certamente un libro politico, perché attraverso la nostra inchiesta interveniamo su temi cruciali quali sono l’immigrazione e la legalità e alimentiamo il dibattito pubblico. Abbiamo voluto raccontare il contraddittorio rapporto – nell’anno degli sbarchi record, il 2008 – tra Lampedusa (e quindi l’Italia) e il fenomeno dell’immigrazione irregolare. E lo abbiamo fatto cambiando la prospettiva, mettendo l’isola al centro e guardando Lampedusa da Lampedusa. E quello che è venuto fuori, lo dicevamo prima, è l’affresco di un Paese furbo ma al tempo stesso generoso.

La pubblicazione come è stata accolta dai lampedusani e dai siciliani?

I siciliani – quelli “di terra” – sono fatalisti, diffidenti e curiosi allo stesso tempo. E curioso, diffidente e fatalista è stato il pubblico che abbiamo incontrato nel corso delle presentazioni del libro a Palermo, Catania e Agrigento. A commento delle pratiche al limite della legalità che raccontiamo nel libro, spesso ci siamo sentiti dire: “Cose che si sanno, che fanno tutti e che si sono sempre fatte”. Però a pochi salta in mente di denunciarli, quei fatti e quelle pratiche, di combatterle. Ma c’è una parte sana della società siciliana, che è invece capace di indignarsi, di sorprendersi, di denunciare e di lavorare per un futuro fatto di legalità, uguaglianza e integrazione. E noi abbiamo avuto la fortuna di incontrarne tante di persone così. Anche, e forse soprattutto, a Lampedusa, dove abbiamo avuto modo di confrontarci con la società civile e con qualche esponente delle passate amministrazioni. Peccato, invece, che siano stati proprio gli amministratori in carica a non avere accettato il confronto. Ci ha fatto molto piacere, e lo diciamo con una punta di orgoglio, che siano stati proprio i lampedusani a definire il libro un atto d’amore nei confronti dell’isola. È come – ci hanno detto – se ci aveste messo di fronte a uno specchio, costretti a guardarci e a fare i conti con quello che siamo.


Fonte:Domani.Arcoiris


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Il Sud non ha bisogno dell’elemosina di Stato

Il Sud con il cappello teso, che chiede soldi, è una immagine odiosa e non vera. Se il governo pensa di risolvere la questione meridionale con l’ennesima pioggia di fondi, è fuori strada. Quei soldi, magari, serviranno per placare gli appetiti di una certa classe dirigente o per sedare le ire di alcuni governatori regionali, ma il Mezzogiorno non ha bisogno di questo. Il piano per il rilancio del Meridione del governo Berlusconi, invece, sembra andare proprio in questa direzione.

Le politiche per il Sud sono uno dei cinque punti del nuovo programma del premier, che prevede una spesa milionaria soprattutto per le infrastrutture. E’ vero che la mobilità al Meridione, i collegamenti ed il sistema bancario al Sud sono ad un livello molto inferiore rispetto al resto del Paese, ma è anche vero che i problemi non sono solo questi. Secondo voi il Mezzogiorno non cresce solo perché mancano le infrastrutture? No. Le imprese non decollano solo perché le banche sono matrigne? No. Il problema principale sta nell’ambiente ostile in cui cittadini ed imprenditori, ogni giorno, devono sopravvivere.

Da un lato c’è l’onnipresente criminalità e, dall’altro, una sempre più preoccupante contiguità con il malaffare e uno sconcertante sentimento di rassegnazione in molti meridionali. Il ponte sullo Stretto, ferrovie civili, autostrade meno disastrate, con molta probabilità, miglioreranno la vita di milioni di persone, ma – ripetiamo - il nodo è un altro. Il Sud ha bisogno di una missione porta a porta per snidare cellule criminali, annientare una diffusa mentalità di sottomissione alle logiche camorristiche o mafiose.

In molte realtà del Mezzogiorno vige la legge del più forte, anche nelle piccole cose. Avete mai provato a questionare con un parcheggiatore abusivo? Se non gli date due euro, con molta probabilità vi trovare le gomme dell’auto forate. E’ normale? No. Sfido, però, a trovare qualcuno che chiami la polizia per denunciare il parcheggiatore. Il governo si deve impegnare per dare una mano concreta ai popoli del Sud che vogliono alzare la testa per riaffermare principi elementari di legalità. E’ questa la sfida primaria con la quale – per la verità – nessuno vuole confrontarsi.

E’ più comodo promettere milioni di euro per risollevare il Meridione, ma questa è una elemosina improduttiva. Bisogna andare comune per comune, quartiere per quartiere, scuola per scuola per professare l’Evangelo della legalità. Solo in questo modo il Sud potrà essere al passo con le altre realtà italiane ed europee. Che senso ha costruire il ponte sullo Stretto se “Gigino ‘o cefalo” continua a chiedere il pizzo e a martoriare il povero commerciante che non ha occhi per piangere?


Fonte:Il Sud


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Il Sud con il cappello teso, che chiede soldi, è una immagine odiosa e non vera. Se il governo pensa di risolvere la questione meridionale con l’ennesima pioggia di fondi, è fuori strada. Quei soldi, magari, serviranno per placare gli appetiti di una certa classe dirigente o per sedare le ire di alcuni governatori regionali, ma il Mezzogiorno non ha bisogno di questo. Il piano per il rilancio del Meridione del governo Berlusconi, invece, sembra andare proprio in questa direzione.

Le politiche per il Sud sono uno dei cinque punti del nuovo programma del premier, che prevede una spesa milionaria soprattutto per le infrastrutture. E’ vero che la mobilità al Meridione, i collegamenti ed il sistema bancario al Sud sono ad un livello molto inferiore rispetto al resto del Paese, ma è anche vero che i problemi non sono solo questi. Secondo voi il Mezzogiorno non cresce solo perché mancano le infrastrutture? No. Le imprese non decollano solo perché le banche sono matrigne? No. Il problema principale sta nell’ambiente ostile in cui cittadini ed imprenditori, ogni giorno, devono sopravvivere.

Da un lato c’è l’onnipresente criminalità e, dall’altro, una sempre più preoccupante contiguità con il malaffare e uno sconcertante sentimento di rassegnazione in molti meridionali. Il ponte sullo Stretto, ferrovie civili, autostrade meno disastrate, con molta probabilità, miglioreranno la vita di milioni di persone, ma – ripetiamo - il nodo è un altro. Il Sud ha bisogno di una missione porta a porta per snidare cellule criminali, annientare una diffusa mentalità di sottomissione alle logiche camorristiche o mafiose.

In molte realtà del Mezzogiorno vige la legge del più forte, anche nelle piccole cose. Avete mai provato a questionare con un parcheggiatore abusivo? Se non gli date due euro, con molta probabilità vi trovare le gomme dell’auto forate. E’ normale? No. Sfido, però, a trovare qualcuno che chiami la polizia per denunciare il parcheggiatore. Il governo si deve impegnare per dare una mano concreta ai popoli del Sud che vogliono alzare la testa per riaffermare principi elementari di legalità. E’ questa la sfida primaria con la quale – per la verità – nessuno vuole confrontarsi.

E’ più comodo promettere milioni di euro per risollevare il Meridione, ma questa è una elemosina improduttiva. Bisogna andare comune per comune, quartiere per quartiere, scuola per scuola per professare l’Evangelo della legalità. Solo in questo modo il Sud potrà essere al passo con le altre realtà italiane ed europee. Che senso ha costruire il ponte sullo Stretto se “Gigino ‘o cefalo” continua a chiedere il pizzo e a martoriare il povero commerciante che non ha occhi per piangere?


Fonte:Il Sud


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Il ministro Fitto e quel finto piano da 100 miliardi per il Sud

Di Carlo Cipiciani

Nella battaglia d’agosto del centrodestra si è parlato molto di un Piano straordinario per il mezzogiorno d’Italia, a cui destinare risorse ingenti. Solo che a scoprire le carte, sotto le chiacchiere non c’è niente. Come al solito

Fitto 1233717983 Il ministro Fitto e quel finto piano da 100 miliardi per il SudPer il sud c’è un piano. Lo avevano detto Tremonti e Fitto prima della pausa estiva nel corso della conferenza stampa in coda al CIPE. Lo ha scritto Berlusconi nel programma d’agosto, quello per mettere con le spalle al muro i finiani. E adesso lo ribadisce lo stesso Fitto. 100 miliardi di euro. Un piano monumentale.

UN ANNO DI ANNUNCI – Di un piano straordinario per il mezzogiorno il governo aveva già parlato un anno fa. Dopo che Gianfranco Micciché aveva minacciato di fondare un Partito del sud, prima delal diaspora che ha portato alla rottura della maggioranza in Sicilia, Berlusconi aveva annunciatoOra stiamo lavorando con i ministri delle Infrastrutture, dello Sviluppo e dell’Economia, dell’Ambiente e delle Regioni per mettere a punto un Piano innovativo per il Sud”. Poi il Piano era slittato a marzo 2010, poi era stato annunciato per giugno un Piano da 250 miliardi di euro. Poi c’è stata la già ricordata conferenza stampa di Tremonti e di Fitto, e siamo arrivati ai giorni nostri. Molti annunci, per un governo che si autodefinisce del fare. Ma poco importa. Ammettiamo che sia la volta buona. D’altronde, “Piano piano si fece Roma”, no?

CHI VA PIANO NON FA IL PIANO – Stavolta, Fitto dixit, ci siamo. Con la Delibera Cipe del 30 luglio scroso si sono fatte tutte le ricognizioni, e sono uscite risorse ingenti. Ma di quali risorse parla il ministro Fitto? Secondo lui, al Piano dovrebbero essere destinati i 22 miliardi rimasti alle 8 regioni meridionali dopo i ripetuti scippi del governo nazionale, a cui si aggiungono i 18,5 miliardi destinati, sempre per il sud, alla gestione ministeriale. A questi andrebbero aggiunti i 31,5 miliardi dei Programmi regionali finanziati con i soldi dell’Unione europea. E siamo a 72 miliardi. Che, per inciso, non sono risorse nuove. Ma risorse già previste per il mezzogiorno, inserite in programmi già approvati dall’Europa o presentati da mesi allo stato nazionale, che con sapiente melina non li ha ancora approvati. Per i quali, insomma, quello che serve è non la ri-programmazione, ma l’attuazione. E gli altri 30 miliardi di euro? Qui entriamo nella pericolosa spirale del contenzioso in atto da due anni tra il governo più federalista del mondo e le regioni. Sono soldi da anni disponibili per le 8 regioni meridionali, o perché derivanti dalla precedente stagione comunitaria o dai soldi del vecchio FAS 2000-2006. Su cui però non c’è accordo. Per Fitto sono risorse mai utilizzate o di dubbio utilizzo, ma per le Regioni sono risorse su cui in parte esistono impegni giuridicamente vincolanti assunti con terzi, sotto forma di bandi per le imprese o progetti infrastrutturali già approvati o in corso di esecuzione. Una materia spinosa, su cui lo stesso Fitto ammette “qualche contrasto”. Ma sia come sia, il dato di fondo è un altro. Lo Stato riprogramma risorse già esistenti e in gran parte già programmate. Più che un Piano, un furto.

UNA STORIA GIA’ VISTA, ANZI PEGGIO – Perché, come ha detto Tremonti, “le risorse disponibili troveranno adeguate forme di impiego. Non saranno disperse in mille rivoli, come è avvenuto finora, ma concentrate su opere fondamentali per il Sud’‘. Il nuovo piano per il Mezzogiorno, ha riferito Tremonti, prenderà forma a ‘’settembre-ottobre” quando ”apparirà in forma diversa una serie di strumenti nuovi coordinati da Palazzo Chigi’. Lo spiega bene il Presidente della regione Basilicata, Vito De Filippo: “Dopo aver utilizzato i Fas come il bancomat per finanziare varie altre attività, il governo ora ha deciso di svaligiare direttamente la cassa, mettendo su un tormentone estivo fondato su approssimazioni e malevole inesattezze che mira ad accreditare le Regioni come incapaci di spendere quei soldi’‘. In pratica, il Piano per il Sud rischia di essere un vero e proprio esproprio di risorse a danno delle Regioni, giustificato dalla loro “inefficienza” nel programmare e nello spendere le risorse stanziate. Ma le cose stanno davvero così? A dispetto dell’evidenza – ovvero di percentuali di realizzazione effettivamente modeste – sembra proprio di no. Per molte ragioni.

DUE PESI E DUE MISURE – L’obiettivo di disincagliare i fondi bloccati è sacrosanto. Ma Fitto e Tremonti non spiegano come mai, quando le Regioni hanno proposto la costituzione di un fondo unico alimentato dalle risorse regionali e nazionali provenienti dalla ricognizione sul mancato utilizzo da impiegare mantenendo il vincolo della destinazione territoriale con l’intesa in Conferenza-Stato Regioni, il governo ha detto di no. E non chiariscono perché come ricorda ancora Vito De Filippo, “si accanisce a verificare le percentuali di realizzazione per revocare quanti più fondi possibili alle Regioni, mentre a livello di Ministeri e direzioni centrali si accontenta di verificare l’esistenza dei soli impegni di spesa a cui, spesso, non è seguita alcuna attività”. La capacità di spesa risulta essere un vincolo per la riprogrammazione dei fondi solo quando l’incapace non risiede a Roma. E la melina che il Cipe fa da due anni con ttute le regioni, anche quelle “efficienti del centro nord, sui fondi Fas, mai sbloccati? E le risorse accantonate per il Fondo infrastrutture, Fondo ammortizzatori sociali e Fondo economie reale scippate, come abbiamo già raccontato qui, dai fas regionali e ricondotte alla gestione di palazzo Chigi di cui non risultano progetti approvati dopo più di un anno?

MEGLIO LE GRANDI OPERE? – Ma c’è dell’altro. Oltre che essere un gigantesco esproprio di risorse dal livello regionale a quello centrale, giustificato solo in parte dall’inefficienza delle regioni meridionali, questo nuovo piano rischia semplicemente di vanificare gli sforzi di programmazione sin qui fatti e di farci persino perdere le risorse di Bruxelles. E già, perché se le risorse nazionali – ammesso che ci siano – del Fas possono essere spese più o meno quando ci pare, quelle dell’Unione europea sono soggette al capestro del cosiddetto disimpegno automatico. Quello che gli stessi Fitto e Tremonti fanno valere come giustificazione per “commissariare” i programmi regionali. Ma l’utilizzo di quei fondi dovrà passare per i defatiganti negoziati con i funzionari della Commissione europea, che dovranno vagliare i nuovi interventi proposti, stabilirne la coerenza con le regole europee e con i programmi regionali già approvati. Cose che, come sa bene chi si occupa da vicino di questi “adempimenti burocratici” possono portare via mesi. E nel caso di una riprogrammazione monumentale come quella che s’annuncia, anni. Senza contare che, poi, le grandi opere vanno attuate. E nulla lascia pensare che – senza interventi sull’organizzazione della Pubblica amministrazione, delle regole per gli appalti pubblici, dei meccanismi di erogazione degli aiuti alle imprese, cose davvero necessarie – l’attuazione di questo nuovo Piano sia più semplice e più rapida di quelli regionali in ritardo. Rischiando che la montagna del Piano per il sud partorisca il topolino della non spesa di risorse cruciali. E il loro ritorno a Bruxelles. Un bel piano, non c’è che dire.

Fonte:Giornalettismo


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Di Carlo Cipiciani

Nella battaglia d’agosto del centrodestra si è parlato molto di un Piano straordinario per il mezzogiorno d’Italia, a cui destinare risorse ingenti. Solo che a scoprire le carte, sotto le chiacchiere non c’è niente. Come al solito

Fitto 1233717983 Il ministro Fitto e quel finto piano da 100 miliardi per il SudPer il sud c’è un piano. Lo avevano detto Tremonti e Fitto prima della pausa estiva nel corso della conferenza stampa in coda al CIPE. Lo ha scritto Berlusconi nel programma d’agosto, quello per mettere con le spalle al muro i finiani. E adesso lo ribadisce lo stesso Fitto. 100 miliardi di euro. Un piano monumentale.

UN ANNO DI ANNUNCI – Di un piano straordinario per il mezzogiorno il governo aveva già parlato un anno fa. Dopo che Gianfranco Micciché aveva minacciato di fondare un Partito del sud, prima delal diaspora che ha portato alla rottura della maggioranza in Sicilia, Berlusconi aveva annunciatoOra stiamo lavorando con i ministri delle Infrastrutture, dello Sviluppo e dell’Economia, dell’Ambiente e delle Regioni per mettere a punto un Piano innovativo per il Sud”. Poi il Piano era slittato a marzo 2010, poi era stato annunciato per giugno un Piano da 250 miliardi di euro. Poi c’è stata la già ricordata conferenza stampa di Tremonti e di Fitto, e siamo arrivati ai giorni nostri. Molti annunci, per un governo che si autodefinisce del fare. Ma poco importa. Ammettiamo che sia la volta buona. D’altronde, “Piano piano si fece Roma”, no?

CHI VA PIANO NON FA IL PIANO – Stavolta, Fitto dixit, ci siamo. Con la Delibera Cipe del 30 luglio scroso si sono fatte tutte le ricognizioni, e sono uscite risorse ingenti. Ma di quali risorse parla il ministro Fitto? Secondo lui, al Piano dovrebbero essere destinati i 22 miliardi rimasti alle 8 regioni meridionali dopo i ripetuti scippi del governo nazionale, a cui si aggiungono i 18,5 miliardi destinati, sempre per il sud, alla gestione ministeriale. A questi andrebbero aggiunti i 31,5 miliardi dei Programmi regionali finanziati con i soldi dell’Unione europea. E siamo a 72 miliardi. Che, per inciso, non sono risorse nuove. Ma risorse già previste per il mezzogiorno, inserite in programmi già approvati dall’Europa o presentati da mesi allo stato nazionale, che con sapiente melina non li ha ancora approvati. Per i quali, insomma, quello che serve è non la ri-programmazione, ma l’attuazione. E gli altri 30 miliardi di euro? Qui entriamo nella pericolosa spirale del contenzioso in atto da due anni tra il governo più federalista del mondo e le regioni. Sono soldi da anni disponibili per le 8 regioni meridionali, o perché derivanti dalla precedente stagione comunitaria o dai soldi del vecchio FAS 2000-2006. Su cui però non c’è accordo. Per Fitto sono risorse mai utilizzate o di dubbio utilizzo, ma per le Regioni sono risorse su cui in parte esistono impegni giuridicamente vincolanti assunti con terzi, sotto forma di bandi per le imprese o progetti infrastrutturali già approvati o in corso di esecuzione. Una materia spinosa, su cui lo stesso Fitto ammette “qualche contrasto”. Ma sia come sia, il dato di fondo è un altro. Lo Stato riprogramma risorse già esistenti e in gran parte già programmate. Più che un Piano, un furto.

UNA STORIA GIA’ VISTA, ANZI PEGGIO – Perché, come ha detto Tremonti, “le risorse disponibili troveranno adeguate forme di impiego. Non saranno disperse in mille rivoli, come è avvenuto finora, ma concentrate su opere fondamentali per il Sud’‘. Il nuovo piano per il Mezzogiorno, ha riferito Tremonti, prenderà forma a ‘’settembre-ottobre” quando ”apparirà in forma diversa una serie di strumenti nuovi coordinati da Palazzo Chigi’. Lo spiega bene il Presidente della regione Basilicata, Vito De Filippo: “Dopo aver utilizzato i Fas come il bancomat per finanziare varie altre attività, il governo ora ha deciso di svaligiare direttamente la cassa, mettendo su un tormentone estivo fondato su approssimazioni e malevole inesattezze che mira ad accreditare le Regioni come incapaci di spendere quei soldi’‘. In pratica, il Piano per il Sud rischia di essere un vero e proprio esproprio di risorse a danno delle Regioni, giustificato dalla loro “inefficienza” nel programmare e nello spendere le risorse stanziate. Ma le cose stanno davvero così? A dispetto dell’evidenza – ovvero di percentuali di realizzazione effettivamente modeste – sembra proprio di no. Per molte ragioni.

DUE PESI E DUE MISURE – L’obiettivo di disincagliare i fondi bloccati è sacrosanto. Ma Fitto e Tremonti non spiegano come mai, quando le Regioni hanno proposto la costituzione di un fondo unico alimentato dalle risorse regionali e nazionali provenienti dalla ricognizione sul mancato utilizzo da impiegare mantenendo il vincolo della destinazione territoriale con l’intesa in Conferenza-Stato Regioni, il governo ha detto di no. E non chiariscono perché come ricorda ancora Vito De Filippo, “si accanisce a verificare le percentuali di realizzazione per revocare quanti più fondi possibili alle Regioni, mentre a livello di Ministeri e direzioni centrali si accontenta di verificare l’esistenza dei soli impegni di spesa a cui, spesso, non è seguita alcuna attività”. La capacità di spesa risulta essere un vincolo per la riprogrammazione dei fondi solo quando l’incapace non risiede a Roma. E la melina che il Cipe fa da due anni con ttute le regioni, anche quelle “efficienti del centro nord, sui fondi Fas, mai sbloccati? E le risorse accantonate per il Fondo infrastrutture, Fondo ammortizzatori sociali e Fondo economie reale scippate, come abbiamo già raccontato qui, dai fas regionali e ricondotte alla gestione di palazzo Chigi di cui non risultano progetti approvati dopo più di un anno?

MEGLIO LE GRANDI OPERE? – Ma c’è dell’altro. Oltre che essere un gigantesco esproprio di risorse dal livello regionale a quello centrale, giustificato solo in parte dall’inefficienza delle regioni meridionali, questo nuovo piano rischia semplicemente di vanificare gli sforzi di programmazione sin qui fatti e di farci persino perdere le risorse di Bruxelles. E già, perché se le risorse nazionali – ammesso che ci siano – del Fas possono essere spese più o meno quando ci pare, quelle dell’Unione europea sono soggette al capestro del cosiddetto disimpegno automatico. Quello che gli stessi Fitto e Tremonti fanno valere come giustificazione per “commissariare” i programmi regionali. Ma l’utilizzo di quei fondi dovrà passare per i defatiganti negoziati con i funzionari della Commissione europea, che dovranno vagliare i nuovi interventi proposti, stabilirne la coerenza con le regole europee e con i programmi regionali già approvati. Cose che, come sa bene chi si occupa da vicino di questi “adempimenti burocratici” possono portare via mesi. E nel caso di una riprogrammazione monumentale come quella che s’annuncia, anni. Senza contare che, poi, le grandi opere vanno attuate. E nulla lascia pensare che – senza interventi sull’organizzazione della Pubblica amministrazione, delle regole per gli appalti pubblici, dei meccanismi di erogazione degli aiuti alle imprese, cose davvero necessarie – l’attuazione di questo nuovo Piano sia più semplice e più rapida di quelli regionali in ritardo. Rischiando che la montagna del Piano per il sud partorisca il topolino della non spesa di risorse cruciali. E il loro ritorno a Bruxelles. Un bel piano, non c’è che dire.

Fonte:Giornalettismo


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lunedì 30 agosto 2010

Puglia e Basilicata è allarme povertà per uno su tre

di NICOLA PEPE

Un pugliese su tre è povero. Idem per un lucano. Per non parlare di circa 26mila «fantasmi» che risultano «iscritti» al fisco ma che in realtà non presentano neanche la dichiarazione dei redditi. La «fotografia» del fisco sul Mezzogiorno, quindi anche Puglia e Basilicata, rivela una serie di dati che per certi aspetti possono apparire scontati, per altri no. Mentre con la social card c’è chi acquista beni di «lusso» come trucchi o profumi, (la «tessera» spetta a chi non potrebbe permettersi di mangiare più di una volta al giorno), si scopre che il 32% dei pugliesi versa in condizioni di estremo disagio tale da rientrare nella categoria in cui si è esentati dal pagamento di ogni imposta.

E così, mentre gli «007» della Finanza e delle Agenzie delle entrate vanno a caccia dei «furbetti» anche sull’altra sponda dell’Adriatico nel tentativo di scovare chi cerca di mascherare gli yacht, si scopre che almeno 800mila contribuenti pugliesi rientrano nella fascia di disagio. Gente che ogni giorno bussa alle porte delle amministrazione pubbliche per chiedere contributi, beneficiare di agevolazioni: contribuenti che non sanno cosa significhi pagare le tasse perchè, per il fisco, non sono tenuti a versare un euro.

Ovviamente non è il caso di fare di tutta l’erba un fascio ed è per questo che è fondamentale un’azione di accertamento soprattutto se di mezzo c’è il futuro del Paese alle prese con tagli di qua e di là che finiscono col produrre conseguenze per quelle categorie di persone realmente bisognose visto che non superano nemmeno la prima settimana del mese. Il capitale sociale fiscale della Puglia è rappresentato in gran parte da dipendenti e pensionati. In Puglia, sono 2 milioni e 582 mila, in Basilicata poco più 394mila i censiti nell’anagrafe dell’Agenzia delle entrate (di cui 191mila dipendenti e 150 mila pensionati). Il resto, appartengono alle sfera degli «autonomi» o dei cosiddetti «fantasmi». Gente che dovrebbe dichiarare un reddito visto che è censita come contribuente, ma che in realtà non bussa alla porta del fisco da parecchio tempo.

Poveri o finti poveri? A giudicare da quanto emerge in queste ore, il confine tra vero e falso sembra molto labile. In un Paese in cui appena 397mila e 850 persone dichiarano più di 100mila euro (39mila nel Sud) su un totale di 41milioni di contribuenti, gli interrogativi crescono di ora in ora. E nel frattempo città come Bari registrano oltre 50mila persone (su una popolazione di 200mila contribuenti) che non dichiarano nulla e altre 13mila che sono sulla soglia della povertà.


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di NICOLA PEPE

Un pugliese su tre è povero. Idem per un lucano. Per non parlare di circa 26mila «fantasmi» che risultano «iscritti» al fisco ma che in realtà non presentano neanche la dichiarazione dei redditi. La «fotografia» del fisco sul Mezzogiorno, quindi anche Puglia e Basilicata, rivela una serie di dati che per certi aspetti possono apparire scontati, per altri no. Mentre con la social card c’è chi acquista beni di «lusso» come trucchi o profumi, (la «tessera» spetta a chi non potrebbe permettersi di mangiare più di una volta al giorno), si scopre che il 32% dei pugliesi versa in condizioni di estremo disagio tale da rientrare nella categoria in cui si è esentati dal pagamento di ogni imposta.

E così, mentre gli «007» della Finanza e delle Agenzie delle entrate vanno a caccia dei «furbetti» anche sull’altra sponda dell’Adriatico nel tentativo di scovare chi cerca di mascherare gli yacht, si scopre che almeno 800mila contribuenti pugliesi rientrano nella fascia di disagio. Gente che ogni giorno bussa alle porte delle amministrazione pubbliche per chiedere contributi, beneficiare di agevolazioni: contribuenti che non sanno cosa significhi pagare le tasse perchè, per il fisco, non sono tenuti a versare un euro.

Ovviamente non è il caso di fare di tutta l’erba un fascio ed è per questo che è fondamentale un’azione di accertamento soprattutto se di mezzo c’è il futuro del Paese alle prese con tagli di qua e di là che finiscono col produrre conseguenze per quelle categorie di persone realmente bisognose visto che non superano nemmeno la prima settimana del mese. Il capitale sociale fiscale della Puglia è rappresentato in gran parte da dipendenti e pensionati. In Puglia, sono 2 milioni e 582 mila, in Basilicata poco più 394mila i censiti nell’anagrafe dell’Agenzia delle entrate (di cui 191mila dipendenti e 150 mila pensionati). Il resto, appartengono alle sfera degli «autonomi» o dei cosiddetti «fantasmi». Gente che dovrebbe dichiarare un reddito visto che è censita come contribuente, ma che in realtà non bussa alla porta del fisco da parecchio tempo.

Poveri o finti poveri? A giudicare da quanto emerge in queste ore, il confine tra vero e falso sembra molto labile. In un Paese in cui appena 397mila e 850 persone dichiarano più di 100mila euro (39mila nel Sud) su un totale di 41milioni di contribuenti, gli interrogativi crescono di ora in ora. E nel frattempo città come Bari registrano oltre 50mila persone (su una popolazione di 200mila contribuenti) che non dichiarano nulla e altre 13mila che sono sulla soglia della povertà.


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Giorgio Ruffolo: "L'Unità di Italia? Non è ancora in pericolo. Non credo nel federalismo fiscale"


di Paolo Salvatore Orrù
Il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano ha ieri deposto una corona d’alloro ai piedi della stele di marmo che celebra la partenza dei Mille da Genova Quarto, avviando così le celebrazioni del 150° anniversario dell'Unità d'Italia. Un atto simbolico disturbato dall’eco delle recenti esternazioni di Umberto Bossi (“Non so se ci andrò, ma se Napolitano mi chiama…”). Un’uscita che è stata stigmatizzata dall’opposizione e da alcune frange della minoranza. “Le dichiarazioni di Bossi sono singolari: lui, come tutti gli altri ministri della Repubblica, ha giurato fedeltà alla Costituzione. Quindi le sue manifestazioni di estraneità appaiono perlomeno singolari”, ha commentato Giorgio Ruffolo, economista, esponente di primo piano del riformismo italiano, ministro dell'Ambiente dal 1987 al 1992 e deputato socialista a Montecitorio e al Parlamento europeo, autore del saggio, edito da Einaudi, Un paese troppo lungo. L'unità nazionale in pericolo.
Professore, Bossi ha detto che parteciperà alle manifestazioni per il 150° anniversario dell'Unità solo se invitato dal Presidente della Repubblica. Secondo lei, l’Italia rimarrà unita?
“Bossi non è nuovo a dichiarazioni totalmente incompatibili con il ruolo di ministro della Repubblica. Non so Napolitano lo inviterà: credo che non ci sarà alcun invito. Per quanto riguarda le minacce di secessione o di separazione, non penso che siano imminenti e che possano essere prese sul serio. Credo però che nel medio e nel lungo periodo queste avvisaglie possano manifestarsi in modi più gravi: mai come adesso il Nord e il Sud sono apparsi così distanti e non è detto che si possano separare in un Belgio grasso e un Sud mafioso”.
Sono sempre più forti quelle spinte che, seppur con connotazioni storiche sempre diverse, sperano nella disgregazione dello stato italiano. Gli ultimi baluardi sono la Chiesa- Cardinale Bertone ha difeso l’Unità dello Stato - e Gianfranco Fini?
“La Chiesa 150 anni fa si è battuta contro l’unificazione d’Italia. Ora invece ha assunto una posizione positiva, responsabile, importante rispetto alle pretese leghiste. Quanto a Fini, ho preso molto sul serio quella che io chiamo l’ “eterogenesi” di Fini: mi pare che venga da un processo di intimo, reale e sincero convincimento democratico. Che non interpreto, e non voglio assolutamente interpretarla, come una futura alleanza politica con il centrosinistra. Ritengo che l’ex segretario di Alleanza Nazionale la escluda, e fa bene ad escluderla. Il problema è avere una destra responsabile e seria, una destra normale. Quella di Berlusconi si basa su una specie di populismo privatistico che non ha niente a che fare con il liberalismo. Credo che Fini desideri giungere ad effettiva contrapposizione tra due forze democratiche, una di destra e l’altra di sinistra. Mi auguro che il tentativo di Fini, che giudico sincero e opportuno, abbia successo”.
Nel su libro Un Paese troppo lungo, lei adombra un Sud prigioniero della mafia e un Mezzogiorno impegnato a garantirsi le risorse del Paese attraverso il voto di clientela. Professore, il federalismo è la strada giusta per uscire da questo degrado?
“Non apprezzo il cosiddetto federalismo fiscale: è il contrario del federalismo storico, che prefigura una aggregazione di unità indipendenti in una unità superiore alla quale si devolvono poteri sovrani. Il federalismo dei leghisti è invece un tentativo di sottrarre competenze dallo Stato nazionale per distribuirle alle unità subnazionali sulla base del principio che ognuno tiene per sé le sue risorse: questo è un separatismo che minaccia di diventare secessione. La proposta contenuta nel mio libro, forse utopistica, sicuramente provocatoria, si rifà all’interpretazione che del federalismo hanno dato i grandi meridionalisti del risorgimento e al Nord lo stesso Carlo Cattaneo. Il grande merito di questi studiosi è stato di aver saputo sviluppare una concezione in cui il Sud è parte integrante dell'Italia. E non una specie di intervento assistenziale che si traduce in sovvenzioni corporative e soprattutto e in corruzione e mafia.

Come si può realizzare il suo federalismo?
“Credo che si possa realizzare in un patto fra due macro regioni con una mediazione come avviene negli Stati Uniti. Quindi con un potere nazionale che è rappresentato soprattutto dalla capitale. Una riforma che potrebbe anche dar luogo ad un’altra rivendicazione, che è stata promossa e sostenuta dalla destra, ma che potrebbe essere declinata in altro modo, promuovendo un presidenzialismo garante di questo accordo e mediatore di una Italia che ritrovi le ragioni della propria unità nazionale attraverso questo patto”.

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di Paolo Salvatore Orrù
Il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano ha ieri deposto una corona d’alloro ai piedi della stele di marmo che celebra la partenza dei Mille da Genova Quarto, avviando così le celebrazioni del 150° anniversario dell'Unità d'Italia. Un atto simbolico disturbato dall’eco delle recenti esternazioni di Umberto Bossi (“Non so se ci andrò, ma se Napolitano mi chiama…”). Un’uscita che è stata stigmatizzata dall’opposizione e da alcune frange della minoranza. “Le dichiarazioni di Bossi sono singolari: lui, come tutti gli altri ministri della Repubblica, ha giurato fedeltà alla Costituzione. Quindi le sue manifestazioni di estraneità appaiono perlomeno singolari”, ha commentato Giorgio Ruffolo, economista, esponente di primo piano del riformismo italiano, ministro dell'Ambiente dal 1987 al 1992 e deputato socialista a Montecitorio e al Parlamento europeo, autore del saggio, edito da Einaudi, Un paese troppo lungo. L'unità nazionale in pericolo.
Professore, Bossi ha detto che parteciperà alle manifestazioni per il 150° anniversario dell'Unità solo se invitato dal Presidente della Repubblica. Secondo lei, l’Italia rimarrà unita?
“Bossi non è nuovo a dichiarazioni totalmente incompatibili con il ruolo di ministro della Repubblica. Non so Napolitano lo inviterà: credo che non ci sarà alcun invito. Per quanto riguarda le minacce di secessione o di separazione, non penso che siano imminenti e che possano essere prese sul serio. Credo però che nel medio e nel lungo periodo queste avvisaglie possano manifestarsi in modi più gravi: mai come adesso il Nord e il Sud sono apparsi così distanti e non è detto che si possano separare in un Belgio grasso e un Sud mafioso”.
Sono sempre più forti quelle spinte che, seppur con connotazioni storiche sempre diverse, sperano nella disgregazione dello stato italiano. Gli ultimi baluardi sono la Chiesa- Cardinale Bertone ha difeso l’Unità dello Stato - e Gianfranco Fini?
“La Chiesa 150 anni fa si è battuta contro l’unificazione d’Italia. Ora invece ha assunto una posizione positiva, responsabile, importante rispetto alle pretese leghiste. Quanto a Fini, ho preso molto sul serio quella che io chiamo l’ “eterogenesi” di Fini: mi pare che venga da un processo di intimo, reale e sincero convincimento democratico. Che non interpreto, e non voglio assolutamente interpretarla, come una futura alleanza politica con il centrosinistra. Ritengo che l’ex segretario di Alleanza Nazionale la escluda, e fa bene ad escluderla. Il problema è avere una destra responsabile e seria, una destra normale. Quella di Berlusconi si basa su una specie di populismo privatistico che non ha niente a che fare con il liberalismo. Credo che Fini desideri giungere ad effettiva contrapposizione tra due forze democratiche, una di destra e l’altra di sinistra. Mi auguro che il tentativo di Fini, che giudico sincero e opportuno, abbia successo”.
Nel su libro Un Paese troppo lungo, lei adombra un Sud prigioniero della mafia e un Mezzogiorno impegnato a garantirsi le risorse del Paese attraverso il voto di clientela. Professore, il federalismo è la strada giusta per uscire da questo degrado?
“Non apprezzo il cosiddetto federalismo fiscale: è il contrario del federalismo storico, che prefigura una aggregazione di unità indipendenti in una unità superiore alla quale si devolvono poteri sovrani. Il federalismo dei leghisti è invece un tentativo di sottrarre competenze dallo Stato nazionale per distribuirle alle unità subnazionali sulla base del principio che ognuno tiene per sé le sue risorse: questo è un separatismo che minaccia di diventare secessione. La proposta contenuta nel mio libro, forse utopistica, sicuramente provocatoria, si rifà all’interpretazione che del federalismo hanno dato i grandi meridionalisti del risorgimento e al Nord lo stesso Carlo Cattaneo. Il grande merito di questi studiosi è stato di aver saputo sviluppare una concezione in cui il Sud è parte integrante dell'Italia. E non una specie di intervento assistenziale che si traduce in sovvenzioni corporative e soprattutto e in corruzione e mafia.

Come si può realizzare il suo federalismo?
“Credo che si possa realizzare in un patto fra due macro regioni con una mediazione come avviene negli Stati Uniti. Quindi con un potere nazionale che è rappresentato soprattutto dalla capitale. Una riforma che potrebbe anche dar luogo ad un’altra rivendicazione, che è stata promossa e sostenuta dalla destra, ma che potrebbe essere declinata in altro modo, promuovendo un presidenzialismo garante di questo accordo e mediatore di una Italia che ritrovi le ragioni della propria unità nazionale attraverso questo patto”.

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domenica 29 agosto 2010

Presidente Mer.Mec. «Assenteismo al Sud? A me risulta sotto il 2%»

Troppo assenteismo al Sud tanto che così non conviene a nessuno investirci. L'attacco, quasi a gamba tesa, è stato dell'amministratore delegato dell'Eni Paolo Scaroni che, dal palco dei dibattiti di Cortina, si è detto schierato con il suo omologo Fiat Sergio Marchionne impegnato nello sforzo di produrre in Italia,e in Meridione in particolare, solo se ci saranno quelle condizioni di competitività e presenza in fabbrica, di impegno di lavoro minime per poter sfornare prodotti competitivi.
L'accusa è così pesante ma a ben vedere abbastanza in sintonia con quelle che vengono dal versante della Lega Nord secondo cui sprechi di fondi pubblici e assenteismo, per non parlare di false invalidità e criminalità, vengono proposti come sinonimo di Mezzogiorno d'Italia.

Contro questi beceri luoghi comuni rivendicando, non senza orgoglio, la propria esperienza imprenditoriale, comune peraltro a tanti altri colleghi sparsi nel Sud del Paese, è Vito Pertosa, presidente della Mer.Mec., una delle aziende più innovative e tecnologicamente avanzate della Puglia, leader mondiale nel settore della diagnostica e della gestione delle infrastrutture ferroviarie, ma anche promotore della Angelo Investments nonché imprenditore dell'anno 2009. «E' assurdo che un amministratore delegato di una società partecipata dal Tesoro possa dire che è inutile investire al Sud e che è meglio farlo al Nord, in Francia o nella Repubblica Ceca - rileva non senza disappunto – questo dato sull'assenteismo nel Mezzogiorno non lo condivido affatto; nelle mie aziende e in quelle che conosco io, siamo sotto il 2%, e non al 10% come ha denunciato a Cortina, mentre al Nord sarebbe al 5%. Nelle nostre aziende al Sud l'assenteismo è inferiore al 2% quindi ai livelli della Francia e della Repubblica Ceca».

«Al Sud semmai si lavora di più – incalza Pertosa – se si chiama al telefono la sera nelle aziende del Nord non risponde nessuno mentre da noi si rimane spesso sino a tardi».

Però, ad onor del vero, non sono tanti gli investimenti nel Mezzogiorno, specie quelli esteri. «Ma con l'assenteismo non c'entra nulla – replica Pertosa – io, con una società di investimento, sto comprando aziende del Nord e le localizzo nel Sud, per esempio ho acquisito un'azienda di Viareggio di alto livello di innovazione dove lavorano tanti ingegneri pugliesi, trasferitisi da Casamassima, Putignano etc. in Toscana, che hanno interesse a tornare al Sud. Il problemi degli investimenti esteri è che dovremmo aiutare di più questo discorso, cosa che non ha funzionato nonostante le varie agenzie nazionali, non si è mai lavorato adeguatamente per l'attrazione degli investimenti ma non possiamo non dire che ci sono tutte le caratteristiche perché si possa investire a tutti livelli, anche a livello di infrastrutture abbiamo aeroporti che funzionano benissimo, ci sono i porti, ci sono le strade, manca l'alta velocità, i problemi ci sono ma non possiamo solo lamentarci».

«La Puglia ha investito molto nell'energia alternativa , è l'unico posto dove anche le grande imprese sono state aiutate a fare investimenti di ricerca con incentivi – ricorda ancora Pertosa - non si può né sparare nel mucchio né dire che tutto conviene al Nord, con uno spostamento di interessi e di attività; da parte nostra – conclude - bisognerebbe serrare le fila al Meridione, indipendentemente da questioni politiche per portare in maniera più coesa l'interesse del Mezzogiorno». [red. ec.]


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Troppo assenteismo al Sud tanto che così non conviene a nessuno investirci. L'attacco, quasi a gamba tesa, è stato dell'amministratore delegato dell'Eni Paolo Scaroni che, dal palco dei dibattiti di Cortina, si è detto schierato con il suo omologo Fiat Sergio Marchionne impegnato nello sforzo di produrre in Italia,e in Meridione in particolare, solo se ci saranno quelle condizioni di competitività e presenza in fabbrica, di impegno di lavoro minime per poter sfornare prodotti competitivi.
L'accusa è così pesante ma a ben vedere abbastanza in sintonia con quelle che vengono dal versante della Lega Nord secondo cui sprechi di fondi pubblici e assenteismo, per non parlare di false invalidità e criminalità, vengono proposti come sinonimo di Mezzogiorno d'Italia.

Contro questi beceri luoghi comuni rivendicando, non senza orgoglio, la propria esperienza imprenditoriale, comune peraltro a tanti altri colleghi sparsi nel Sud del Paese, è Vito Pertosa, presidente della Mer.Mec., una delle aziende più innovative e tecnologicamente avanzate della Puglia, leader mondiale nel settore della diagnostica e della gestione delle infrastrutture ferroviarie, ma anche promotore della Angelo Investments nonché imprenditore dell'anno 2009. «E' assurdo che un amministratore delegato di una società partecipata dal Tesoro possa dire che è inutile investire al Sud e che è meglio farlo al Nord, in Francia o nella Repubblica Ceca - rileva non senza disappunto – questo dato sull'assenteismo nel Mezzogiorno non lo condivido affatto; nelle mie aziende e in quelle che conosco io, siamo sotto il 2%, e non al 10% come ha denunciato a Cortina, mentre al Nord sarebbe al 5%. Nelle nostre aziende al Sud l'assenteismo è inferiore al 2% quindi ai livelli della Francia e della Repubblica Ceca».

«Al Sud semmai si lavora di più – incalza Pertosa – se si chiama al telefono la sera nelle aziende del Nord non risponde nessuno mentre da noi si rimane spesso sino a tardi».

Però, ad onor del vero, non sono tanti gli investimenti nel Mezzogiorno, specie quelli esteri. «Ma con l'assenteismo non c'entra nulla – replica Pertosa – io, con una società di investimento, sto comprando aziende del Nord e le localizzo nel Sud, per esempio ho acquisito un'azienda di Viareggio di alto livello di innovazione dove lavorano tanti ingegneri pugliesi, trasferitisi da Casamassima, Putignano etc. in Toscana, che hanno interesse a tornare al Sud. Il problemi degli investimenti esteri è che dovremmo aiutare di più questo discorso, cosa che non ha funzionato nonostante le varie agenzie nazionali, non si è mai lavorato adeguatamente per l'attrazione degli investimenti ma non possiamo non dire che ci sono tutte le caratteristiche perché si possa investire a tutti livelli, anche a livello di infrastrutture abbiamo aeroporti che funzionano benissimo, ci sono i porti, ci sono le strade, manca l'alta velocità, i problemi ci sono ma non possiamo solo lamentarci».

«La Puglia ha investito molto nell'energia alternativa , è l'unico posto dove anche le grande imprese sono state aiutate a fare investimenti di ricerca con incentivi – ricorda ancora Pertosa - non si può né sparare nel mucchio né dire che tutto conviene al Nord, con uno spostamento di interessi e di attività; da parte nostra – conclude - bisognerebbe serrare le fila al Meridione, indipendentemente da questioni politiche per portare in maniera più coesa l'interesse del Mezzogiorno». [red. ec.]


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A proposito dell'articolo "Il massacro dimenticato di Pontelandolfo. Quando i bersaglieri fucilarono gli innocenti"- Considerazioni di Antonio Ciano



Di Antonio Ciano

Trovai la notizia di quella strage sul libro di De Sivo: Nel 1994 e nel 1995 mi recai a Pontelandolfo, non c'era traccia dell'eccidio, i piemontesi avevano bruciato la città, nè trovai reperti nella biblioteca comunale, se non un libello di un certo Gentile.
Il Sindaco Perugini mi indicò la biblioteca provinciale di Benevento, dove mi recai e dove trovai articoli sull'accadimento di Zazo e di altri. Misi ordiine ai fatti processuali, ne ricavai la cronologia dei fatti accaduti da primo agosto del 1861 al 17 agosto dello stesso anno.
I morti indicati in una lapide erano solo 17, dissi al sindaco che era un falso storico perchè avevo trovato una fonte sulla civiltà cattolica che parlava di 164 morti. Pubblicai il mio libro nel 1996, trattavasi de "I Savoia e il massacro del Sud", poi seguì al mio un bel libro di Gigi Di Fiore, potrebbero girarvi un film.
Non ho mai avuto nè preteso riconoscimenti dai ponntelandolfesi, anzi ricevetti una denuncia che mi costò quattro anni di processi.
Nessuno veniva ai processi, tutti gli eroi di oggi non c'erano, ma erano presenti sempre Manna, Barone, Alessandro Romano e l'ex viceprefetto di Roma Dott. Luciani.
Il libro ha venduto molto e ha aperto gli occhi a molti intellettuali, la ricchezza accumulata dai liberali del tempo è rimasta ai loro eredi,ma il tempo delle more si sta avvicinando, devono posare l'osso. Questo vale per i traditori di ieri e per i piemontesi nostrani dell'oggi. Quel libro ha venduto oltre duecentomila copie.
Non sono mai stato borbonico, sono repubblicano convinto, ma tra la feccia che ha inondato il nostro paese, devo convenire che che quei Re sono stati degli innovatori e dei martiri. Oltre al fatto che hanno sempre difeso i contadini e gli operai,mentre loro nel 1771 permettevano a San Leucio una società di eguali, Tiers, in Francia, nel 1871 mise a ferro e fuoco la Comune di Parigi.
Un re che dà l'opportunità ai suoi sudditi di sceglersi il modo di amministrarsi ed un massone liberale che affonda quelle idee con le cannonate.
Ogni volta che il Regno veniva aggredito, i contadini sapevano con chi schierarsi, mai con i rivoluzioni liberali, sempre dalla parte del Re che permetteva loro di avere un pezzo di terra in uso e mai in proprietà.
Comunque basta vedere la opere fatte in 127 anni da quei Re che parlavano napoletano per rendersi conto della loro grandezza. Leggete il libro di Pino Aprile"Terroni", vi accorgerete che dopo quel periodo il Sud è affondato in una miseria mai avuta.
Il Piemonte ha desertificato la nostra economia, ha massacrato un milione di contadini chiamandoli Briganti, i suoi generali e i suoi ufficiali si sono macchiati di crimini contro l'umanità ed hanno ancora strade e piazze intitolate a vergogna della nostra repubblica.
Han fatto emigrare almeno 20 milioni di meridionali estrapolando famiglie intere dai loro territori,è stata una emigrazione biblica che nemmeno gli ebrei hanno sofferto e mentre Francesco II combattè fino alla fine sugli spalti di Gaeta difendendo la nostra città e il Sud dall'attacco barbaro di suo cugino,vittorio Emanuele III nel 1943 fuggì come un codardo, lasciando gli italiani nelle mani della rabbia tedesca. Dall'8 settembre di quell'anno al 1945 morirono oltre settecentomia italiani, causarono una guerra civile tra fascisti,comunisti e cattolici; soffriamo ancora la Peste bubbonica di un liberale massone al potere.
La repubblica è nata sulle ceneri della monarchia sabauda e il presidente della repubblica si reca a riverire quella unità che ci ha affamati, che ci ha spellati.
In Francia la repubblica festeggia la sua vittoria ogni 14 di luglio, e non va a festeggiare Maria Antonietta.
In Francia non vediamo leggi monarchiche, non vediamo piazze e strade intitolate alla monarchia precedente.
In Israele non hanno le strade intitolate ai loro carnefici; a Tel Aviv hanno strade intitolate ai loro eroi, non ai Hitler o a Reder,o a Kappler, o ad Hicheman.
Perchè?
A loro hanno dato una identità di popolo, a noi hanno insegnato a rendere omaggio a quei mostri dei Savoia.
Gaeta fu distrutta da migliaia di Bombe, i suoi cittadini dispersi in tutto il mondo e vorrebbero farmi festeggiare quella barbarie dei savoia?

La storia va avanti, in questo periodo si stanno riscoprendo le nostre radici e chi scrive ha sofferto le pene dell'inferno quando veniva preso per pazzo e veniva denunciato per difendere la propria identità.
Forse sono stato l'ultimo brigante ad essere processato, ma vivaddio, è arrivato il momento di fare i conti con la storia e con il passato.
Quella che chiamano economia italiana è solo Tosco-padana, è solo di alcune regioni che la producono. L'Emilia Romagna produce quella del centro sinistra e la Lombardia quella che il centro destra difende a spada tratta. Tutte le compagnie di assicurazione, quelle telefoniche, quelle mediatiche, quelle finanziarie appartengono a quelle realtà. Le banche sono tutte del Nord,anche il banco di Napoli e quello di Sicilia.
Hanno impiegato 150 anni a fotterci tutto.
Il Partito del Sud sta appropriandosi del terriorio,stiamo associando centomila contadini affamati da questo sistema, che io faccio risalire al Risorgimento piemontese. Pagano il grano a 13 centesimi al kg, mentre un pacco di caramelle in un bar costa 1 euro.
Dobbiamo riscostruire la nostra economia partendo dalla base, dobbiamo ricacciare questa destra e questa sinistra nelle loro regioni di origine ( Brianza ed Emilia Romagna) e riprenderci la dignità che hanno cercato di strapparci in tutti i modi. Finchè avrò un attimo di respiro cercherò di fare il possibile per riuscirci.

Una volta ero solo, ora siamo tanti, il nostro movimento politico sta crescendo a vista d'occhio, partendo dalla Sicilia, che è un laboratorio politico da sempre.
A metà ottobre a Palermo ci saranno gli Stati Generali del Sud, inviteremo tutti i gruppi politici meridionalisti, cercheremo di sganciarli dal mondo partitico del Nord, se riusciamo in questa operazione, nelle prossime elezioni, saranno cavoli amari per i BBB della politica.
Abbiamo uomini e sezioni in tutta Italia.
A Reggio Emilia,a Suzzara e a Virgilio in provincia di Mantova, a Torino, a Modena, a Bologna, a Piacenza, a Verona, a Sacile in provincia di Pordenone, a Milano, a Pisa e in Toscana, a Roma e nel Lazio, a Napoli, in Basilicata, in Abruzzi, nelle Puglie, in Calabria ,in tantissime altre città di tutta Italia, anche all'estero e soprattutto in Sicilia, dove il nostro Vice Coordinatore nazionale ha aperto i primi due CompraSud e dove stiamo associando in una importante filiera centomila contadini.
Ma come prima cosa dobbiamo sconfiggere gli ascari nostrani, i piemontesi e i lombardi nostrani, ce la faremo, siamo sulla giusta strada.
I meridionali si stanno accorgendo che DESTRA E SINISTRA SONO SOLO INDICAZIONI STRADALI.



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Di Antonio Ciano

Trovai la notizia di quella strage sul libro di De Sivo: Nel 1994 e nel 1995 mi recai a Pontelandolfo, non c'era traccia dell'eccidio, i piemontesi avevano bruciato la città, nè trovai reperti nella biblioteca comunale, se non un libello di un certo Gentile.
Il Sindaco Perugini mi indicò la biblioteca provinciale di Benevento, dove mi recai e dove trovai articoli sull'accadimento di Zazo e di altri. Misi ordiine ai fatti processuali, ne ricavai la cronologia dei fatti accaduti da primo agosto del 1861 al 17 agosto dello stesso anno.
I morti indicati in una lapide erano solo 17, dissi al sindaco che era un falso storico perchè avevo trovato una fonte sulla civiltà cattolica che parlava di 164 morti. Pubblicai il mio libro nel 1996, trattavasi de "I Savoia e il massacro del Sud", poi seguì al mio un bel libro di Gigi Di Fiore, potrebbero girarvi un film.
Non ho mai avuto nè preteso riconoscimenti dai ponntelandolfesi, anzi ricevetti una denuncia che mi costò quattro anni di processi.
Nessuno veniva ai processi, tutti gli eroi di oggi non c'erano, ma erano presenti sempre Manna, Barone, Alessandro Romano e l'ex viceprefetto di Roma Dott. Luciani.
Il libro ha venduto molto e ha aperto gli occhi a molti intellettuali, la ricchezza accumulata dai liberali del tempo è rimasta ai loro eredi,ma il tempo delle more si sta avvicinando, devono posare l'osso. Questo vale per i traditori di ieri e per i piemontesi nostrani dell'oggi. Quel libro ha venduto oltre duecentomila copie.
Non sono mai stato borbonico, sono repubblicano convinto, ma tra la feccia che ha inondato il nostro paese, devo convenire che che quei Re sono stati degli innovatori e dei martiri. Oltre al fatto che hanno sempre difeso i contadini e gli operai,mentre loro nel 1771 permettevano a San Leucio una società di eguali, Tiers, in Francia, nel 1871 mise a ferro e fuoco la Comune di Parigi.
Un re che dà l'opportunità ai suoi sudditi di sceglersi il modo di amministrarsi ed un massone liberale che affonda quelle idee con le cannonate.
Ogni volta che il Regno veniva aggredito, i contadini sapevano con chi schierarsi, mai con i rivoluzioni liberali, sempre dalla parte del Re che permetteva loro di avere un pezzo di terra in uso e mai in proprietà.
Comunque basta vedere la opere fatte in 127 anni da quei Re che parlavano napoletano per rendersi conto della loro grandezza. Leggete il libro di Pino Aprile"Terroni", vi accorgerete che dopo quel periodo il Sud è affondato in una miseria mai avuta.
Il Piemonte ha desertificato la nostra economia, ha massacrato un milione di contadini chiamandoli Briganti, i suoi generali e i suoi ufficiali si sono macchiati di crimini contro l'umanità ed hanno ancora strade e piazze intitolate a vergogna della nostra repubblica.
Han fatto emigrare almeno 20 milioni di meridionali estrapolando famiglie intere dai loro territori,è stata una emigrazione biblica che nemmeno gli ebrei hanno sofferto e mentre Francesco II combattè fino alla fine sugli spalti di Gaeta difendendo la nostra città e il Sud dall'attacco barbaro di suo cugino,vittorio Emanuele III nel 1943 fuggì come un codardo, lasciando gli italiani nelle mani della rabbia tedesca. Dall'8 settembre di quell'anno al 1945 morirono oltre settecentomia italiani, causarono una guerra civile tra fascisti,comunisti e cattolici; soffriamo ancora la Peste bubbonica di un liberale massone al potere.
La repubblica è nata sulle ceneri della monarchia sabauda e il presidente della repubblica si reca a riverire quella unità che ci ha affamati, che ci ha spellati.
In Francia la repubblica festeggia la sua vittoria ogni 14 di luglio, e non va a festeggiare Maria Antonietta.
In Francia non vediamo leggi monarchiche, non vediamo piazze e strade intitolate alla monarchia precedente.
In Israele non hanno le strade intitolate ai loro carnefici; a Tel Aviv hanno strade intitolate ai loro eroi, non ai Hitler o a Reder,o a Kappler, o ad Hicheman.
Perchè?
A loro hanno dato una identità di popolo, a noi hanno insegnato a rendere omaggio a quei mostri dei Savoia.
Gaeta fu distrutta da migliaia di Bombe, i suoi cittadini dispersi in tutto il mondo e vorrebbero farmi festeggiare quella barbarie dei savoia?

La storia va avanti, in questo periodo si stanno riscoprendo le nostre radici e chi scrive ha sofferto le pene dell'inferno quando veniva preso per pazzo e veniva denunciato per difendere la propria identità.
Forse sono stato l'ultimo brigante ad essere processato, ma vivaddio, è arrivato il momento di fare i conti con la storia e con il passato.
Quella che chiamano economia italiana è solo Tosco-padana, è solo di alcune regioni che la producono. L'Emilia Romagna produce quella del centro sinistra e la Lombardia quella che il centro destra difende a spada tratta. Tutte le compagnie di assicurazione, quelle telefoniche, quelle mediatiche, quelle finanziarie appartengono a quelle realtà. Le banche sono tutte del Nord,anche il banco di Napoli e quello di Sicilia.
Hanno impiegato 150 anni a fotterci tutto.
Il Partito del Sud sta appropriandosi del terriorio,stiamo associando centomila contadini affamati da questo sistema, che io faccio risalire al Risorgimento piemontese. Pagano il grano a 13 centesimi al kg, mentre un pacco di caramelle in un bar costa 1 euro.
Dobbiamo riscostruire la nostra economia partendo dalla base, dobbiamo ricacciare questa destra e questa sinistra nelle loro regioni di origine ( Brianza ed Emilia Romagna) e riprenderci la dignità che hanno cercato di strapparci in tutti i modi. Finchè avrò un attimo di respiro cercherò di fare il possibile per riuscirci.

Una volta ero solo, ora siamo tanti, il nostro movimento politico sta crescendo a vista d'occhio, partendo dalla Sicilia, che è un laboratorio politico da sempre.
A metà ottobre a Palermo ci saranno gli Stati Generali del Sud, inviteremo tutti i gruppi politici meridionalisti, cercheremo di sganciarli dal mondo partitico del Nord, se riusciamo in questa operazione, nelle prossime elezioni, saranno cavoli amari per i BBB della politica.
Abbiamo uomini e sezioni in tutta Italia.
A Reggio Emilia,a Suzzara e a Virgilio in provincia di Mantova, a Torino, a Modena, a Bologna, a Piacenza, a Verona, a Sacile in provincia di Pordenone, a Milano, a Pisa e in Toscana, a Roma e nel Lazio, a Napoli, in Basilicata, in Abruzzi, nelle Puglie, in Calabria ,in tantissime altre città di tutta Italia, anche all'estero e soprattutto in Sicilia, dove il nostro Vice Coordinatore nazionale ha aperto i primi due CompraSud e dove stiamo associando in una importante filiera centomila contadini.
Ma come prima cosa dobbiamo sconfiggere gli ascari nostrani, i piemontesi e i lombardi nostrani, ce la faremo, siamo sulla giusta strada.
I meridionali si stanno accorgendo che DESTRA E SINISTRA SONO SOLO INDICAZIONI STRADALI.



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sabato 28 agosto 2010

Bossi: “Il Sud doveva essere solo una colonia”

l Sud come l’India o alcuni Paesi dell’Africa, almeno secondo Umberto Bossi. Il leader della Lega, intervenendo ad una festa del carroccio a Busto Arsizio, ha dato una propria lettura dell’Unità d’Italia, come riporta Varese News. In particolare, il senatur, ha sposato la visione pubblicata nel libro “Il regno del Nord” dove si sostiene che l’unificazione è stato il frutto del bisogno delle imprese del Settentrione di avere una colonia dove vendere i propri prodotti.

Umberto Bossi



“Non pensavano allora che venisse fuori un guazzabuglio di questo tipo – dice Umberto Bossi – e furono gli stessi imprenditori del nord a finanziare Garibaldi per prendere il Sud”. Il leader della Lega – sempre secondo quanto riporta Varese News – ha poi affermato che il Nord ha pagato mille volte di più la scelta di non trasformare il Meridione in una colonia vera e propria.


Peccato, però, che il Sud 150 anni fa non era certo nelle condizioni di India, Congo o altri Paesi colonizzati dalle potenze europee. I documenti storici parlano chiaro: i bilanci statali del Mezzogiorno erano di gran lunga più ricchi rispetto alle malandate finanze dei Savoia. Mettiamola così: se anche gli imprenditori del Nord avessero finanziato Garibaldi, non era per colonizzare il Sud, ma probabilmente per depredarne le ricchezze. In questo senso ha ragione Bossi: il Meridione stava bene ed era un mercato ghiotto per gli imprenditori del Nord che, nelle proprie regioni, non riuscivano a fare profitto.




Fonte:Il Sud

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l Sud come l’India o alcuni Paesi dell’Africa, almeno secondo Umberto Bossi. Il leader della Lega, intervenendo ad una festa del carroccio a Busto Arsizio, ha dato una propria lettura dell’Unità d’Italia, come riporta Varese News. In particolare, il senatur, ha sposato la visione pubblicata nel libro “Il regno del Nord” dove si sostiene che l’unificazione è stato il frutto del bisogno delle imprese del Settentrione di avere una colonia dove vendere i propri prodotti.

Umberto Bossi



“Non pensavano allora che venisse fuori un guazzabuglio di questo tipo – dice Umberto Bossi – e furono gli stessi imprenditori del nord a finanziare Garibaldi per prendere il Sud”. Il leader della Lega – sempre secondo quanto riporta Varese News – ha poi affermato che il Nord ha pagato mille volte di più la scelta di non trasformare il Meridione in una colonia vera e propria.


Peccato, però, che il Sud 150 anni fa non era certo nelle condizioni di India, Congo o altri Paesi colonizzati dalle potenze europee. I documenti storici parlano chiaro: i bilanci statali del Mezzogiorno erano di gran lunga più ricchi rispetto alle malandate finanze dei Savoia. Mettiamola così: se anche gli imprenditori del Nord avessero finanziato Garibaldi, non era per colonizzare il Sud, ma probabilmente per depredarne le ricchezze. In questo senso ha ragione Bossi: il Meridione stava bene ed era un mercato ghiotto per gli imprenditori del Nord che, nelle proprie regioni, non riuscivano a fare profitto.




Fonte:Il Sud

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L'acqua del Pollino pretesa dalla San Benedetto

Dopo l'acquisizione da parte della Coca Cola delle fonti del Vulture si assiste ad un nuovo assalto, attraverso la privatizzazione dell'acqua pubblica, questa volta ad opera della società Acqua San Benedetto spa con sede in provincia di Venezia, intenzionata per poche migliaia di euro a sfruttare le acque del Pollino.

PollinoDi Marilisa Romagna


Esce allo scoperto il presidente e proprietario di Acqua San Benedetto spa, l'ex industriale degli elettrodomestici veneto, il commendatore Gianfranco Zoppas. E la Ola (Organizzazione Lucana Ambientalista) non perde tempo per denunciare «l'assalto al Parco del Pollino delle multinazionali delle acque minerali, dopo quelle dell'energia». «Questa volta , è scritto in una nota, il progetto è uno stabilimento per l'imbottigliamento delle acque minerali nel comune di Viggianello». «Dopo l'acquisizione da parte della Coca Cola delle fonti del Vulture - prosegue la Ola - si assiste ad un nuovo assalto, attraverso la privatizzazione dell'acqua pubblica, questa volta ad opera della società con sede a Scorzè, in provincia di Venezia, intenzionata per poche migliaia di euro a sfruttare le acque del Pollino, che verranno sottratte all'uso delle popolazioni locali per essere privatizzate.

Oggetto dell'acquisto le sorgenti tributarie del fiume Mercure, a sua volta principale tributario del Lao, minacciato dai prelievi d'acqua previsti per il funzionamento della centrale Enel del Mercure. Già nel 2008 il Comune di Viggianello espletò un'asta pubblica andata poi deserta, con base d'asta pari a 1.300milioni di euro, ivi compresa la cessione della titolarità del permesso di sfruttamento delle sorgenti con portate tra i 400/500 litri al secondo. Di recente abbiamo respinto le offerte da parte dell'Enel. Ma non siamo una riserva indiana, e crediamo in un sistema di sviluppo autopropulsivo compatibile con il parco. Chiunque dovesse investire in questo territorio alle nostre condizioni porterà lavoro vero e lavoro serio. Siamo contro ogni tipo di speculazione, e non ci presteremo ad azioni diffamatorie contro i comune e la cittadinanza».

«Da anni - ha ridadito il sindaco di Viggianello, Antonio Fiore - andiamo sostenendo che l'acqua non si vende, e a marzo il consiglio comunale ha aderito alle posizioni di padre Alex Zanotelli sul tema dell'acqua-bene pubblico. La Ola torna a ribadire il suo deciso no alla privatizzazione delle risorse naturali del Pollinoche, nel caso delle acque tributarie del Fiume Mercure, fanno gola assieme ai boschi, alle grandi lobby dell'energia ed oggi anche alle “multinazionali delle bollicine” che, con la promessa di portare sviluppo nell'area, sono intenzionate a sottrarre beni comuni e risorse fondamentali per l'agricoltura e l'allevamento della valle del Mercure alle popolazioni locali, grazie alla compiacenza degli amministratori». Ma il sindaco di Viggianello, non ci sta, e bolla a stretto giro gli esponenti della Ola come dei «buontemponi», precisando che si tratta di «una concessione da 20 litri d'acqua al secondo, sui 1700 totali della sorgente».


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Dopo l'acquisizione da parte della Coca Cola delle fonti del Vulture si assiste ad un nuovo assalto, attraverso la privatizzazione dell'acqua pubblica, questa volta ad opera della società Acqua San Benedetto spa con sede in provincia di Venezia, intenzionata per poche migliaia di euro a sfruttare le acque del Pollino.

PollinoDi Marilisa Romagna


Esce allo scoperto il presidente e proprietario di Acqua San Benedetto spa, l'ex industriale degli elettrodomestici veneto, il commendatore Gianfranco Zoppas. E la Ola (Organizzazione Lucana Ambientalista) non perde tempo per denunciare «l'assalto al Parco del Pollino delle multinazionali delle acque minerali, dopo quelle dell'energia». «Questa volta , è scritto in una nota, il progetto è uno stabilimento per l'imbottigliamento delle acque minerali nel comune di Viggianello». «Dopo l'acquisizione da parte della Coca Cola delle fonti del Vulture - prosegue la Ola - si assiste ad un nuovo assalto, attraverso la privatizzazione dell'acqua pubblica, questa volta ad opera della società con sede a Scorzè, in provincia di Venezia, intenzionata per poche migliaia di euro a sfruttare le acque del Pollino, che verranno sottratte all'uso delle popolazioni locali per essere privatizzate.

Oggetto dell'acquisto le sorgenti tributarie del fiume Mercure, a sua volta principale tributario del Lao, minacciato dai prelievi d'acqua previsti per il funzionamento della centrale Enel del Mercure. Già nel 2008 il Comune di Viggianello espletò un'asta pubblica andata poi deserta, con base d'asta pari a 1.300milioni di euro, ivi compresa la cessione della titolarità del permesso di sfruttamento delle sorgenti con portate tra i 400/500 litri al secondo. Di recente abbiamo respinto le offerte da parte dell'Enel. Ma non siamo una riserva indiana, e crediamo in un sistema di sviluppo autopropulsivo compatibile con il parco. Chiunque dovesse investire in questo territorio alle nostre condizioni porterà lavoro vero e lavoro serio. Siamo contro ogni tipo di speculazione, e non ci presteremo ad azioni diffamatorie contro i comune e la cittadinanza».

«Da anni - ha ridadito il sindaco di Viggianello, Antonio Fiore - andiamo sostenendo che l'acqua non si vende, e a marzo il consiglio comunale ha aderito alle posizioni di padre Alex Zanotelli sul tema dell'acqua-bene pubblico. La Ola torna a ribadire il suo deciso no alla privatizzazione delle risorse naturali del Pollinoche, nel caso delle acque tributarie del Fiume Mercure, fanno gola assieme ai boschi, alle grandi lobby dell'energia ed oggi anche alle “multinazionali delle bollicine” che, con la promessa di portare sviluppo nell'area, sono intenzionate a sottrarre beni comuni e risorse fondamentali per l'agricoltura e l'allevamento della valle del Mercure alle popolazioni locali, grazie alla compiacenza degli amministratori». Ma il sindaco di Viggianello, non ci sta, e bolla a stretto giro gli esponenti della Ola come dei «buontemponi», precisando che si tratta di «una concessione da 20 litri d'acqua al secondo, sui 1700 totali della sorgente».


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Il massacro dimenticato di Pontelandolfo Quando i bersaglieri fucilarono gli innocenti

Il 14 agosto 1861 per vendicare i loro quaranta morti i soldati sabaudi uccisero 400 inermi. Un eccidio come quello delle Fosse Ardeatine. Il sindaco oggi si batte perché alla città sia riconosciuto lo status di "martire". E promette: se l'esercito chiede scusa, invitiamo la loro fanfara a suonare come atto di riconciliazione

di PAOLO RUMIZ
Il massacro dimenticato di Pontelandolfo Quando i bersaglieri fucilarono gli innocenti

Illustrazione di Riccardo Mannelli

SIGNOR presidente della Repubblica, signori ministri, autorità incaricate delle celebrazioni del centocinquantenario, questa storia è per voi. Non voltate pagina e ascoltate il racconto di questo soldato, se credete al motto "fratelli d'Italia" e tenete all'onestà della memoria sul 1861, anno uno della Nazione.

"Al mattino del giorno 14 ricevemmo l'ordine di entrare nel paese, fucilare gli abitanti, meno i figli, le donne e gli infermi, e incendiarlo. Subito abbiamo cominciato a fucilare... quanti capitava, indi il soldato saccheggiava, ed infine abbiamo dato l'incendio al paese, di circa 4.500 abitanti. Quale desolazione... non si poteva stare d'intorno per il gran calore; e quale rumore facevano quei poveri diavoli che la sorte era di morire abbrustoliti, e chi sotto le rovine delle case. Noi invece durante l'incendio avevamo di tutto: pollastri, pane, vino e capponi, niente mancava". Olocausto firmato dagli Einsatzkommando? No, soldati italiani, al comando di ufficiali italiani. E il villaggio non sta in Etiopia ma in Italia, nel Beneventano. Il suo nome è Pontelandolfo. Massacro a opera dei bersaglieri, data 14 agosto 1861, meno di un anno dopo l'ingresso trionfale di Garibaldi a Napoli. Pontelandolfo, nome cancellato dai libri perché ricorda che al Sud ci fu guerra, sporca e terribile, e non solo annessione.

Andiamoci dunque, luogotenente Cariolato, per capire cosa accadde; perdiamoci nel labirinto di strade sannitiche già ostiche ai Romani, e saliamo verso quel promontorio di case, in
un profumo ubriacante di ginestre e faggete secolari. Penso a un viaggio nella storia e invece mi trovo immerso in un oggi che scotta, davanti a una giunta comunale che aspetta, sindaco in testa. Delegazione agguerrita, di centrosinistra, schierata per avere giustizia. Raccontano, come di cosa appena accaduta. C'è una rivolta, alla falsa notizia che i Borboni sono tornati. Scattano regolamenti di conti con due morti, i briganti scendono dai monti, il prete suona le campane per salutare la restaurazione. Un distaccamento di bersaglieri va a vedere, ma nella notte vengono aggrediti da una banda in un paese vicino e lasciano sul terreno 41 morti. Ci sono buoni motivi per pensare che il responsabile sia un proprietario terriero, impegnato in un subdolo doppio gioco: eccitare le masse per poi invocare la mannaia e rafforzare il suo status. Ma non importa: si manda una spedizione punitiva con l'incarico di "non mostrare misericordia", e alla fine si contano 400 morti. Morti innocenti perché gli assassini si sono dati alla macchia.

Quattrocento per quaranta. Dieci uccisi per ogni soldato, come alle Fosse Ardeatine. Oggi a Pontelandolfo c'è solo un monumentino con tredici nomi e una lapide in memoria di Concetta Biondi, violentata e uccisa dai soldati. Mancano centinaia di nomi, scritti solo nei registri parrocchiali. Il sindaco: "A marzo siamo stati finalmente riconosciuti come "luogo della memoria". Ma non ci basta: vogliamo essere "città martire" e che questo nome sia scritto sulla segnaletica. Vogliamo che l'esercito riconosca la sua ferocia. Lo dico al ministro: se i bersaglieri chiedono scusa, noi invitiamo ufficialmente le loro fanfare a suonare in paese come atto di riconciliazione. I nostri e i loro morti vanno ricordati insieme. Io ho giurato sulla fascia tricolore. Voglio dar senso alle celebrazioni, e non lasciare spazio ai rancori anti-unitari". Renato Rinaldi è un ex ufficiale di marina che si è tuffato in quelle pagine nere. Anche lui ha giurato sul Tricolore e anche a lui pesa il silenzio del Quirinale di fronte a vent'anni di lettere miranti al "ricupero della dignità del paese". Mi spiega che i bersaglieri erano agli ordini di un generale vicentino - vicentino, sì, come il mio buon Cariolato - di nome Pier Eleonoro Negri. E anche qui c'è silenzio. L'Italia non fa mai i conti col suo passato. Nessuna risposta da Vicenza alla richiesta di dedicare una via a Pontelandolfo o di togliere la lapide celebrativa del generale sterminatore.

Cielo limpido sulle verdissime foreste del Sannio. Perché si parla di Bronte e non di Pontelandolfo? Perché sono rimasti nella memoria gli errori garibaldini e non gli orrori savoiardi? E che cosa si sa della teoria dell'inferiorità razziale dei meridionali - infidi, pigri e riottosi - impostata da un giovane ufficiale medico piemontese di nome Cesare Lombroso, spedito al Sud nel '61 e seguire la cosiddetta guerra al brigantaggio? Che "fratelli d'Italia" potevano esistere se mezzo Paese era "razza maledetta" dal cranio "anomalo", condannata all'arretratezza e alla delinquenza? Leggo: "Dio, che cosa abbiamo fatto!", parole scritte nel '62 da Garibaldi in merito allo stato del Sud. Lettera alla vedova Cairoli, che per fare l'Italia - un'altra Italia - gli ha dato la vita di tre figli e del marito. Non si parla dei vinti. E senza i vinti le celebrazioni sono ipocrisia. Che fine ha fatto per esempio Josè Borjes, il generale di cui mi ha parlato Andrea Camilleri? Parlo dell'uomo che sempre nel '61, quasi da solo, tentò di sollevare le Sicilie contro i Savoia. Perché non si dice nulla della sua epopea e del mistero della sua morte? Perché non si riconosce il valore di questo Rolando che galoppa verso una fatale Roncisvalle dopo essere sbarcato con soli dodici uomini in Calabria, alla disperata, sulla costa crudele dei fallimenti, la stessa di Murat, dei Fratelli Bandiera, di Pisacane, dei curdi disperati, dei monaci in fuga dagli scismi bizantini?

Ed ecco, in una sera straziante color indaco, arrivare come da un fonografo lontano la voce di Sergio Tau, scrittore e regista che ha dedicato anni alla storia del generale catalano. "All'inizio degli anni Sessanta feci un film sul brigantaggio post-unitario. Volevo fare qualcosa di simile a un western, ma la pellicola non fu mai trasmessa. Allora era ancora impossibile parlarne. Ora vedo che la storia di Borjes può tornare fuori... Filmicamente è grandiosa, con la sua traversata invernale dell'Appennino". Ne terrà conto qualcuno? Borjes punta sullo Stato pontificio, ma a Tagliacozzo viene "venduto" da una guida traditrice ai bersaglieri, che lo fucilano insieme ai suoi. "Conservate quel corpo, potrete passarlo ai Borboni", dice un misterioso francese e venti giorni dopo la salma è consegnata alla guardia papalina, scende via Tivoli fino al Tevere e al funerale nella chiesa del Gesù a Roma. Poi c'è una messa per l'anima sua a Barcellona, ma del corpo più nessuna traccia. Resta un suo diario, stranamente in francese, lingua che lui non conosceva. L'ha davvero scritto lui o l'hanno scritto i "servizi" di allora, per occultare la repressione in atto? Il giallo di una vita vissuta anch'essa, bene o male, alla garibaldina.

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Il 14 agosto 1861 per vendicare i loro quaranta morti i soldati sabaudi uccisero 400 inermi. Un eccidio come quello delle Fosse Ardeatine. Il sindaco oggi si batte perché alla città sia riconosciuto lo status di "martire". E promette: se l'esercito chiede scusa, invitiamo la loro fanfara a suonare come atto di riconciliazione

di PAOLO RUMIZ
Il massacro dimenticato di Pontelandolfo Quando i bersaglieri fucilarono gli innocenti

Illustrazione di Riccardo Mannelli

SIGNOR presidente della Repubblica, signori ministri, autorità incaricate delle celebrazioni del centocinquantenario, questa storia è per voi. Non voltate pagina e ascoltate il racconto di questo soldato, se credete al motto "fratelli d'Italia" e tenete all'onestà della memoria sul 1861, anno uno della Nazione.

"Al mattino del giorno 14 ricevemmo l'ordine di entrare nel paese, fucilare gli abitanti, meno i figli, le donne e gli infermi, e incendiarlo. Subito abbiamo cominciato a fucilare... quanti capitava, indi il soldato saccheggiava, ed infine abbiamo dato l'incendio al paese, di circa 4.500 abitanti. Quale desolazione... non si poteva stare d'intorno per il gran calore; e quale rumore facevano quei poveri diavoli che la sorte era di morire abbrustoliti, e chi sotto le rovine delle case. Noi invece durante l'incendio avevamo di tutto: pollastri, pane, vino e capponi, niente mancava". Olocausto firmato dagli Einsatzkommando? No, soldati italiani, al comando di ufficiali italiani. E il villaggio non sta in Etiopia ma in Italia, nel Beneventano. Il suo nome è Pontelandolfo. Massacro a opera dei bersaglieri, data 14 agosto 1861, meno di un anno dopo l'ingresso trionfale di Garibaldi a Napoli. Pontelandolfo, nome cancellato dai libri perché ricorda che al Sud ci fu guerra, sporca e terribile, e non solo annessione.

Andiamoci dunque, luogotenente Cariolato, per capire cosa accadde; perdiamoci nel labirinto di strade sannitiche già ostiche ai Romani, e saliamo verso quel promontorio di case, in
un profumo ubriacante di ginestre e faggete secolari. Penso a un viaggio nella storia e invece mi trovo immerso in un oggi che scotta, davanti a una giunta comunale che aspetta, sindaco in testa. Delegazione agguerrita, di centrosinistra, schierata per avere giustizia. Raccontano, come di cosa appena accaduta. C'è una rivolta, alla falsa notizia che i Borboni sono tornati. Scattano regolamenti di conti con due morti, i briganti scendono dai monti, il prete suona le campane per salutare la restaurazione. Un distaccamento di bersaglieri va a vedere, ma nella notte vengono aggrediti da una banda in un paese vicino e lasciano sul terreno 41 morti. Ci sono buoni motivi per pensare che il responsabile sia un proprietario terriero, impegnato in un subdolo doppio gioco: eccitare le masse per poi invocare la mannaia e rafforzare il suo status. Ma non importa: si manda una spedizione punitiva con l'incarico di "non mostrare misericordia", e alla fine si contano 400 morti. Morti innocenti perché gli assassini si sono dati alla macchia.

Quattrocento per quaranta. Dieci uccisi per ogni soldato, come alle Fosse Ardeatine. Oggi a Pontelandolfo c'è solo un monumentino con tredici nomi e una lapide in memoria di Concetta Biondi, violentata e uccisa dai soldati. Mancano centinaia di nomi, scritti solo nei registri parrocchiali. Il sindaco: "A marzo siamo stati finalmente riconosciuti come "luogo della memoria". Ma non ci basta: vogliamo essere "città martire" e che questo nome sia scritto sulla segnaletica. Vogliamo che l'esercito riconosca la sua ferocia. Lo dico al ministro: se i bersaglieri chiedono scusa, noi invitiamo ufficialmente le loro fanfare a suonare in paese come atto di riconciliazione. I nostri e i loro morti vanno ricordati insieme. Io ho giurato sulla fascia tricolore. Voglio dar senso alle celebrazioni, e non lasciare spazio ai rancori anti-unitari". Renato Rinaldi è un ex ufficiale di marina che si è tuffato in quelle pagine nere. Anche lui ha giurato sul Tricolore e anche a lui pesa il silenzio del Quirinale di fronte a vent'anni di lettere miranti al "ricupero della dignità del paese". Mi spiega che i bersaglieri erano agli ordini di un generale vicentino - vicentino, sì, come il mio buon Cariolato - di nome Pier Eleonoro Negri. E anche qui c'è silenzio. L'Italia non fa mai i conti col suo passato. Nessuna risposta da Vicenza alla richiesta di dedicare una via a Pontelandolfo o di togliere la lapide celebrativa del generale sterminatore.

Cielo limpido sulle verdissime foreste del Sannio. Perché si parla di Bronte e non di Pontelandolfo? Perché sono rimasti nella memoria gli errori garibaldini e non gli orrori savoiardi? E che cosa si sa della teoria dell'inferiorità razziale dei meridionali - infidi, pigri e riottosi - impostata da un giovane ufficiale medico piemontese di nome Cesare Lombroso, spedito al Sud nel '61 e seguire la cosiddetta guerra al brigantaggio? Che "fratelli d'Italia" potevano esistere se mezzo Paese era "razza maledetta" dal cranio "anomalo", condannata all'arretratezza e alla delinquenza? Leggo: "Dio, che cosa abbiamo fatto!", parole scritte nel '62 da Garibaldi in merito allo stato del Sud. Lettera alla vedova Cairoli, che per fare l'Italia - un'altra Italia - gli ha dato la vita di tre figli e del marito. Non si parla dei vinti. E senza i vinti le celebrazioni sono ipocrisia. Che fine ha fatto per esempio Josè Borjes, il generale di cui mi ha parlato Andrea Camilleri? Parlo dell'uomo che sempre nel '61, quasi da solo, tentò di sollevare le Sicilie contro i Savoia. Perché non si dice nulla della sua epopea e del mistero della sua morte? Perché non si riconosce il valore di questo Rolando che galoppa verso una fatale Roncisvalle dopo essere sbarcato con soli dodici uomini in Calabria, alla disperata, sulla costa crudele dei fallimenti, la stessa di Murat, dei Fratelli Bandiera, di Pisacane, dei curdi disperati, dei monaci in fuga dagli scismi bizantini?

Ed ecco, in una sera straziante color indaco, arrivare come da un fonografo lontano la voce di Sergio Tau, scrittore e regista che ha dedicato anni alla storia del generale catalano. "All'inizio degli anni Sessanta feci un film sul brigantaggio post-unitario. Volevo fare qualcosa di simile a un western, ma la pellicola non fu mai trasmessa. Allora era ancora impossibile parlarne. Ora vedo che la storia di Borjes può tornare fuori... Filmicamente è grandiosa, con la sua traversata invernale dell'Appennino". Ne terrà conto qualcuno? Borjes punta sullo Stato pontificio, ma a Tagliacozzo viene "venduto" da una guida traditrice ai bersaglieri, che lo fucilano insieme ai suoi. "Conservate quel corpo, potrete passarlo ai Borboni", dice un misterioso francese e venti giorni dopo la salma è consegnata alla guardia papalina, scende via Tivoli fino al Tevere e al funerale nella chiesa del Gesù a Roma. Poi c'è una messa per l'anima sua a Barcellona, ma del corpo più nessuna traccia. Resta un suo diario, stranamente in francese, lingua che lui non conosceva. L'ha davvero scritto lui o l'hanno scritto i "servizi" di allora, per occultare la repressione in atto? Il giallo di una vita vissuta anch'essa, bene o male, alla garibaldina.

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