di Lino Patruno
Facciamoci caso. Appena il Sud alza la voce, qualcuno si indigna perché si comprometterebbe il "senso d'identità nazionale". Insomma il Sud non più muto minaccerebbe l’Unità d’Italia proprio mentre se ne celebrano i 150 anni. Strano che nessuno si sia inalberato quando dritto dritto di secessione parlava la Lega Nord. Anzi, per dimostrare la parità di trattamento, la si è fatta accomodare con tutti gli onori al governo. E strano che si sia gridato allo scandalo per un tricolore bruciato a Terzigno nella rivolta della monnezza, mentre è solo folklore il tricolore vilipeso ogni minuto da Bossi e compagni.
Il Sud che parla non va ascoltato, ma messo sùbito a tacere come neoborbonico, nostalgico di quell’innominabile Regno del Male. E il Sud che parla non vorrebbe migliorare il suo futuro, ma tornare al suo infame passato. Così qualsiasi libro di storia diversa da quella finora raccontata non è storia ma delirio, come se qualcuno avesse il monopolio della storia. Con la classica domanda: ma a che serve? Se non ad aprire gli occhi sulla storia, dovrebbe servire a capire ciò che bolle nel ventre del Sud.
Capire prima di dire, zitto tu che sei sporco e cattivo. Capire prima di accusare il Sud di minacciare un’Unità dalla quale è fuori.
E poi, squilibri fra aree ci sono in tutta Europa, altrimenti non ci sarebbero gli interventi per eliminarli. Ma non risulta che altrove gli abitanti meno ricchi siano considerati esseri inferiori cui non concedere nemmeno la parola. La Germania, per dire, sempre sbattuta in faccia al Sud, imparate da loro. Per portare l’Est riunificato al livello dell’Ovest ha speso cinque volte quanto speso dalla Cassa per il Mezzogiorno: cinque volte. Ma dopo vent’anni le differenze di reddito sono più o meno pari alle nostre. Eppure i territori dell’Est sono considerati i più colti e chic del Paese. E se finora la parità non è stata raggiunta, nessuno si è sognato di dire che dipende dalle persone e non dalle politiche adottate.
Ora il ministro Tremonti, che non va a cena con i neoborbonici, dice che per il Nord e il Sud non ci può essere la stessa ricetta economica. Il Nord deve competere con l’Europa e il mondo, il Sud deve competere per avvicinare il Nord. Purtroppo 150 anni dimostrano che i piani "speciali" per il Sud sono sempre stati forme tardive (e inefficaci) di riparazione per tacitare la coscienza: se i buoi sono usciti dalla stalla, inutile riparare la porta. Non andavano fatte politiche nazionali che danneggiassero il Sud, questa la verità. E dall’Unità in poi è sempre andata così, come ammettono ora anche molti storici con la puzza al naso. Un esempio a caso, la" svalutazione competitiva" della lira: se ne teneva giù il valore per favorire le esportazioni a basso prezzo. Una manna per gli industriali del Nord, una iattura per la gente del Sud che con quella lira svalutata si impoveriva.
Il problema è trovare il punto di svolta per il Sud. E’ innescare la scintilla della ripartenza, come se fosse il Bari di Ventura. Ricordando sempre come sia imbarazzante rispondere a chi obietta a modo suo sconcertato: ma state ancora lì, nonostante tutti i soldi che vi abbiamo dato? Tutti gli Istat, le Svimez, le relazioni storiche dello stesso ministero di Tremonti dimostrano che questi soldi non sono mai stati in aggiunta al normale. E che, di riffa o di raffa, al Nord ne è stato dirottato il grosso. Gli hanno creato un mercato comodo, protetto, garantito per i suoi prodotti. E hanno addomesticato il consenso politico per continuare così. Ma vai a scalfire il pregiudizio.
Mezzo Paese non sopporta l’altro mezzo, altro che " senso d'identità nazionale".
Ma dovrebbe essere il Sud a cominciare a dire cosa gli serve. Cominciare a dire che non vuole più uno statalismo senza Stato come finora: vi mando i soldi (un inganno) ma non vi faccio le strade, non vi do i treni puliti e veloci, non vi combatto la criminalità, non vi alleggerisco la burocrazia, non vi commissario i sindaci che trascurano la raccolta differenziata dei rifiuti. Basta che consumiate. Lo statalismo senza Stato è la peggiore istigazione per la cattiva amministrazione al Sud.
Ora pare che l’ennesimo "Piano per il Sud" preveda le grandi opere: ma sono le stesse attese da una vita. Con pochi progetti ma ponderosi e interregionali. Va bene. Ricordando, per dovere igienico, che la Salerno-Reggio Calabria è ancora lì perché, chiuso un cantiere, mancano sempre i fondi per l’altro. E ricordando che la prima scintilla può venire dalla detassazione degli investimenti al Sud, sempre sventolata ma mai contrattata seriamente a Bruxelles. Ma se anche questo santo e questa festa passeranno, resteranno gli indici puntati sulla vergogna del Sud. Dimenticando che senza Sud non cresce l’Italia. E che allora davvero il federalismo trionferà: ciascuno si tiene il suo, tranne voti e consumi del Sud. Alla faccia dell’Italia unita.
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di Lino Patruno
Facciamoci caso. Appena il Sud alza la voce, qualcuno si indigna perché si comprometterebbe il "senso d'identità nazionale". Insomma il Sud non più muto minaccerebbe l’Unità d’Italia proprio mentre se ne celebrano i 150 anni. Strano che nessuno si sia inalberato quando dritto dritto di secessione parlava la Lega Nord. Anzi, per dimostrare la parità di trattamento, la si è fatta accomodare con tutti gli onori al governo. E strano che si sia gridato allo scandalo per un tricolore bruciato a Terzigno nella rivolta della monnezza, mentre è solo folklore il tricolore vilipeso ogni minuto da Bossi e compagni.
Il Sud che parla non va ascoltato, ma messo sùbito a tacere come neoborbonico, nostalgico di quell’innominabile Regno del Male. E il Sud che parla non vorrebbe migliorare il suo futuro, ma tornare al suo infame passato. Così qualsiasi libro di storia diversa da quella finora raccontata non è storia ma delirio, come se qualcuno avesse il monopolio della storia. Con la classica domanda: ma a che serve? Se non ad aprire gli occhi sulla storia, dovrebbe servire a capire ciò che bolle nel ventre del Sud.
Capire prima di dire, zitto tu che sei sporco e cattivo. Capire prima di accusare il Sud di minacciare un’Unità dalla quale è fuori.
E poi, squilibri fra aree ci sono in tutta Europa, altrimenti non ci sarebbero gli interventi per eliminarli. Ma non risulta che altrove gli abitanti meno ricchi siano considerati esseri inferiori cui non concedere nemmeno la parola. La Germania, per dire, sempre sbattuta in faccia al Sud, imparate da loro. Per portare l’Est riunificato al livello dell’Ovest ha speso cinque volte quanto speso dalla Cassa per il Mezzogiorno: cinque volte. Ma dopo vent’anni le differenze di reddito sono più o meno pari alle nostre. Eppure i territori dell’Est sono considerati i più colti e chic del Paese. E se finora la parità non è stata raggiunta, nessuno si è sognato di dire che dipende dalle persone e non dalle politiche adottate.
Ora il ministro Tremonti, che non va a cena con i neoborbonici, dice che per il Nord e il Sud non ci può essere la stessa ricetta economica. Il Nord deve competere con l’Europa e il mondo, il Sud deve competere per avvicinare il Nord. Purtroppo 150 anni dimostrano che i piani "speciali" per il Sud sono sempre stati forme tardive (e inefficaci) di riparazione per tacitare la coscienza: se i buoi sono usciti dalla stalla, inutile riparare la porta. Non andavano fatte politiche nazionali che danneggiassero il Sud, questa la verità. E dall’Unità in poi è sempre andata così, come ammettono ora anche molti storici con la puzza al naso. Un esempio a caso, la" svalutazione competitiva" della lira: se ne teneva giù il valore per favorire le esportazioni a basso prezzo. Una manna per gli industriali del Nord, una iattura per la gente del Sud che con quella lira svalutata si impoveriva.
Il problema è trovare il punto di svolta per il Sud. E’ innescare la scintilla della ripartenza, come se fosse il Bari di Ventura. Ricordando sempre come sia imbarazzante rispondere a chi obietta a modo suo sconcertato: ma state ancora lì, nonostante tutti i soldi che vi abbiamo dato? Tutti gli Istat, le Svimez, le relazioni storiche dello stesso ministero di Tremonti dimostrano che questi soldi non sono mai stati in aggiunta al normale. E che, di riffa o di raffa, al Nord ne è stato dirottato il grosso. Gli hanno creato un mercato comodo, protetto, garantito per i suoi prodotti. E hanno addomesticato il consenso politico per continuare così. Ma vai a scalfire il pregiudizio.
Mezzo Paese non sopporta l’altro mezzo, altro che " senso d'identità nazionale".
Ma dovrebbe essere il Sud a cominciare a dire cosa gli serve. Cominciare a dire che non vuole più uno statalismo senza Stato come finora: vi mando i soldi (un inganno) ma non vi faccio le strade, non vi do i treni puliti e veloci, non vi combatto la criminalità, non vi alleggerisco la burocrazia, non vi commissario i sindaci che trascurano la raccolta differenziata dei rifiuti. Basta che consumiate. Lo statalismo senza Stato è la peggiore istigazione per la cattiva amministrazione al Sud.
Ora pare che l’ennesimo "Piano per il Sud" preveda le grandi opere: ma sono le stesse attese da una vita. Con pochi progetti ma ponderosi e interregionali. Va bene. Ricordando, per dovere igienico, che la Salerno-Reggio Calabria è ancora lì perché, chiuso un cantiere, mancano sempre i fondi per l’altro. E ricordando che la prima scintilla può venire dalla detassazione degli investimenti al Sud, sempre sventolata ma mai contrattata seriamente a Bruxelles. Ma se anche questo santo e questa festa passeranno, resteranno gli indici puntati sulla vergogna del Sud. Dimenticando che senza Sud non cresce l’Italia. E che allora davvero il federalismo trionferà: ciascuno si tiene il suo, tranne voti e consumi del Sud. Alla faccia dell’Italia unita.
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