(carta del dicembre 2009 tratta da "Afghanistan: la guerra di Obama, la guerra dell'Italia" di Alfonso Desiderio)
La situazione in Afghanistan non accenna a migliorare. Uno sprazzo di luce era sembrato dischiudersi nelle prime due settimane di settembre, quando si era registrata una drastica riduzione nelle perdite riportate dalla Coalizione occidentale.
Già allora diversi osservatori avevano attribuito l’apparente inversione di tendenza alle alluvioni abbattutesi nel vicino Pakistan, ritenendo che molti Taliban avessero solo temporaneamente abbandonato il fronte per prestare soccorso ai propri familiari o alleati tribali residenti oltre la frontiera.
Altri, fra i quali chi scrive, avevano ipotizzato che potesse aver influito anche l’indubbia pressione esercitata sugli insorti dal nuovo comandante di teatro, generale David Petraeus, che da quando è in Afghanistan ha in parte rinnegato i principi cardine della propria dottrina di counter-insurgency, imprimendo una netta intensificazione sia alle uccisioni mirate dei comandanti e quadri del movimento talibano, sia alle incursioni aeree, significativamente aumentate negli ultimi tre mesi.
Le cifre però parlano chiaro: dal giorno delle elezioni politiche del 18 settembre, l’Isaf ed i militari che ancora operano nella cornice di Enduring Freedom devono sopportare una media di circa tre caduti al giorno. Alla strage degli alpini dello scorso 9 ottobre altre hanno fatto seguito e presumibilmente se ne aggiungeranno di ulteriori, giacché il conflitto è giunto al suo tornante decisivo.
Focalizzando la propria offensiva nella provincia di Kandahar, heartland del movimento talibano storico, Petraeus ha in qualche modo indebolito la Shura di Quetta del Mullah Omar proprio nel momento in cui l’Esercito pakistano sembra aver adottato il concorrente network degli Haqqani, che è attivo soprattutto nell’Afghanistan orientale. Si dice persino che la vecchia dirigenza talibana tema ormai per la compattezza del suo movimento.
Sarebbe questa situazione ad aver incoraggiato l’apertura di colloqui paralleli ed indipendenti tra gli americani ed il governo di Kabul, da un lato, e i due maggiori tronconi della guerriglia, dall’altro. Per gli uni si tratta di allargare il cuneo tra le due organizzazioni ormai rivali; per gli altri di affermarsi come l’interlocutore privilegiato. Nel frattempo, nessuno rinuncia a giocare le sue carte. Tutti vogliono dimostrare più che mai la loro potenza. Il risultato netto è l’aumento della violenza.
Una delle ragioni che possono aver indotto Petraeus al cambio di approccio che ne ha contraddistinto l’arrivo sembra essere la volontà di offrire il prossimo dicembre al Congresso dei dati in qualche modo incoraggianti, oltre all’evidente e legittima ambizione personale di non compromettere con un fiasco il prestigio conquistato in Iraq.
Eliminare dalla scena il maggior numero possibile di insorti – sono ormai circa 90mila secondo stime attendibili – e proteggere le proprie forze è quindi tornato ad essere importante, anche se non lo si ammette pubblicamente più di tanto.
Si debbono infatti produrre risultati immediati e la prospettiva di breve periodo è diventata molto più importante di quella di lungo termine. Paradossalmente, il nuovo indirizzo ha ridotto gli attriti che avevano in precedenza contrassegnato i rapporti tra il Comandante statunitense e i militari italiani.
I nostri soldati hanno infatti cessato di essere importunati da generali come Stanley McChrystal che chiedevano di essere meno muscolari, ricorrendo alla forza con maggior flessibilità e accrescendo la frequenza dei propri pattugliamenti a piedi, invece di perlustrare in lungo e largo la propria area di competenza entro mezzi potentemente protetti. Occorre del resto ricordare come ciò accadesse mentre a Montecitorio si lamentava la circostanza che i nostri Lince fossero fatti in modo tale da costringere almeno un militare ad esporsi.
Di queste passate tensioni si avverte un’eco persino nelle pagine del più recente saggio di Bob Woodward nelle quali, oltre a rilievi assolutamente ingenerosi, si rinvengono alcune righe piuttosto significative a proposito dei cattivi rapporti che intercorrevano l’anno scorso tra McChrystal ed il nostro Rosario Castellano, che ne rigettava sistematicamente e bruscamente le raccomandazioni.
D’altra parte le istruzioni provenienti da Roma erano cristalline: le perdite dovevano essere assolutamente mantenute al più basso livello possibile, condizione essenziale del mantenimento del consenso politico alla prosecuzione della nostra missione. Dopotutto, agli italiani non spettava vincere una guerra che si stava rivelando ostica anche per gli americani, ma soltanto il compito di rimanervi dentro il più a lungo possibile.
Dai documenti divulgati da Wikeleaks gli addetti ai lavori hanno in effetti appreso pochi elementi nuovi. Sono state una sorpresa, ad esempio, le notizie relative alla lotta clandestina che avrebbe caratterizzato le relazioni tra la nostra intelligence e l’Nsd afghano e quelle che attesterebbero le valutazioni poco lusinghiere fatte dagli alleati americani nei confronti dei nostri 007.
Si indagherà probabilmente anche sull’indiscrezione relativa al trasferimento nel nostro paese di un non meglio identificato terrorista. E forse saranno depositate delle interrogazioni parlamentari per sapere effettivamente quanti nostri soldati siano stati finora feriti in Afghanistan.
Ma che almeno dal 2006 si combattesse pesantemente lo si sapeva. Certo,Wikileaks l'ha convalidato. Sul web sono finiti anche altri file di un certo interesse, quelli che descrivono la strategia adottata dal governo italiano per soddisfare le richieste alleate riducendo al minimo i rischi di tenuta della sua maggioranza in Parlamento: combattere negando di farlo, con la complicità di Washington, Londra, Bruxelles ed altre capitali compiacenti.
Come nelle prime fasi della campagna aerea per il Kosovo, tra l’estate 2006 e la primavera 2008 il nostro paese si sarebbe quindi adattato a recitare la parte dell’alleato recalcitrante, criticato anche pubblicamente dalla stampa e dai governi stranieri, mentre in realtà si onoravano al meglio gli impegni.
Era del resto accaduta la stessa cosa anche nei sei mesi del Nibbio, nel 2003, quando l’Italia aveva contribuito con mille uomini inviati nell’impervia zona di Khost alla prosecuzione di Enduring Freedom: una missione che l’incauto portavoce americano, colonnello Roger King, non aveva esitato a definire apertamente combat.
In quel semestre i nostri soldati condussero perlustrazioni ad ampio raggio, sostennero scontri a fuoco e vennero impegnati nei primi avio-assalti della storia dell’Esercito Italiano. Tutto all’oscuro dell'opinione pubblica, come la nostra rivista ha avuto modo di rivelare nei mesi scorsi.
Wikileaks ha detto invece poco o nulla di nuovo riguardo alle perdite inflitte dai nostri soldati, che secondo alcune voci ascenderebbero addirittura a 1.500 miliziani, e soprattutto a proposito delle eventuali vittime civili.
Siamo a conoscenza, infatti, soltanto di pochi casi isolati. Non sarebbe però sorprendente se ad un dato momento emergessero dati compromettenti. Stupisce anzi che i taliban non abbiano finora fatto nulla di serio per provocare incidenti in tal senso e permettere alla stampa occidentale di documentarli.
Nel complesso, comunque, l’informazione garantita dalla nostra Difesa è attualmente abbastanza trasparente. Può esserlo anche perché si giova di condizioni politiche generali teoricamente più permissive rispetto a quelle che contrassegnarono tanto l’esperienza del secondo governo Prodi quanto quella dell’esecutivo che lo precedette, presieduto da Berlusconi.
Ora come ora, gli italiani sono probabilmente gli unici cittadini occidentali ad essere informati in tempo reale degli incidenti che si concludono con la morte di qualche nostro militare. Soltanto a titolo di confronto, è utile ricordare come in Francia l’Eliseo abbia completamente avocato a sé la gestione delle comunicazioni luttuose.
Come sa chi ha accesso alla Bbc, i britannici vengono informati dei decessi anche con 24 ore di ritardo e ne occorrono non meno di altre 24 per conoscere l’identità dei caduti. Il governo degli Stati Uniti poi ha lungamente proibito persino la divulgazione delle immagini ritraenti le bare dei soldati uccisi.
Godiamo quindi di una maggior libertà d’informazione, sia rispetto al recente passato che in rapporto a quanto capita nei paesi nostri alleati. Ciò ovviamente non vuol dire che non si debba sapere sempre di più. Soprattutto non riduce affatto l’importanza del contributo dato da L’Espresso, che ha gettato un fascio di luce su quanto accade a profitto di un pubblico molto più ampio di quello invero ristretto dei consueti specialisti.
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