lunedì 4 ottobre 2010

CIAO, NICOLA






Di Gino Giammarino

Con la scomparsa di Nicola Zitara il Sud perde una delle menti più lucide ed il meridionalismo diventa orfano della direttiva separatista da sempre portata avanti dall’eminente professore di Siderno in provincia di Reggio Calabria.
Nell’esprimere il nostro più vivo cordoglio, ripubblichiamo l’ultima intervista realizzata nel settembre del 2004 dal nostro direttore con lui a Mongiana convinti come siamo che le idee mantengono in vita gli uomini illustri.

Vogliamo cercare di fare il punto attuale della situazione del Sud e dei meridionali?
Secondo me, siamo nella terza crisi occupazionale che il Sud soffre dal momento dell’unità. Le altre due ebbero come esito l’emigrazione, un vero e proprio spopolamento dei nostri territori. Quest’ultima crisi, invece, non lascia intravedere dove potranno andare i meridionali, cosa potranno fare… e tutto nel più totale disinteresse dello Stato italiano che si preoccupa di ben altri problemi che saranno pure vitali, ma certamente non per il Meridione.

A questo punto credo che i meridionali debbano prendere atto che lo Stato italiano, così come si è configurato, non affronta neanche alla lontana i problemi del Sud: se lo trascina dietro, si fa servire cercando di trarne le utilità che può ricavarne e, per il resto, si abbandona all’esito degli avvenimenti.

A seguito di questa crisi il nostro Sud subirà dei pesanti contraccolpi interni, ma questa forma di democrazia effimera, di effimero rispetto dei diritti delle persone e questo effimero carattere di Stato evoluto crolleranno piuttosto rapidamente, immagino, per dar luogo ad una forma di sopraffazione magari ovattata, ma non meno violenta, delle classi che sono collegate al sistema italiano.
Prima di tutto la mafia, la quale rende allo Stato italiano il servizio di tenere il Sud quieto e, in secondo luogo, l’importazione di notevoli capitali, che adesso è difficile da quantificare poiché non se ne parla più: le fonti titolate dell’informazione tacciono…

Quale tipo di ricetta o soluzione crede possa essere percorribile?
La mia proposta è radicale: il Meridione deve uscire dallo Stato Italiano. Naturalmente in modo pacifico, civile, ma uscire decisamente, interrompendo ogni contatto, per valorizzare le enormi forze che possiede. Abbiamo coltivato un tipo di cultura ipocrita che è quella risorgimentale, dei valori settentrionali, delle città d’arte, una cultura secondo la quale i settentrionali sanno fare tutto e noi non sappiamo fare niente, la cultura dei vicini alla negritudine, agli arabi, “Hic sunt leones” e cose di questo genere. Insomma, separandoci dall’Italia questo mito perdente scomparirebbe e il Meridione rivivrebbe!

Invece, adesso, la parte migliore della cultura meridionale va ad inserirsi nei quadri di quella settentrionale, la serve nel modo migliore, si sposta fisicamente verso Roma e le altre città non meridionali lasciando qui l’ipocrisia, la finzione, la repressione, la nozione di regole e valori di vita che non ci appartengono e che, nel momento in cui li valorizziamo, reprimiamo i nostri.

Abbiamo parlato degli abusi e delle colpe dei fratelli dell’alt(r)a Italia ai danni del Sud: vogliamo analizzare, con l’occhio del meridionalista attento che da tanti anni segue le vicende del nostro territorio, qualche colpa degli stessi meridionali?
Le colpe dei meridionali sono notevolissime. Però, non va sottovalutata la funzione ipocrita, sviante e corruttrice dello Stato italiano impostata sin dal primo giorno dell’unità quando, cioè, i meridionali adottarono valori politici e di organizzazione sociale che non venivano dal profondo della loro società, ma erano d’importazione.

Innanzitutto, il primo valore importato fu quello della proprietà borghese della terra, che aleggiava in tutta l’Europa ma di cui si fece grande vessillifero lo Stato piemontese con il Cavour.

Ora, una volta importato questo valore, non solo come speranza di una classe di proprietari meridionali che è quella di appropriarsi delle chiese demaniali, ecclesiastiche e comunali, ma anche d’ingrandirsi ai danni dei contadini, lo Stato italiano non da nessuna collaborazione, anzi riesce ad assorbire tutto il risparmio che i meridionali hanno accumulato di modo che, acquistata la terra, non c’era possibilità d’investimenti su di essa, per cui rimaniamo con un’agricoltura ferma al 1880, il momento più avanzato dell’agricoltura meridionale, che viene poi stroncato da un processo di conflitto doganale con la Francia, la grande esportazione verso l’Europa di vino, olio e agrumi.

La responsabilità dei meridionali di non investire le proprie risorse sulla propria terra è provocata ed alimentata dall’ideologia unitaria di un primato del Nord nell’economia nazionale e dell’inconsistenza di esigenze meridionali nel quadro nazionale.

Parliamo di federalismo: come lo vede e cosa pensa della battuta d’arresto e dei ripensamenti che ne stanno ritardando l’attuazione?
In linea teorica, decentrare le forme di gestione del potere e le entrate della spesa pubblica ha un senso. In pratica no, perché il controllo sui cittadini, che dovrebbe crescere, qui nel Sud si attenua. Nel Sud la spesa pubblica è un atto di clientelismo, se non di corruzione. Aumentare i centri di spesa per gestire lo stesso totale non credo che sia molto educativo e che lavori per stimolare la produzione. E’ una forma che funziona in altre zone, ma qui è destinato ad un totale fallimento, innanzitutto perché non ci sono centri di controllo, controllo che non è possibile in quanto il Paese è sbilanciato, anche dal punto di vista della stampa: la stampa del Sud non c’è, è inconsistente e, quel poco che c’è è servile.

L’opinione pubblica è amministrata dai grandi partiti nazionali e reagisce nella misura in cui reagiscono i grandi partiti nazionali: chi detiene il potere sa di averne uno enorme rispetto ad una società che ha bisogno dello Stato in quanto non ha altre colonne portanti, se non quella di uno Stato dei servizi che, però, è modellato sulla realtà settentrionale. La situazione, purtroppo, è quella di un potere creato e controllato dall’alto ed esternamente alla società, e non può essere gestito diversamente. Al cittadino meridionale altro non rimane se non adattarsi a tutto accontentandosi di qualche piccolo favore personale, qualche facilitazione, un po’ di carriera e cose di questo genere…

Abbiamo parlato di un Sud autonomo, ma come dovrebbe rapportarsi questo soggetto con quell’Europa nella quale, ormai, siamo entrati e di cui facciamo parte?
Rispetto all’Europa il Sud è una realtà marginale, una realtà di confine. Dell’ultimo confine, quello che si allunga verso quel Sud degli orti e degli alberi che per l’Europa delle grandi terre arabili, degli allevamenti e dei granai ha rappresentato un fenomeno quasi “esotico”. Un’Europa nella quale non siamo stati mai troppo comodi, in verità, a cominciare dal momento in cui l’impero romano, con la sua invasione e colonizzazione riduce il ruolo centrale del Mediterraneo e quello della Magna Grecia.

Oggi possiamo tranquillamente fare in proprio, siamo al centro del Mediterraneo, non dobbiamo far altro che riacquistare la nostra personalità, toglierci quella maschera che ci nasconde e svolgere il nostro ruolo nel mondo anche come potenza mediterranea collegandoci ad altre realtà come il mondo arabo e gli Stati Uniti. L’Europa, eccezion fatta per il petrolio, non ha grossi interessi nel Mediterraneo, ma non credo che rinuncerà cos“ a cuor leggero alle sue colonie.

L’Europa attuale, più che nel parlamento di Bruxelles, ha il suo nodo politico nella Banca Centrale Europea: lei che ha posizioni anche giustamente critiche verso il modus operandi degli istituti di credito, come giudica le politiche di sviluppo adottate dalla BCE?
Apro una parentesi: per la mia formazione ed il mio passato, non credo moltissimo nello sviluppo capitalistico. Penso che siamo arrivati ad un livello di produzione anche notevole, si tratta di redistribuirla meglio tra i vari paesi in modo che non si verifichino fenomeni di pesante disoccupazione come accade nel Meridione.

Non credo che i capitalisti di oggi abbiano più un grosso ruolo in una realtà in cui ci sono delle imprese che organizzano delle vere e proprie avventure finanziate dal sistema bancario, realizzando dei profitti per i partecipanti senza rischiare più di tanto.

Per cui, quando dico sviluppo più che altro parlo di una migliore distribuzione della produzione e del lavoro sull’intero pianeta.

Quanto alla BCE si è presentata con un biglietto da visita fortissimo, quello della moneta che non si svaluta e che resiste nella sua capacità d’acquisto nel tempo. Adesso ci accorgiamo che si trattava di un’operazione mistificatoria, il primo risultato è una svalutazione fenomenale, i prezzi sono più che raddoppiati e certamente la moneta non è stata indifferente a questo fenomeno.

Probabilmente, anche questa volta la svalutazione serve a ripianare il debito pubblico degli stati e di quest’atto la Banca Europea si è resa protagonista. Pensavano di poter acquistare il petrolio in euro, ma il dollaro ha fatto la sua politica e, ribassando il prezzo relativo, ha messo in seria difficoltà l’euro e costretto gli europei a ridurre la produzione di quel tanto che esportavano ricevendo pagamenti in dollari, in quanto agli acquirenti che hanno dollari non conviene acquistare in euro. La storia certamente definirà meglio il problema, ma tutto ciò ha generato una crisi incredibile, figlia della politica sconsiderata attuata dai banchieri europei i quali si sono, peraltro, arricchiti in questo spostamento di valore dei rapporti di scambio tra moneta e merci senza risultati positivi sul piano della produzione e della impostazione di idee nuove nello sviluppo e nel lavoro.

Quindi, un’esperienza fin qui tremendamente negativa, che modifica i rapporti sociali principalmente all’interno della società meridionale.

Per concludere, se lei la intravede, qual è la via d’uscita dallo stato di soggezione economica che attanaglia il Sud in questo momento?
E’ un disastro! Il Sud finirà come nel periodo del trasformismo di De Pretis e come in quella situazione ancora più disgraziata che si realizzò nel periodo di Giolitti, cioè, sarà politicamente un territorio del notabilato il quale si spartirà la spesa pubblica, la nomina di personale che passa alle dipendenze dell’organizzazione pubblica e metterà il proletariato non aggancialo con il sistema in condizioni difficilissime: la prima volta abbiamo avuto un’emigrazione di sette o otto milioni di persone, dopo la seconda guerra mondiale ne abbiamo avuto un’altra di pari o forse maggiore consistenza.

Il Sud ha fuori dei suoi confini non meno di ventitrè o ventiquattro milioni di ex-meridionali, famiglie e figli che si sono ambientati altrove, a causa di un governo negativo dello Stato italiano. Punitivo, direi, nei confronti del Sud.

Fonte:Il Brigante


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Di Gino Giammarino

Con la scomparsa di Nicola Zitara il Sud perde una delle menti più lucide ed il meridionalismo diventa orfano della direttiva separatista da sempre portata avanti dall’eminente professore di Siderno in provincia di Reggio Calabria.
Nell’esprimere il nostro più vivo cordoglio, ripubblichiamo l’ultima intervista realizzata nel settembre del 2004 dal nostro direttore con lui a Mongiana convinti come siamo che le idee mantengono in vita gli uomini illustri.

Vogliamo cercare di fare il punto attuale della situazione del Sud e dei meridionali?
Secondo me, siamo nella terza crisi occupazionale che il Sud soffre dal momento dell’unità. Le altre due ebbero come esito l’emigrazione, un vero e proprio spopolamento dei nostri territori. Quest’ultima crisi, invece, non lascia intravedere dove potranno andare i meridionali, cosa potranno fare… e tutto nel più totale disinteresse dello Stato italiano che si preoccupa di ben altri problemi che saranno pure vitali, ma certamente non per il Meridione.

A questo punto credo che i meridionali debbano prendere atto che lo Stato italiano, così come si è configurato, non affronta neanche alla lontana i problemi del Sud: se lo trascina dietro, si fa servire cercando di trarne le utilità che può ricavarne e, per il resto, si abbandona all’esito degli avvenimenti.

A seguito di questa crisi il nostro Sud subirà dei pesanti contraccolpi interni, ma questa forma di democrazia effimera, di effimero rispetto dei diritti delle persone e questo effimero carattere di Stato evoluto crolleranno piuttosto rapidamente, immagino, per dar luogo ad una forma di sopraffazione magari ovattata, ma non meno violenta, delle classi che sono collegate al sistema italiano.
Prima di tutto la mafia, la quale rende allo Stato italiano il servizio di tenere il Sud quieto e, in secondo luogo, l’importazione di notevoli capitali, che adesso è difficile da quantificare poiché non se ne parla più: le fonti titolate dell’informazione tacciono…

Quale tipo di ricetta o soluzione crede possa essere percorribile?
La mia proposta è radicale: il Meridione deve uscire dallo Stato Italiano. Naturalmente in modo pacifico, civile, ma uscire decisamente, interrompendo ogni contatto, per valorizzare le enormi forze che possiede. Abbiamo coltivato un tipo di cultura ipocrita che è quella risorgimentale, dei valori settentrionali, delle città d’arte, una cultura secondo la quale i settentrionali sanno fare tutto e noi non sappiamo fare niente, la cultura dei vicini alla negritudine, agli arabi, “Hic sunt leones” e cose di questo genere. Insomma, separandoci dall’Italia questo mito perdente scomparirebbe e il Meridione rivivrebbe!

Invece, adesso, la parte migliore della cultura meridionale va ad inserirsi nei quadri di quella settentrionale, la serve nel modo migliore, si sposta fisicamente verso Roma e le altre città non meridionali lasciando qui l’ipocrisia, la finzione, la repressione, la nozione di regole e valori di vita che non ci appartengono e che, nel momento in cui li valorizziamo, reprimiamo i nostri.

Abbiamo parlato degli abusi e delle colpe dei fratelli dell’alt(r)a Italia ai danni del Sud: vogliamo analizzare, con l’occhio del meridionalista attento che da tanti anni segue le vicende del nostro territorio, qualche colpa degli stessi meridionali?
Le colpe dei meridionali sono notevolissime. Però, non va sottovalutata la funzione ipocrita, sviante e corruttrice dello Stato italiano impostata sin dal primo giorno dell’unità quando, cioè, i meridionali adottarono valori politici e di organizzazione sociale che non venivano dal profondo della loro società, ma erano d’importazione.

Innanzitutto, il primo valore importato fu quello della proprietà borghese della terra, che aleggiava in tutta l’Europa ma di cui si fece grande vessillifero lo Stato piemontese con il Cavour.

Ora, una volta importato questo valore, non solo come speranza di una classe di proprietari meridionali che è quella di appropriarsi delle chiese demaniali, ecclesiastiche e comunali, ma anche d’ingrandirsi ai danni dei contadini, lo Stato italiano non da nessuna collaborazione, anzi riesce ad assorbire tutto il risparmio che i meridionali hanno accumulato di modo che, acquistata la terra, non c’era possibilità d’investimenti su di essa, per cui rimaniamo con un’agricoltura ferma al 1880, il momento più avanzato dell’agricoltura meridionale, che viene poi stroncato da un processo di conflitto doganale con la Francia, la grande esportazione verso l’Europa di vino, olio e agrumi.

La responsabilità dei meridionali di non investire le proprie risorse sulla propria terra è provocata ed alimentata dall’ideologia unitaria di un primato del Nord nell’economia nazionale e dell’inconsistenza di esigenze meridionali nel quadro nazionale.

Parliamo di federalismo: come lo vede e cosa pensa della battuta d’arresto e dei ripensamenti che ne stanno ritardando l’attuazione?
In linea teorica, decentrare le forme di gestione del potere e le entrate della spesa pubblica ha un senso. In pratica no, perché il controllo sui cittadini, che dovrebbe crescere, qui nel Sud si attenua. Nel Sud la spesa pubblica è un atto di clientelismo, se non di corruzione. Aumentare i centri di spesa per gestire lo stesso totale non credo che sia molto educativo e che lavori per stimolare la produzione. E’ una forma che funziona in altre zone, ma qui è destinato ad un totale fallimento, innanzitutto perché non ci sono centri di controllo, controllo che non è possibile in quanto il Paese è sbilanciato, anche dal punto di vista della stampa: la stampa del Sud non c’è, è inconsistente e, quel poco che c’è è servile.

L’opinione pubblica è amministrata dai grandi partiti nazionali e reagisce nella misura in cui reagiscono i grandi partiti nazionali: chi detiene il potere sa di averne uno enorme rispetto ad una società che ha bisogno dello Stato in quanto non ha altre colonne portanti, se non quella di uno Stato dei servizi che, però, è modellato sulla realtà settentrionale. La situazione, purtroppo, è quella di un potere creato e controllato dall’alto ed esternamente alla società, e non può essere gestito diversamente. Al cittadino meridionale altro non rimane se non adattarsi a tutto accontentandosi di qualche piccolo favore personale, qualche facilitazione, un po’ di carriera e cose di questo genere…

Abbiamo parlato di un Sud autonomo, ma come dovrebbe rapportarsi questo soggetto con quell’Europa nella quale, ormai, siamo entrati e di cui facciamo parte?
Rispetto all’Europa il Sud è una realtà marginale, una realtà di confine. Dell’ultimo confine, quello che si allunga verso quel Sud degli orti e degli alberi che per l’Europa delle grandi terre arabili, degli allevamenti e dei granai ha rappresentato un fenomeno quasi “esotico”. Un’Europa nella quale non siamo stati mai troppo comodi, in verità, a cominciare dal momento in cui l’impero romano, con la sua invasione e colonizzazione riduce il ruolo centrale del Mediterraneo e quello della Magna Grecia.

Oggi possiamo tranquillamente fare in proprio, siamo al centro del Mediterraneo, non dobbiamo far altro che riacquistare la nostra personalità, toglierci quella maschera che ci nasconde e svolgere il nostro ruolo nel mondo anche come potenza mediterranea collegandoci ad altre realtà come il mondo arabo e gli Stati Uniti. L’Europa, eccezion fatta per il petrolio, non ha grossi interessi nel Mediterraneo, ma non credo che rinuncerà cos“ a cuor leggero alle sue colonie.

L’Europa attuale, più che nel parlamento di Bruxelles, ha il suo nodo politico nella Banca Centrale Europea: lei che ha posizioni anche giustamente critiche verso il modus operandi degli istituti di credito, come giudica le politiche di sviluppo adottate dalla BCE?
Apro una parentesi: per la mia formazione ed il mio passato, non credo moltissimo nello sviluppo capitalistico. Penso che siamo arrivati ad un livello di produzione anche notevole, si tratta di redistribuirla meglio tra i vari paesi in modo che non si verifichino fenomeni di pesante disoccupazione come accade nel Meridione.

Non credo che i capitalisti di oggi abbiano più un grosso ruolo in una realtà in cui ci sono delle imprese che organizzano delle vere e proprie avventure finanziate dal sistema bancario, realizzando dei profitti per i partecipanti senza rischiare più di tanto.

Per cui, quando dico sviluppo più che altro parlo di una migliore distribuzione della produzione e del lavoro sull’intero pianeta.

Quanto alla BCE si è presentata con un biglietto da visita fortissimo, quello della moneta che non si svaluta e che resiste nella sua capacità d’acquisto nel tempo. Adesso ci accorgiamo che si trattava di un’operazione mistificatoria, il primo risultato è una svalutazione fenomenale, i prezzi sono più che raddoppiati e certamente la moneta non è stata indifferente a questo fenomeno.

Probabilmente, anche questa volta la svalutazione serve a ripianare il debito pubblico degli stati e di quest’atto la Banca Europea si è resa protagonista. Pensavano di poter acquistare il petrolio in euro, ma il dollaro ha fatto la sua politica e, ribassando il prezzo relativo, ha messo in seria difficoltà l’euro e costretto gli europei a ridurre la produzione di quel tanto che esportavano ricevendo pagamenti in dollari, in quanto agli acquirenti che hanno dollari non conviene acquistare in euro. La storia certamente definirà meglio il problema, ma tutto ciò ha generato una crisi incredibile, figlia della politica sconsiderata attuata dai banchieri europei i quali si sono, peraltro, arricchiti in questo spostamento di valore dei rapporti di scambio tra moneta e merci senza risultati positivi sul piano della produzione e della impostazione di idee nuove nello sviluppo e nel lavoro.

Quindi, un’esperienza fin qui tremendamente negativa, che modifica i rapporti sociali principalmente all’interno della società meridionale.

Per concludere, se lei la intravede, qual è la via d’uscita dallo stato di soggezione economica che attanaglia il Sud in questo momento?
E’ un disastro! Il Sud finirà come nel periodo del trasformismo di De Pretis e come in quella situazione ancora più disgraziata che si realizzò nel periodo di Giolitti, cioè, sarà politicamente un territorio del notabilato il quale si spartirà la spesa pubblica, la nomina di personale che passa alle dipendenze dell’organizzazione pubblica e metterà il proletariato non aggancialo con il sistema in condizioni difficilissime: la prima volta abbiamo avuto un’emigrazione di sette o otto milioni di persone, dopo la seconda guerra mondiale ne abbiamo avuto un’altra di pari o forse maggiore consistenza.

Il Sud ha fuori dei suoi confini non meno di ventitrè o ventiquattro milioni di ex-meridionali, famiglie e figli che si sono ambientati altrove, a causa di un governo negativo dello Stato italiano. Punitivo, direi, nei confronti del Sud.

Fonte:Il Brigante


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