venerdì 17 settembre 2010

I cialtroni e l'Unità d'Italia

Di Luigi Capozza


Ho letto con partecipazione e condivisione gli articoli di Franco Federico sulla politica e l’amministrazione meridionali, comparsi sulle pagine del trisettimanale ilCrotonese la scorsa estate. Il desiderio è di riprendere il discorso di Federico, cercando di aggiungere un’ulteriore riflessione di carattere storico, partendo dall’affermazione di Tremonti che la classe dirigente meridionale sia composta da cialtroni. Tremonti, come documenta anche Federico, non ha, per certi versi, tutti i torti; tuttavia gioverà analizzare storicamente il come mai si sia verificata una simile condizione.

Centinaia di paesi e città nel Sud, sono state e sono terre di emigrazione; nella sola Calabria, dall’unità d’Italia in poi, vi sono stati circa due milioni di emigrati, tanti quanti abitanti attualmente conta la regione; un vero e proprio esodo biblico. Dai primi anni ’90 del ‘900 ad oggi, come rilevato dalla stampa di ogni tendenza, da tutto il Sud sono emigrati altri 2 milioni di persone, in assoluta maggioranza giovani diplomati e laureati. È stato sempre così, o l’esodo è iniziato proprio con l’Unità?

Ricaviamo alcuni dati statistici dalla oggi imprescindibile opera di Giuseppe Ressa e Alfonso Grosso, Il Sud e l’unità d’Italia (compare anche su Internet, sulla piattaforma Scribd):

1) «All'epoca di Francesco II, l'ultimo re, l'emigrazione era sconosciuta, le tasse molto basse come pure il costo della vita, il tesoro era floridissimo. In campo culturale Napoli contendeva a Parigi la supremazia europea» (ciò lo riconosceva con molta onestà Paolo Volponi nel suo discorso d’insediamento alla Camera).

2) «Come risultò dalla Esposizione Internazionale di Parigi del 1856, le Due Sicilie erano lo Stato più industrializzato d'Italia ed il terzo in Europa, dopo Inghilterra e Francia (stessa documentazione fornisce Paolo Granzotto su numerosi interventi sul Giornale). Dal censimento del 1861 si deduce che, al momento dell'Unità, le Due Sicilie impiegavano nell'industria una forza-lavoro pari al 51% di quella complessiva italiana (nonostante avesse 9 milioni di abitanti su 22). I settori principali erano: cantieristica navale, industria siderurgica, tessile, cartiera, estrattiva e chimica, conciaria, del corallo, vetraria, alimentare.

3) «Nei pressi di Napoli, a Pietrarsa, era attiva la più grande industria metalmeccanica d'Italia … era l'unica fabbrica italiana in grado di costruire motrici a vapore per uso navale. A Pietrarsa fu istituita anche la "Scuola degli Alunni Macchinisti" che permise alle Due Sicilie, unico Stato della Penisola, ad affrancarsi dalla necessità di disporre di macchinisti navali inglesi. A Pietrarsa venivano costruiti cannoni ed altri armamenti; venivano realizzati prodotti meccanici per uso civile, vagoni, locomotive ed i binari ferroviari (di cui in Italia solo Pietrarsa disponeva della tecnologia costruttiva). … Accanto a Pietrarsa sorgevano la Zino ed Henry (poi Macry ed Henry) e la Guppy, entrambe con 600 addetti. … Viceversa al Nord, alla vigilia dell'Unità, solo l'Ansaldo di Genova era a livello di grande industria (aveva 480 operai contro i 1.000 di Pietrarsa)».

Vignetta di Enzo Brizio, riproduzione di un’originale del 1860

4) « La ferriera di Mongiana sorgeva nei dintorni di Serra San Bruno … Poco distante, fu più tardi costruita Ferdinandea. … Il complesso siderurgico calabrese di Mongiana e Ferdinandea era, fino al 1860, il maggiore produttore d'Italia di ghisa e semi-lavorati per l'industria metalmeccanica. Altri impianti metallurgici erano attivi in tutti il Sud».

5) « Le Due Sicilie disponevano di una flotta mercantile pari ai 4/5 del naviglio italiano ed era la quarta del mondo … fu la prima flotta italiana a collegare l'Italia con l'America ed il Pacifico. … Il primo vascello a vapore del Mediterraneo fu costruito nelle Due Sicilie nel 1818 e fu anche il primo al mondo a navigare per mare e non su acque interne … l'Inghilterra dovette aspettare altri quattro anni per metterne in mare uno, il Monkey, nel 1822. … Il cantiere diCastellammare di Stabia, con 1.800 operai, era il più grande del Mediterraneo. Al momento della conquista piemontese stava attrezzandosi per la costruzione di scafi in ferro. L'arsenale-cantiere di Napoli, con 1.600 operai, era l'unico in Italia ad avere un bacino di carenaggio in muratura lungo 75 metri. … Sono patrimonio delle Due Sicilie anche: la prima compagnia di navigazione a vapore del Mediterraneo (1836) … Nel 1847 fu introdotta per la prima volta in Italia la propulsione a elica con la nave "Giglio delle Onde".

6) «Prima dell’Unità il settore cotoniero vantava quattro stabilimenti con 1.000 o più operai (1425 alla Von Willer di Salerno, 1160 in un’altra filanda della provincia, 1129 nella filanda di Pellazzano, 2159 in quella di Piedimonte e un migliaio nella Aninis-Ruggeri di Messina); nello stesso periodo gli stabilimenti lombardi a stento raggiungevano i 414 operai della filatura Ponti. … si ebbe dal 1835 un rinnovato sviluppo dell’industria della seta e nuove filande sorsero in Calabria, in Lucania, in Abruzzo».

Senza tirarla per le lunghe, diciamo che gli stessi primati su tutto il resto d’Italia il Sud li vantava, a ridosso dell’Unità, nelle seguenti industrie: a) cartiere; b) estrattiva e chimica (provenivano dal Sud i 2/3 delle produzioni chimiche italiane); c) conciaria; d) del corallo; e) saline; f) dei vetri e cristalli.

7) I dati indicano che nel 1860 il Sud, che conta il 36.7 % della popolazione d’Italia, «pur non avendo nulla che si possa paragonare alla pianura padana produce il 50.4% di grano; l’80.2% di orzo e avena; il 53% di patate; il 41.5% di legumi; il 60% di olio … Per quanto riguarda l’allevamento, considerando il numero dei capi, il Sud era in testa in quello ovino, caprino, equino e dei maiali».

8) «Il livello impositivo era il più mite di tutti gli Stati Italiani. La contribuzione diretta era praticamente basata solo sull’imposta fondiaria, quella indiretta solo su quattro tributi». Il sistema bancario era il migliore che si potesse desiderare.

Dunque, il Sud, come risulta da statistiche e dati inoppugnabili, era, fino al 1861, lo Stato più grande, più ricco e meglio governato dell’intera Penisola, sì da gareggiare con le maggiori potenze economiche del tempo: Inghilterra e Francia (sarebbe opportuno leggere tutta l’opera di Ressa e Grosso, che hanno consultato migliaia di documenti. Bisognerebbe anche leggere o rileggere, almeno, sia Corrado che Francesco Barbagallo, Einaudi, F. S. Nitti, Salvemini e Zitara; leggere Simonelli, A. Pellicciari e Veneziani, Aprile e G. Bruno Guerri, il cui saggio, Il sangue del Sud, uscirà a fine anno).


II

Come è potuto accadere che il Meridione, già all’indomani dell’Unità, finisse pian piano per diventare la cenerentola della “Nazione” con un tasso migratorio biblico? Ci soccorrono per comprendere (e ci scusiamo per le continue, ma indispensabili, citazioni) due documenti, ma vedremo altre ricostruzioni storiche, anch’essi inoppugnabili: uno di F. S. Nitti e uno di Luigi Einaudi.

ùAfferma F. S. Nitti, nel suo Bilancio dello Stato dal 1862 al 1897: «In quarant’anni il Sud ha dato ciò che poteva e ciò che non poteva, ha ricevuto assai poco, soprattutto ha ricevuto assai male”. Insomma, il 65% di tutta la moneta circolante in Italia era del Sud e in pochi anni, tra tributi per risanare il deficit del Tesoro dovuto alle guerre (il Meridione con 27% di produzione della ricchezza dovette pagare il 32% dei tributi), in conseguenza delle nuove imposte e della vendita dei beni demaniali ed ecclesiali ai latifondisti, il regime doganale del 1887, il Sud fu privato dei suoi capitali a esclusivo vantaggio del Nord».

Tale testimonianza è avvalorata, fin dai primi anni del Novecento, proprio da quello che fu primo presidente dell’Italia repubblicana, Luigi Einaudi. Luigi Einaudi ne Il Buongoverno riconosce apertamente che «Sì, è vero, noi settentrionali abbiamo … profittato di più delle spese dello Stato italiano; è vero, peccammo di egoismo quando il settentrione riuscì a cingere di una forte barriera doganale il territorio ed assicurare così alle proprie industrie il monopolio del mercato meridionale; è vero che abbiamo spostata molta ricchezza dal Sud al Nord con la vendita dell’asse ecclesiastico e del demanio e coi prestiti pubblici … È vero che abbiamo ottenuto più costruzioni di ferrovie, di porti, di scuole e di altri lavori pubblici, ma sono stati duri sacrifici imposti da circostanze politiche ed economiche … ».

Quello che è stupefacente, soprattutto in Einaudi, come se non se ne accorgesse, è che egli dichiara candidamente che la vera Unità è stata fatta per il Nord e che a questa (presunta) “necessità” si è dovuto sacrificare il Sud. Insomma, il Sud è stato spogliato, impoverito, ridotto a territorio coloniale per … lo sviluppo del Nord. Riconosce altresì, Einaudi, e candidamente non lo comprende, che il Nord era povero e il Sud talmente ricco da “costruire” il Nord (la presunta vera Italia lavoratrice, direbbero senza vergogna Bossi, Brunetta e Gelmini) con le sue ricchezze.


III

Ma, oltre a quanto sopra documentato, che altro è successo? Salvemini è molto chiaro su questo fatto. Scrive il Nostro in Problemi educativi e sociali d’Italia: «I governi italiani per avere i voti del Sud concessero i pieni poteri alla piccola borghesia, delinquente e putrefatta, spiantata, imbestialita, cacciatrice d’impieghi e di favori personali, ostile a qualunque iniziativa potesse condurre a una vita meno ignobile e più umana […] Qualunque gruppo di uomini onesti […] avesse voluto mettere un po’ di freno alla iniquità di una sola fra le clientele che facevano capo a un deputato meridionale, era sicuro di trovarsi contro tutta la marmaglia [piccolo borghese] compatta». Giordano Bruno Guerri rincara la dose: «L’annessione del Sud fu una guerra di annessione e di conquista, spietata e brutale … il paternalismo (?) borbonico permetteva pure ai più poveri di vivere decentemente … La vita culturale … dera di tutto rispetto … Le industrie erano all’altezza – e a volte superiori – a quelle del Nord. Soprattutto, le casse dello Stato e la circolazione monetaria erano più ricche che nel resto d’Italia messo assieme. Denaro, terre e industrie facevano gola ai Savoia … il cui motto era: “L’Italia è un carciofo da mangiare foglia a foglia”. Infatti l’ex Regno delle Due Sicilie venne depredato di tutto: l’oro delle sue banche venne per lo più reinvestito al Nord, le industrie smantellate e trasferite più vicino alle Alpi; le terre … non furono date ai contadini, ma cedute a basso prezzo alla borghesia settentrionale o agli antichi feudatari divenuti improvvisamente filounitari. A rimetterci fu il popolo … Il brigantaggio …, oggi [i briganti] li chiameremmo partigiani …, fu una guerra civile … Di certo, nascondere quello che avvenne non è servito a una crescita del Paese e della nostra coscienza nazionale …».

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Che dire di più per spiegare lo sfascio, voluto e programmato, della nostra terra e il processo migratorio dal Sud al Nord e nel resto del mondo? In effetti, però, si può dire di più. Come si sa, la Sinistra storica e Giolitti non risolsero propriamente la cosiddetta “Questione meridionale”; la grande guerra e il dopo guerra sfasciarono ancor di più l’economia meridionale, privandola dei suoi capitali e delle sue braccia per sostenere lo sforzo bellico e foraggiare l’industria di guerra (e qui era già cominciata la trasformazione della mafia in delinquenza organizzata di tipo moderno attraverso il mercato nero e poi i fondi per la ricostruzione).

Il Fascismo – e la crisi di Wall Street –, con la famigerata “Quota 90”, ossia il pareggio della lira con la sterlina, a voler parlare solo di ciò, finì con lo buttare sul lastrico migliaia di contadini, artigiani e piccoli imprenditori debitori delle banche del Sud, le quali, non potendo più riscuotere i prestiti aumentati a dismisura di valore, fallirono a loro volta.

La seconda guerra mondiale, se possibile, peggiorò ancor di più le cose nel Sud, mentre l’industria di guerra dell’Alta Italia marciava a pieno ritmo.

Ancora una volta, la mafia si ingrassò col mercato nero, l’usura e, avendo bloccato il Piano Marshall appena a sud di Roma, con, di nuovo, la caotica ricostruzione e i relativi subappalti, col mercato illegale delle armi invendute, l’incipiente mercato di droga e fonti energetiche in cambio di prestiti neocoloniali, tecnologia, prodotti industriali con i popoli sottosviluppati.

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Chiuderanno le chiavi di una spoliazione perfetta: 1) la famigerata Riforma agraria degli anni cinquanta, che, invece di aiutare la trasformazione del latifondo in aziendalità e imprenditoria, o, perlomeno, in organizzazione cooperativistica, suddivise il latifondo in piccoli lotti, con case di “cartapesta” isolate, privi di qualsiasi strumento meccanico, e la 2) Cassa per il Mezzogiorno (e Organismi similari), che, coi suoi finanziamenti a pioggia ha favorito, ancora una volta, attraverso subappalti e altre diavolerie, la mafia, lo scempio edilizio, le truffe imprenditoriali, l’illegalità diffusa, il clientelismo, il burocraticismo vessatorio, improvvise fortune politiche, ecc. ecc.

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Non dico che non bisogna accettare ormai l'unità, ma bisognava, dando un senso alla ribellione dei “briganti”, bilanciare in modo paritario col resto d'Italia la stessa forma unitaria. Cosa che neanche si sognarono di fare, né se lo sognano, i nostri intellettuali e politici. Non capirono, e non capiscono. Purtroppo, come si scriveva sopra, il Meridione fu messo da subito nella condizione di minorità, complice, allora, anche il grande (?) intellettuale Croce (leggere i suoi giudizi sulla Destra storica e su Sella) e i suoi salottieri seguaci. Fu giudicato, il Meridione, dalla pubblicistica dell'epoca e dai politici interessati, arretrato, barbaro, mafioso, incapace e analfabeta, non tanto potenzialmente delinquenziale, da conquistare e liberare (rileggere il Manzoni per capire, invece, che cos'era il Settentrione spagnolo; e poi francese e poi austriaco). E gli fu assegnato il ruolo di banca del Nord, di procuratore di manodopera, di bacino elettorale, di trafficante del mercato illegale, di carne da macello delle varie guerre. Insomma, fu distrutta la storia e la sua verità, senza le quali nessun popolo trova identità e può costruire la sua vita e il futuro.


IV

La solfa continua ancor oggi e non bisogna meravigliarsi che ormai sia lo Stato ufficiale ad essere, a vivacchiare, nello Stato reale e non viceversa, come si diceva un tempo, perché lo Stato 'dranghetista-mafioso, un tempo detto anti-Stato, è il naturale blocco e sbocco collaborativo di uno Stato che di legale, di ufficiale non ha mai avuto l'ombra.

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Come si fa, infatti, da parte del presunto Stato ufficiale e da parte delle imprese manifatturiere, bancarie e finanziarie, e dalle conseguenti tasse e spese statali, a rinunciare a 150 miliardi di proventi mafiosi, a 200 miliardi di evasione ed elusione fiscale, a 100 e oltre miliardi di lavoro in nero e al mercato delle armi e di transazione commerciale di manufatti e tecnologia e finanze con la droga, ai subappalti edilizi lucrosi, alle rimesse degli emigranti, al lavoro lucroso degli immigrati, alla prostituzione, tutte cose in mano pressocché allo Stato real-mafioso? Sono almeno 1.000.000 di miliardi di vecchie lire, insomma! Che promettono affari sempre più lucrosi! Se non ci si crede, basta guardare ai grandi affari che lo Stato ufficiale va facendo nell'area mediterranea, ma da cui il Meridione è tenuto accuratamente fuori, se non per la questioni illegali.

Ogni tanto lo Stato ufficiale interviene, sì (come pomposamente vanta Maroni), ma per riequilibrare i rapporti tra Stato reale e Stato ufficiale (ossia, per ri-appropriarsi, questo, della sua parte di proventi). Si volesse risolvere davvero la situazione, bisognerebbe reinventare un modo nuovo di far politica unitaria e inviare per qualche anno tutto l'esercito (altro che Afghanistan!) in assetto di guerra e far amministrare prefetti e generali (sperando che non colludano) insieme agli amministratori locali. Ma vai a dire queste cose ai parlamentari, amministratori e imprenditor-finanzieri collusi o che lucrano sullo status quo, nonché alle anime belle dei "sinceramente democratici" del garantismo sinistrorso!

Dobbiamo scrivere, scrive e scrivere noi, lasciando almeno un'eredità spendibile per le nuove generazioni. E al diavolo i distinguo. È tutta l'Italia che vive dall'Unità senza storia. Abbiamo distrutto tutta l'eredità urbana e ambientale, che pur avevamo ed era faro per il mondo almeno dal Medioevo fino all' ' 800. Non sappiamo ancora dire perché fu scelta quel tipo di Unità, quando contemporaneamente, per fare un solo un esempio, la Germania poteva dar lezioni di unità equilibrata e federale.

Non sappiamo ancora definire il perché, se non in forma demagogico-ideologica, proprio in Italia si ebbe il più forte partito comunista occidentale (nota bene che le due maggiori personalità fondative, Bordiga e Gramsci, erano meridionali), che non consentì la dialettica autentica di maggioranza e opposizione da Livorno ad oggi. Non sappiamo davvero bene addossare al PSI le colpe per l’avvento del Fascismo, avendo esso rifiutato per ben due volte ufficialmente di far parte dei governi Giolitti. Non sappiamo ancora riconoscere che nel secondo dopoguerra è nata una Repubblica fondata sull' "Anti", antifascismo, anticomunismo, anti-DC, anti questo e anti quello, e non una Repubblica in positivo, propositiva. Non vogliamo riconoscere che, sempre nel secondo dopoguerra, continuò la politica antimeridionalista dell'Unità. "Anti" anche lo Spirito di un popolo e la sua cultura, che hanno finito con lo scadere nell'imitazione anglosassone e nel provincialismo. Ma come, noi, "figli" di Dante, di Machiavelli, di Michelangelo e di Caravaggio, di Leopardi e di Rosmini, di Giotto e dei grandi architetti e urbanisti, della Scuola siciliana, per tacere di migliaia di altre personalità e cose!!!



V

Via! Non vi può essere riscatto dell'Italia se non vi è riscatto del Meridione. Mentre Bossi e il Berlusca ritornano ad un federalismo di tipo Comunale e delle Signorie, cioè quanto di più antitetico rispetto alla concezione di uno Stato nazionale e perfino della globalizzazione, il Meridione non si pone questo problema, gli è distante anni luce, ma non perché è corrotto e mira alle sovvenzioni, ma perché ha nel DNA storico il senso dello Stato, avendo creato il primo vero Stato moderno fin dai Normanni. E dallo Stato, e dalla nazione (!), vorrebbe il riconoscimento di questa antica e positiva storia. Basta pensare che dal Meridione furono arruolati, proprio per il loro alto e sentito senso dello Stato, le burocrazie, i maestri, i dirigenti del dopo Unità. Federalismi, sì, ma quello dell’ ‘800, perfino del Cavour del convegno di Plombières, rivisitato magari secondo le teorie di un Albert Dicey e di un James Bryce, o di un K.C. Wheare, o, se si vuole salire a livello filosofico, di un Immanuel Kant. Certo non quello degli antichi Comuni e Signorie propugnato da un Bossi qualsiasi e seguaci.

Questione Settentrionale Pontida

Come si può constatare, la situazione odierna non è gran che cambiata. Come si può cambiare con le mafie che penetrano violentemente dappertutto, e non basta, come abbiamo cercato di illustrare, arrestare qualche vecchio boss e incamerare 10/15 miliardi di beni, bisognerebbe assolutamente intervenire, oltre che con esercito e prefetti, sulle banche e sulle Borse, a livello internazionale, sulla Banca d’Italia, con la finanza a tappeto, per sequestrare i miliardi illegali. Come si può creare e costruire una classe dirigente, anche politica, nuova se negli ultimi 10 anni almeno 700.000 giovani laureati e diplomati sono emigrati, e nella devastazione attuale, se i politici e i partiti nazionali, pieni di meridionali, non si danno da fare nel senso del rinnovamento qui auspicato? Come si può allora far finta, insomma, che la “Questione meridionale” ormai, essendo storicizzata, in effetti non esiste più, ma che, addirittura!, esista una questione settentrionale? Insomma, dovremmo accettare di essere “cornuti e mazziati”? Ma va là! Cialtroni, semmai, saranno Tremonti, Bossi e chi li segue.

Fonte: Area locale

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Di Luigi Capozza


Ho letto con partecipazione e condivisione gli articoli di Franco Federico sulla politica e l’amministrazione meridionali, comparsi sulle pagine del trisettimanale ilCrotonese la scorsa estate. Il desiderio è di riprendere il discorso di Federico, cercando di aggiungere un’ulteriore riflessione di carattere storico, partendo dall’affermazione di Tremonti che la classe dirigente meridionale sia composta da cialtroni. Tremonti, come documenta anche Federico, non ha, per certi versi, tutti i torti; tuttavia gioverà analizzare storicamente il come mai si sia verificata una simile condizione.

Centinaia di paesi e città nel Sud, sono state e sono terre di emigrazione; nella sola Calabria, dall’unità d’Italia in poi, vi sono stati circa due milioni di emigrati, tanti quanti abitanti attualmente conta la regione; un vero e proprio esodo biblico. Dai primi anni ’90 del ‘900 ad oggi, come rilevato dalla stampa di ogni tendenza, da tutto il Sud sono emigrati altri 2 milioni di persone, in assoluta maggioranza giovani diplomati e laureati. È stato sempre così, o l’esodo è iniziato proprio con l’Unità?

Ricaviamo alcuni dati statistici dalla oggi imprescindibile opera di Giuseppe Ressa e Alfonso Grosso, Il Sud e l’unità d’Italia (compare anche su Internet, sulla piattaforma Scribd):

1) «All'epoca di Francesco II, l'ultimo re, l'emigrazione era sconosciuta, le tasse molto basse come pure il costo della vita, il tesoro era floridissimo. In campo culturale Napoli contendeva a Parigi la supremazia europea» (ciò lo riconosceva con molta onestà Paolo Volponi nel suo discorso d’insediamento alla Camera).

2) «Come risultò dalla Esposizione Internazionale di Parigi del 1856, le Due Sicilie erano lo Stato più industrializzato d'Italia ed il terzo in Europa, dopo Inghilterra e Francia (stessa documentazione fornisce Paolo Granzotto su numerosi interventi sul Giornale). Dal censimento del 1861 si deduce che, al momento dell'Unità, le Due Sicilie impiegavano nell'industria una forza-lavoro pari al 51% di quella complessiva italiana (nonostante avesse 9 milioni di abitanti su 22). I settori principali erano: cantieristica navale, industria siderurgica, tessile, cartiera, estrattiva e chimica, conciaria, del corallo, vetraria, alimentare.

3) «Nei pressi di Napoli, a Pietrarsa, era attiva la più grande industria metalmeccanica d'Italia … era l'unica fabbrica italiana in grado di costruire motrici a vapore per uso navale. A Pietrarsa fu istituita anche la "Scuola degli Alunni Macchinisti" che permise alle Due Sicilie, unico Stato della Penisola, ad affrancarsi dalla necessità di disporre di macchinisti navali inglesi. A Pietrarsa venivano costruiti cannoni ed altri armamenti; venivano realizzati prodotti meccanici per uso civile, vagoni, locomotive ed i binari ferroviari (di cui in Italia solo Pietrarsa disponeva della tecnologia costruttiva). … Accanto a Pietrarsa sorgevano la Zino ed Henry (poi Macry ed Henry) e la Guppy, entrambe con 600 addetti. … Viceversa al Nord, alla vigilia dell'Unità, solo l'Ansaldo di Genova era a livello di grande industria (aveva 480 operai contro i 1.000 di Pietrarsa)».

Vignetta di Enzo Brizio, riproduzione di un’originale del 1860

4) « La ferriera di Mongiana sorgeva nei dintorni di Serra San Bruno … Poco distante, fu più tardi costruita Ferdinandea. … Il complesso siderurgico calabrese di Mongiana e Ferdinandea era, fino al 1860, il maggiore produttore d'Italia di ghisa e semi-lavorati per l'industria metalmeccanica. Altri impianti metallurgici erano attivi in tutti il Sud».

5) « Le Due Sicilie disponevano di una flotta mercantile pari ai 4/5 del naviglio italiano ed era la quarta del mondo … fu la prima flotta italiana a collegare l'Italia con l'America ed il Pacifico. … Il primo vascello a vapore del Mediterraneo fu costruito nelle Due Sicilie nel 1818 e fu anche il primo al mondo a navigare per mare e non su acque interne … l'Inghilterra dovette aspettare altri quattro anni per metterne in mare uno, il Monkey, nel 1822. … Il cantiere diCastellammare di Stabia, con 1.800 operai, era il più grande del Mediterraneo. Al momento della conquista piemontese stava attrezzandosi per la costruzione di scafi in ferro. L'arsenale-cantiere di Napoli, con 1.600 operai, era l'unico in Italia ad avere un bacino di carenaggio in muratura lungo 75 metri. … Sono patrimonio delle Due Sicilie anche: la prima compagnia di navigazione a vapore del Mediterraneo (1836) … Nel 1847 fu introdotta per la prima volta in Italia la propulsione a elica con la nave "Giglio delle Onde".

6) «Prima dell’Unità il settore cotoniero vantava quattro stabilimenti con 1.000 o più operai (1425 alla Von Willer di Salerno, 1160 in un’altra filanda della provincia, 1129 nella filanda di Pellazzano, 2159 in quella di Piedimonte e un migliaio nella Aninis-Ruggeri di Messina); nello stesso periodo gli stabilimenti lombardi a stento raggiungevano i 414 operai della filatura Ponti. … si ebbe dal 1835 un rinnovato sviluppo dell’industria della seta e nuove filande sorsero in Calabria, in Lucania, in Abruzzo».

Senza tirarla per le lunghe, diciamo che gli stessi primati su tutto il resto d’Italia il Sud li vantava, a ridosso dell’Unità, nelle seguenti industrie: a) cartiere; b) estrattiva e chimica (provenivano dal Sud i 2/3 delle produzioni chimiche italiane); c) conciaria; d) del corallo; e) saline; f) dei vetri e cristalli.

7) I dati indicano che nel 1860 il Sud, che conta il 36.7 % della popolazione d’Italia, «pur non avendo nulla che si possa paragonare alla pianura padana produce il 50.4% di grano; l’80.2% di orzo e avena; il 53% di patate; il 41.5% di legumi; il 60% di olio … Per quanto riguarda l’allevamento, considerando il numero dei capi, il Sud era in testa in quello ovino, caprino, equino e dei maiali».

8) «Il livello impositivo era il più mite di tutti gli Stati Italiani. La contribuzione diretta era praticamente basata solo sull’imposta fondiaria, quella indiretta solo su quattro tributi». Il sistema bancario era il migliore che si potesse desiderare.

Dunque, il Sud, come risulta da statistiche e dati inoppugnabili, era, fino al 1861, lo Stato più grande, più ricco e meglio governato dell’intera Penisola, sì da gareggiare con le maggiori potenze economiche del tempo: Inghilterra e Francia (sarebbe opportuno leggere tutta l’opera di Ressa e Grosso, che hanno consultato migliaia di documenti. Bisognerebbe anche leggere o rileggere, almeno, sia Corrado che Francesco Barbagallo, Einaudi, F. S. Nitti, Salvemini e Zitara; leggere Simonelli, A. Pellicciari e Veneziani, Aprile e G. Bruno Guerri, il cui saggio, Il sangue del Sud, uscirà a fine anno).


II

Come è potuto accadere che il Meridione, già all’indomani dell’Unità, finisse pian piano per diventare la cenerentola della “Nazione” con un tasso migratorio biblico? Ci soccorrono per comprendere (e ci scusiamo per le continue, ma indispensabili, citazioni) due documenti, ma vedremo altre ricostruzioni storiche, anch’essi inoppugnabili: uno di F. S. Nitti e uno di Luigi Einaudi.

ùAfferma F. S. Nitti, nel suo Bilancio dello Stato dal 1862 al 1897: «In quarant’anni il Sud ha dato ciò che poteva e ciò che non poteva, ha ricevuto assai poco, soprattutto ha ricevuto assai male”. Insomma, il 65% di tutta la moneta circolante in Italia era del Sud e in pochi anni, tra tributi per risanare il deficit del Tesoro dovuto alle guerre (il Meridione con 27% di produzione della ricchezza dovette pagare il 32% dei tributi), in conseguenza delle nuove imposte e della vendita dei beni demaniali ed ecclesiali ai latifondisti, il regime doganale del 1887, il Sud fu privato dei suoi capitali a esclusivo vantaggio del Nord».

Tale testimonianza è avvalorata, fin dai primi anni del Novecento, proprio da quello che fu primo presidente dell’Italia repubblicana, Luigi Einaudi. Luigi Einaudi ne Il Buongoverno riconosce apertamente che «Sì, è vero, noi settentrionali abbiamo … profittato di più delle spese dello Stato italiano; è vero, peccammo di egoismo quando il settentrione riuscì a cingere di una forte barriera doganale il territorio ed assicurare così alle proprie industrie il monopolio del mercato meridionale; è vero che abbiamo spostata molta ricchezza dal Sud al Nord con la vendita dell’asse ecclesiastico e del demanio e coi prestiti pubblici … È vero che abbiamo ottenuto più costruzioni di ferrovie, di porti, di scuole e di altri lavori pubblici, ma sono stati duri sacrifici imposti da circostanze politiche ed economiche … ».

Quello che è stupefacente, soprattutto in Einaudi, come se non se ne accorgesse, è che egli dichiara candidamente che la vera Unità è stata fatta per il Nord e che a questa (presunta) “necessità” si è dovuto sacrificare il Sud. Insomma, il Sud è stato spogliato, impoverito, ridotto a territorio coloniale per … lo sviluppo del Nord. Riconosce altresì, Einaudi, e candidamente non lo comprende, che il Nord era povero e il Sud talmente ricco da “costruire” il Nord (la presunta vera Italia lavoratrice, direbbero senza vergogna Bossi, Brunetta e Gelmini) con le sue ricchezze.


III

Ma, oltre a quanto sopra documentato, che altro è successo? Salvemini è molto chiaro su questo fatto. Scrive il Nostro in Problemi educativi e sociali d’Italia: «I governi italiani per avere i voti del Sud concessero i pieni poteri alla piccola borghesia, delinquente e putrefatta, spiantata, imbestialita, cacciatrice d’impieghi e di favori personali, ostile a qualunque iniziativa potesse condurre a una vita meno ignobile e più umana […] Qualunque gruppo di uomini onesti […] avesse voluto mettere un po’ di freno alla iniquità di una sola fra le clientele che facevano capo a un deputato meridionale, era sicuro di trovarsi contro tutta la marmaglia [piccolo borghese] compatta». Giordano Bruno Guerri rincara la dose: «L’annessione del Sud fu una guerra di annessione e di conquista, spietata e brutale … il paternalismo (?) borbonico permetteva pure ai più poveri di vivere decentemente … La vita culturale … dera di tutto rispetto … Le industrie erano all’altezza – e a volte superiori – a quelle del Nord. Soprattutto, le casse dello Stato e la circolazione monetaria erano più ricche che nel resto d’Italia messo assieme. Denaro, terre e industrie facevano gola ai Savoia … il cui motto era: “L’Italia è un carciofo da mangiare foglia a foglia”. Infatti l’ex Regno delle Due Sicilie venne depredato di tutto: l’oro delle sue banche venne per lo più reinvestito al Nord, le industrie smantellate e trasferite più vicino alle Alpi; le terre … non furono date ai contadini, ma cedute a basso prezzo alla borghesia settentrionale o agli antichi feudatari divenuti improvvisamente filounitari. A rimetterci fu il popolo … Il brigantaggio …, oggi [i briganti] li chiameremmo partigiani …, fu una guerra civile … Di certo, nascondere quello che avvenne non è servito a una crescita del Paese e della nostra coscienza nazionale …».

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Che dire di più per spiegare lo sfascio, voluto e programmato, della nostra terra e il processo migratorio dal Sud al Nord e nel resto del mondo? In effetti, però, si può dire di più. Come si sa, la Sinistra storica e Giolitti non risolsero propriamente la cosiddetta “Questione meridionale”; la grande guerra e il dopo guerra sfasciarono ancor di più l’economia meridionale, privandola dei suoi capitali e delle sue braccia per sostenere lo sforzo bellico e foraggiare l’industria di guerra (e qui era già cominciata la trasformazione della mafia in delinquenza organizzata di tipo moderno attraverso il mercato nero e poi i fondi per la ricostruzione).

Il Fascismo – e la crisi di Wall Street –, con la famigerata “Quota 90”, ossia il pareggio della lira con la sterlina, a voler parlare solo di ciò, finì con lo buttare sul lastrico migliaia di contadini, artigiani e piccoli imprenditori debitori delle banche del Sud, le quali, non potendo più riscuotere i prestiti aumentati a dismisura di valore, fallirono a loro volta.

La seconda guerra mondiale, se possibile, peggiorò ancor di più le cose nel Sud, mentre l’industria di guerra dell’Alta Italia marciava a pieno ritmo.

Ancora una volta, la mafia si ingrassò col mercato nero, l’usura e, avendo bloccato il Piano Marshall appena a sud di Roma, con, di nuovo, la caotica ricostruzione e i relativi subappalti, col mercato illegale delle armi invendute, l’incipiente mercato di droga e fonti energetiche in cambio di prestiti neocoloniali, tecnologia, prodotti industriali con i popoli sottosviluppati.

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Chiuderanno le chiavi di una spoliazione perfetta: 1) la famigerata Riforma agraria degli anni cinquanta, che, invece di aiutare la trasformazione del latifondo in aziendalità e imprenditoria, o, perlomeno, in organizzazione cooperativistica, suddivise il latifondo in piccoli lotti, con case di “cartapesta” isolate, privi di qualsiasi strumento meccanico, e la 2) Cassa per il Mezzogiorno (e Organismi similari), che, coi suoi finanziamenti a pioggia ha favorito, ancora una volta, attraverso subappalti e altre diavolerie, la mafia, lo scempio edilizio, le truffe imprenditoriali, l’illegalità diffusa, il clientelismo, il burocraticismo vessatorio, improvvise fortune politiche, ecc. ecc.

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Non dico che non bisogna accettare ormai l'unità, ma bisognava, dando un senso alla ribellione dei “briganti”, bilanciare in modo paritario col resto d'Italia la stessa forma unitaria. Cosa che neanche si sognarono di fare, né se lo sognano, i nostri intellettuali e politici. Non capirono, e non capiscono. Purtroppo, come si scriveva sopra, il Meridione fu messo da subito nella condizione di minorità, complice, allora, anche il grande (?) intellettuale Croce (leggere i suoi giudizi sulla Destra storica e su Sella) e i suoi salottieri seguaci. Fu giudicato, il Meridione, dalla pubblicistica dell'epoca e dai politici interessati, arretrato, barbaro, mafioso, incapace e analfabeta, non tanto potenzialmente delinquenziale, da conquistare e liberare (rileggere il Manzoni per capire, invece, che cos'era il Settentrione spagnolo; e poi francese e poi austriaco). E gli fu assegnato il ruolo di banca del Nord, di procuratore di manodopera, di bacino elettorale, di trafficante del mercato illegale, di carne da macello delle varie guerre. Insomma, fu distrutta la storia e la sua verità, senza le quali nessun popolo trova identità e può costruire la sua vita e il futuro.


IV

La solfa continua ancor oggi e non bisogna meravigliarsi che ormai sia lo Stato ufficiale ad essere, a vivacchiare, nello Stato reale e non viceversa, come si diceva un tempo, perché lo Stato 'dranghetista-mafioso, un tempo detto anti-Stato, è il naturale blocco e sbocco collaborativo di uno Stato che di legale, di ufficiale non ha mai avuto l'ombra.

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Come si fa, infatti, da parte del presunto Stato ufficiale e da parte delle imprese manifatturiere, bancarie e finanziarie, e dalle conseguenti tasse e spese statali, a rinunciare a 150 miliardi di proventi mafiosi, a 200 miliardi di evasione ed elusione fiscale, a 100 e oltre miliardi di lavoro in nero e al mercato delle armi e di transazione commerciale di manufatti e tecnologia e finanze con la droga, ai subappalti edilizi lucrosi, alle rimesse degli emigranti, al lavoro lucroso degli immigrati, alla prostituzione, tutte cose in mano pressocché allo Stato real-mafioso? Sono almeno 1.000.000 di miliardi di vecchie lire, insomma! Che promettono affari sempre più lucrosi! Se non ci si crede, basta guardare ai grandi affari che lo Stato ufficiale va facendo nell'area mediterranea, ma da cui il Meridione è tenuto accuratamente fuori, se non per la questioni illegali.

Ogni tanto lo Stato ufficiale interviene, sì (come pomposamente vanta Maroni), ma per riequilibrare i rapporti tra Stato reale e Stato ufficiale (ossia, per ri-appropriarsi, questo, della sua parte di proventi). Si volesse risolvere davvero la situazione, bisognerebbe reinventare un modo nuovo di far politica unitaria e inviare per qualche anno tutto l'esercito (altro che Afghanistan!) in assetto di guerra e far amministrare prefetti e generali (sperando che non colludano) insieme agli amministratori locali. Ma vai a dire queste cose ai parlamentari, amministratori e imprenditor-finanzieri collusi o che lucrano sullo status quo, nonché alle anime belle dei "sinceramente democratici" del garantismo sinistrorso!

Dobbiamo scrivere, scrive e scrivere noi, lasciando almeno un'eredità spendibile per le nuove generazioni. E al diavolo i distinguo. È tutta l'Italia che vive dall'Unità senza storia. Abbiamo distrutto tutta l'eredità urbana e ambientale, che pur avevamo ed era faro per il mondo almeno dal Medioevo fino all' ' 800. Non sappiamo ancora dire perché fu scelta quel tipo di Unità, quando contemporaneamente, per fare un solo un esempio, la Germania poteva dar lezioni di unità equilibrata e federale.

Non sappiamo ancora definire il perché, se non in forma demagogico-ideologica, proprio in Italia si ebbe il più forte partito comunista occidentale (nota bene che le due maggiori personalità fondative, Bordiga e Gramsci, erano meridionali), che non consentì la dialettica autentica di maggioranza e opposizione da Livorno ad oggi. Non sappiamo davvero bene addossare al PSI le colpe per l’avvento del Fascismo, avendo esso rifiutato per ben due volte ufficialmente di far parte dei governi Giolitti. Non sappiamo ancora riconoscere che nel secondo dopoguerra è nata una Repubblica fondata sull' "Anti", antifascismo, anticomunismo, anti-DC, anti questo e anti quello, e non una Repubblica in positivo, propositiva. Non vogliamo riconoscere che, sempre nel secondo dopoguerra, continuò la politica antimeridionalista dell'Unità. "Anti" anche lo Spirito di un popolo e la sua cultura, che hanno finito con lo scadere nell'imitazione anglosassone e nel provincialismo. Ma come, noi, "figli" di Dante, di Machiavelli, di Michelangelo e di Caravaggio, di Leopardi e di Rosmini, di Giotto e dei grandi architetti e urbanisti, della Scuola siciliana, per tacere di migliaia di altre personalità e cose!!!



V

Via! Non vi può essere riscatto dell'Italia se non vi è riscatto del Meridione. Mentre Bossi e il Berlusca ritornano ad un federalismo di tipo Comunale e delle Signorie, cioè quanto di più antitetico rispetto alla concezione di uno Stato nazionale e perfino della globalizzazione, il Meridione non si pone questo problema, gli è distante anni luce, ma non perché è corrotto e mira alle sovvenzioni, ma perché ha nel DNA storico il senso dello Stato, avendo creato il primo vero Stato moderno fin dai Normanni. E dallo Stato, e dalla nazione (!), vorrebbe il riconoscimento di questa antica e positiva storia. Basta pensare che dal Meridione furono arruolati, proprio per il loro alto e sentito senso dello Stato, le burocrazie, i maestri, i dirigenti del dopo Unità. Federalismi, sì, ma quello dell’ ‘800, perfino del Cavour del convegno di Plombières, rivisitato magari secondo le teorie di un Albert Dicey e di un James Bryce, o di un K.C. Wheare, o, se si vuole salire a livello filosofico, di un Immanuel Kant. Certo non quello degli antichi Comuni e Signorie propugnato da un Bossi qualsiasi e seguaci.

Questione Settentrionale Pontida

Come si può constatare, la situazione odierna non è gran che cambiata. Come si può cambiare con le mafie che penetrano violentemente dappertutto, e non basta, come abbiamo cercato di illustrare, arrestare qualche vecchio boss e incamerare 10/15 miliardi di beni, bisognerebbe assolutamente intervenire, oltre che con esercito e prefetti, sulle banche e sulle Borse, a livello internazionale, sulla Banca d’Italia, con la finanza a tappeto, per sequestrare i miliardi illegali. Come si può creare e costruire una classe dirigente, anche politica, nuova se negli ultimi 10 anni almeno 700.000 giovani laureati e diplomati sono emigrati, e nella devastazione attuale, se i politici e i partiti nazionali, pieni di meridionali, non si danno da fare nel senso del rinnovamento qui auspicato? Come si può allora far finta, insomma, che la “Questione meridionale” ormai, essendo storicizzata, in effetti non esiste più, ma che, addirittura!, esista una questione settentrionale? Insomma, dovremmo accettare di essere “cornuti e mazziati”? Ma va là! Cialtroni, semmai, saranno Tremonti, Bossi e chi li segue.

Fonte: Area locale

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2 commenti:

germana ha detto...

Non so quante persone sappiano che SOLO il Re di Sardegna non si era impegnato a 'rubare' le terre di altre regioni italiane quindi gli è tornato comodo il vento di un'Italia unita al momento del suo bisogno di soldi. Ma il mettere non solo a ferro e fuoco ma, attraverso leggi doganali,bloccare i floridi commerci delle 2 Sicilie e poi ancora tutte le commesse al Piemonte.. è stato un vero omicidio non solo per il Sud ma per il nostro popolo(x popolo non s'intende patria ma cio' che ci fa eguali, ci riunisce.. gli ebrei erano popolo prima di avere una Terra).
E quanti sanno che Garibaldi ha sperperato in pochi giorni il patrimonio borbonico?
Felice di conoscerVi scrivo da Rimini

Anonimo ha detto...

Germana, sei una grande!
Bellissimo commento!
Il problema è che queste verità stentano ad essere diffuse e, quindi, è difficile pungolare l'orgoglio e la dignità dei Meridionali.
Io, nel mio piccolo, mi sforzo di comprare prodotti di aziende del SUD, provo a fare una guerra commerciale a questi invasori del nord che continuano ad usarci come mucche da latte.
Un forte abbrazzio
Walter (BRIGANTE PER SEMPRE)

 
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