In viaggio per la piana dell'Aspromonte a salutarli. Per colpa di una legge comunitaria orneranno le ville del Nord
MIMMO GANGEMI
Sono tornato sulle strade della mia infanzia, tra gli ulivi alle prime pendici dell’Aspromonte tirrenico, per la doverosa visita che si conviene a dei moribondi stesi su un letto di dolore.
I passi scricchiolano sulle foglie secche, polverosi cilindri di luce filtrano tra il fogliame e si piantano in terra, un filo di vento fruscia di uno stridio metallico tra le cime.
Riaffiorano immagini antiche: la «grana» (cioè il fiore dell’ulivo) che in giugno imbiancava l’aria, le raccoglitrici intente, nel punto di raccolta delle femmine, alle quattro misure d’obbligo, i canti campagnoli su cui si ergeva imperiosa e solista la voce di Mena, don Rocchino, eterno vizioso, che s’approfittava della posa ricurva per tastare l’uovo a una donna messa apposta a raccogliere in un terrazzamento isolato.
Asini e muli caricati che arrancavano in salita e sembrava pompassero le ultime forze dal ritmo sincronizzato a sollevare e abbassare la testa, uomini che si facevano muli loro stessi, il carico in spalla e ogni passo una bestemmia.
E poi Pasca, abile a lanciare per aria, dal crivello - una sorta di setaccio - un’onda di olive, e a scansare le foglie, più lente nella ricaduta; Peppe che dettava i tempi dei quattro zappatori piazzati dal padrone su un’uguale linea per far competere la miseria, Masi che un giorno spuntò da dietro un tronco rugoso, la coppola girata di traverso, il fucile calibro 12 a bilanciere sulla mano e la migliore faccia truce che gli riuscì, per mostrarsi ’ndranghetista a dei «cazzoni americani» tremanti con la macchina fotografica sollecita a scattare a più non posso, la fragranza dell’olio appena spremuto nel frantoio.
Il tutto mentre io ragazzo che sedevo con i grandi a mangiare peperoni il cui bruciore mi ustionava la lingua e portava lacrime e rabbia perché non riuscivo a dissimulare, il dito di vino che toccava ai miei pochi anni, mentre i lavoranti colmavano a più riprese il loro misurino, un bicchiere appena più grande di quello per il rosolio e contenente la giusta quantità da calarsi d’un fiato, le macine di pietra che schiacciavano le olive squittendo un sempre uguale sciabordio, compare Pascali che caricava nelle sportine la pasta tritata e le metteva nella pressa, ristrette tra dischi in acciaio, l’olio che calava come le acque degli zampilli a più vasche.
Dalla morga, il residuo marcio della spremitura, si ricavava il sapone di casa. Dalla sansa, i sansifici spremevano altro olio. Delle olive andava perduto solo il fumo della sansa esausta che alimentava il fuoco delle cucine a legna.
Li guardo e li piango, questi giganti, alti fino a venti metri, che hanno accompagnato ogni mia età. In tanti hanno superato i duecento anni. Nessuno i duecentotrenta. Perché così imponenti s’iniziò a piantarli dopo il «grande flagello», nel 1783, dopo che la Cassa Sacra, messa su dai Borboni, incamerò i proventi delle vendite di molte proprietà della chiesa, vendute, con particolari forme d’asta, ai sopravvissuti.
A quel tempo gli ulivi erano bassi, di buona qualità e disposti distanti più di dieci metri l’uno dall’altro, a croce, quattro sui lati e un quinto al centro del quadrato. Questo consentiva al sole di adagiarsi al suolo, e alla terra di sopportare più colture.
Nell’ampio spazio tra le piante convivevano grano e viti. E gli ulivi s’alternavano ai gelsi, che significavano bachi da seta.
Per i vaticali e i bracciali, ma anche per le donne e i ragazzi, c’era maggior lavoro, distribuito in più periodi. E la produzione era pregiata.
Dopo il 1783 si passò alla monocultura degli ulivi, piantati stretti da non consentire altro sotto la loro ombra, e privilegiando la quantità alla qualità, per garantire una produzione con cui far fronte alla forte richiesta inglese di un olio che facesse funzionare le macchine della prima industrializzazione.
Il mercato inglese, la distruzione causata dal sisma, la Cassa Sacra, l’ingordigia dei grandi proprietari terrieri e gli errori successivi, trascinati fino ai giorni nostri, hanno stravolto un’agricoltura prima illuminata e sono le cause dei guai di oggi, dovuti agli ulivi giganteschi, solo belli a vedere, un unico manto grigioverde che si spinge fino al mare e che sagoma sulle cime l’andamento sinuoso del terreno, perché se ne ricava un olio scadente che soccombe alla concorrenza e perché costringono a una raccolta a singhiozzo, da novembre a tutto aprile.
Moribondi su un letto di dolore, dicevo. Hanno infatti un destino quasi segnato: legna da ardere. Il loro ciclo potrebbe chiudersi nel 2013, quando la produzione s’infrangerà contro il muro dell’integrazione comunitaria sull’olio d’oliva: la riforma della PAC (la Politica agricola comune), in discussione all’Unione Europea in questi mesi, potrebbe tagliare i sussidi agli olivicoltori - inutile contare sulla Provvidenza, già accorsa per tante proroghe - lasciando costernati e in piena fame una fetta importante della popolazione.
Non converrà raccogliere neppure con il lavoro in nero su emigranti da sfruttare. Lo stesso destino delle arance, pagate ai produttori sei centesimi al chilo. Lo stesso errore compiuto per le arance: non aver trasformato le colture e aver badato a intascare i soldi dell’integrazione senza cogliere l’occasione, che era lo spirito della normativa comunitaria, di migliorare la qualità e il prodotto, insistendo in un ammiccante parassitismo - la furbizia degli stolti! - lungo quarant’anni e di cui vergognarsi e pagare ora un conto amaro e salato.
L’unica alternativa alla legna da ardere, l’espianto con tutta la zolla, il trasporto e il trapianto a decoro delle ville della Brianza. Il prezzo, calcolato a volume di frasca e a metro d’altezza, batteva sui millecinquecento euro a pianta, purché secolare, ma solo per i grossisti, che poi lassù li rivendevano a otto-diecimila. È lievitato a duemilacinque, per causa degli arresti dopo la scoperta del traffico derivante da furto e per causa della legge che proibisce lo sdradicamento.
Agli acquirenti tocca la sola buca da tenere pronta nel giardino. E sperare che attecchiscano - su questo non c’è assicurazione che li protegga - e s’adattino, seppure diradino i frutti, si spennacchino, forse per protesta, forse per nostalgia dell’aria di casa, della brezza del mare vicino, del soffio del Levante, dei tordi che dentro il fogliame trovavano cibo e riparo, sarà perché soffrono il clima più di un husky da slitta a Porto Empedocle.
L’unico modo per arginare quest’altra fame che potrebbe piovere addosso nel 2013 - e la rivolta che ne deriverà - è liberalizzarne il traffico, guidandolo con uno sterzo sapiente.
Meglio che vederli inutili ingombri, né più né meno delle palme, dei cipressi, dei pini argentati, in bella mostra nei giardini dei signori, e tanto invisi ai contadini della mia infanzia, perché producevano null’altro che ombra e per uno spreco di buona terra che offendeva il bisogno e pareva insopportabile davanti agli occhi il privilegio di un’immutabilità che i padroni si premuravano di conservare a ogni costo.
I passi scricchiolano sulle foglie secche, polverosi cilindri di luce filtrano tra il fogliame e si piantano in terra, un filo di vento fruscia di uno stridio metallico tra le cime.
Riaffiorano immagini antiche: la «grana» (cioè il fiore dell’ulivo) che in giugno imbiancava l’aria, le raccoglitrici intente, nel punto di raccolta delle femmine, alle quattro misure d’obbligo, i canti campagnoli su cui si ergeva imperiosa e solista la voce di Mena, don Rocchino, eterno vizioso, che s’approfittava della posa ricurva per tastare l’uovo a una donna messa apposta a raccogliere in un terrazzamento isolato.
Asini e muli caricati che arrancavano in salita e sembrava pompassero le ultime forze dal ritmo sincronizzato a sollevare e abbassare la testa, uomini che si facevano muli loro stessi, il carico in spalla e ogni passo una bestemmia.
E poi Pasca, abile a lanciare per aria, dal crivello - una sorta di setaccio - un’onda di olive, e a scansare le foglie, più lente nella ricaduta; Peppe che dettava i tempi dei quattro zappatori piazzati dal padrone su un’uguale linea per far competere la miseria, Masi che un giorno spuntò da dietro un tronco rugoso, la coppola girata di traverso, il fucile calibro 12 a bilanciere sulla mano e la migliore faccia truce che gli riuscì, per mostrarsi ’ndranghetista a dei «cazzoni americani» tremanti con la macchina fotografica sollecita a scattare a più non posso, la fragranza dell’olio appena spremuto nel frantoio.
Il tutto mentre io ragazzo che sedevo con i grandi a mangiare peperoni il cui bruciore mi ustionava la lingua e portava lacrime e rabbia perché non riuscivo a dissimulare, il dito di vino che toccava ai miei pochi anni, mentre i lavoranti colmavano a più riprese il loro misurino, un bicchiere appena più grande di quello per il rosolio e contenente la giusta quantità da calarsi d’un fiato, le macine di pietra che schiacciavano le olive squittendo un sempre uguale sciabordio, compare Pascali che caricava nelle sportine la pasta tritata e le metteva nella pressa, ristrette tra dischi in acciaio, l’olio che calava come le acque degli zampilli a più vasche.
Dalla morga, il residuo marcio della spremitura, si ricavava il sapone di casa. Dalla sansa, i sansifici spremevano altro olio. Delle olive andava perduto solo il fumo della sansa esausta che alimentava il fuoco delle cucine a legna.
Li guardo e li piango, questi giganti, alti fino a venti metri, che hanno accompagnato ogni mia età. In tanti hanno superato i duecento anni. Nessuno i duecentotrenta. Perché così imponenti s’iniziò a piantarli dopo il «grande flagello», nel 1783, dopo che la Cassa Sacra, messa su dai Borboni, incamerò i proventi delle vendite di molte proprietà della chiesa, vendute, con particolari forme d’asta, ai sopravvissuti.
A quel tempo gli ulivi erano bassi, di buona qualità e disposti distanti più di dieci metri l’uno dall’altro, a croce, quattro sui lati e un quinto al centro del quadrato. Questo consentiva al sole di adagiarsi al suolo, e alla terra di sopportare più colture.
Nell’ampio spazio tra le piante convivevano grano e viti. E gli ulivi s’alternavano ai gelsi, che significavano bachi da seta.
Per i vaticali e i bracciali, ma anche per le donne e i ragazzi, c’era maggior lavoro, distribuito in più periodi. E la produzione era pregiata.
Dopo il 1783 si passò alla monocultura degli ulivi, piantati stretti da non consentire altro sotto la loro ombra, e privilegiando la quantità alla qualità, per garantire una produzione con cui far fronte alla forte richiesta inglese di un olio che facesse funzionare le macchine della prima industrializzazione.
Il mercato inglese, la distruzione causata dal sisma, la Cassa Sacra, l’ingordigia dei grandi proprietari terrieri e gli errori successivi, trascinati fino ai giorni nostri, hanno stravolto un’agricoltura prima illuminata e sono le cause dei guai di oggi, dovuti agli ulivi giganteschi, solo belli a vedere, un unico manto grigioverde che si spinge fino al mare e che sagoma sulle cime l’andamento sinuoso del terreno, perché se ne ricava un olio scadente che soccombe alla concorrenza e perché costringono a una raccolta a singhiozzo, da novembre a tutto aprile.
Moribondi su un letto di dolore, dicevo. Hanno infatti un destino quasi segnato: legna da ardere. Il loro ciclo potrebbe chiudersi nel 2013, quando la produzione s’infrangerà contro il muro dell’integrazione comunitaria sull’olio d’oliva: la riforma della PAC (la Politica agricola comune), in discussione all’Unione Europea in questi mesi, potrebbe tagliare i sussidi agli olivicoltori - inutile contare sulla Provvidenza, già accorsa per tante proroghe - lasciando costernati e in piena fame una fetta importante della popolazione.
Non converrà raccogliere neppure con il lavoro in nero su emigranti da sfruttare. Lo stesso destino delle arance, pagate ai produttori sei centesimi al chilo. Lo stesso errore compiuto per le arance: non aver trasformato le colture e aver badato a intascare i soldi dell’integrazione senza cogliere l’occasione, che era lo spirito della normativa comunitaria, di migliorare la qualità e il prodotto, insistendo in un ammiccante parassitismo - la furbizia degli stolti! - lungo quarant’anni e di cui vergognarsi e pagare ora un conto amaro e salato.
L’unica alternativa alla legna da ardere, l’espianto con tutta la zolla, il trasporto e il trapianto a decoro delle ville della Brianza. Il prezzo, calcolato a volume di frasca e a metro d’altezza, batteva sui millecinquecento euro a pianta, purché secolare, ma solo per i grossisti, che poi lassù li rivendevano a otto-diecimila. È lievitato a duemilacinque, per causa degli arresti dopo la scoperta del traffico derivante da furto e per causa della legge che proibisce lo sdradicamento.
Agli acquirenti tocca la sola buca da tenere pronta nel giardino. E sperare che attecchiscano - su questo non c’è assicurazione che li protegga - e s’adattino, seppure diradino i frutti, si spennacchino, forse per protesta, forse per nostalgia dell’aria di casa, della brezza del mare vicino, del soffio del Levante, dei tordi che dentro il fogliame trovavano cibo e riparo, sarà perché soffrono il clima più di un husky da slitta a Porto Empedocle.
L’unico modo per arginare quest’altra fame che potrebbe piovere addosso nel 2013 - e la rivolta che ne deriverà - è liberalizzarne il traffico, guidandolo con uno sterzo sapiente.
Meglio che vederli inutili ingombri, né più né meno delle palme, dei cipressi, dei pini argentati, in bella mostra nei giardini dei signori, e tanto invisi ai contadini della mia infanzia, perché producevano null’altro che ombra e per uno spreco di buona terra che offendeva il bisogno e pareva insopportabile davanti agli occhi il privilegio di un’immutabilità che i padroni si premuravano di conservare a ogni costo.
Fonte:La Stampa
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