Con la fine del 2010 sembrava fosse arrivato finalmente l’anno in cui gli elettori italiani avrebbero smesso di pagare due euro a testa l’anno per finanziare l’attività politica dei partiti “morti” (An, Forza Italia, Ds e Margherita). L’anno in cui avremmo finito di ringraziarli per aver partecipato alle elezioni politiche del 2006, quelle che portarono alla nascita della XV legislatura, defunta appena due anni più tardi, ma dal punto di vista “contabile” tuttora viva e vegeta. Ora, in piena crisi politica, e con gli strateghi dei gruppi politici che fanno i calcoli sul se sia meglio votare nel prossimo autunno o intorno a primavera, una cosa è certa: continueremo a versare fino al 2012, due euro a testa agli attuali partiti presenti in Parlamento. Che questi sopravvivano, o che decidano di divenire fondazioni.
Le cifre in gioco
Non sono spiccioli. Se dal 2006 al 2010 ogni anno ci si è dovuti sobbarcare la spesa di quasi 100 milioni di euro (99.929.149,14 ogni anno) per finanziare le strutture politiche rappresentate nella XV legislatura, dal 2008 e fino al 2012 si dovranno comunque pagare ai partiti che contano eletti in Parlamento i rimborsi elettorali della tornata politica che ha dato vita alla XVI: sono 100.618.876,18 euro l’anno (503.094.380,90 quelli complessivi riconosciuti sui cinque anni), cui si sommano i rimborsi, sempre milionari, dovuti per le consultazioni regionali ed europee. Da quando è iniziato il governo Berlusconi, solo per i rimborsi elettorali delle politiche, sono stati spesi 600 milioni di euro. E il calcolo non tiene conto dei duecento milioni, che, volenti o nolenti, si dovranno sborsare. Una cuccagna.
Quel “no” detto dagli italiani
Il 18 e 19 aprile del 1993 gli italiani si recarono in massa a votare il referendum promosso dai Radicali (non era il primo sul tema) che aboliva il “finanziamento pubblico ai partiti”. Fu quello l’ultimo anno in cui le forze politiche presenti in parlamento ricevettero soldi dallo Stato per via diretta. Il supplemento ordinario numero 232 allegato alla Gazzetta Ufficiale del 27 dicembre 1996 certifica quanto presero: Dc, Pci, Psi, Psdi e tutti i partiti non ancora travolti dall’onda di tangentopoli o dal crollo del Muro ricevettero poco più di 80 miliardi di lire, 40 milioni di euro. Paragonati ai soldi che oggi i partiti ricevono di “rimborso” c’è da sorridere. La cifra è paragonabile ai denari che le sigle politiche intascano per le regionali, ma non “una tantum”: ogni singolo anno per ogni anno di legislatura.
Ormai la torta si avvicina ai 250-300 milioni di euro annui: un fiume di denaro pubblico non giustificato dalla regola, che può anche essere condivisa, per la quale i partiti politici debbano essere finanziati dallo Stato (il rischio è quello di essere strumento di lobby, come avviene nel modello americano, o soggetti politici governati da “ricchi”, e in questo caso l’Italia già conta un limpido esempio).
Le leggi di riferimento
Dopo il referendumabrogativo, il legislatore si è posto la domanda di come fare a conciliare il voto uscito dalle urne e la sopravvivenza dei partiti medesimi. La risposta fu nella legge 515 del 1993 e nell’idea del “rimborso”, che avrebbe sostituito il “finanziamento” bocciato dagli elettori. Il primo “rimborso” ipotizzato prevedeva una cifra standard data dalla moltiplicazione di 1600 lire per tutti gli italiani contati nel censimento. Questo avrebbe forse permesso la sopravvivenza di quelle strutture politiche. Ma non bastò, se, con opportune modifiche, il contributo elettorale passò prima a 4 mila lire a “elettore” e non più a “cittadino” (la legge è la 157 del 1999) e, successivamente, a un euro a “elettore” ma “per ogni anno di legislatura”, e quindi a 5 euro a testa (poi diventati 10, dovendosi conteggiare sia Camera che Senato). Fu nel 2006, infine, che si decise di salvare anche i partiti “zombie” permettendo che ricevessero finanziamenti pubblici per l’attività politica anche quelli che non avrebbero più fatto nessuna attività politica in vista di nuove consultazioni elettorali, come saranno poi i Democratici di Sinistra e la Margherita (che confluiranno nel Pd), ma anche An e Forza Italia (che daranno vita al Pdl).
Tagli veri e presenti
Con la Finanziaria del 2007, si dette una piccola sforbiciata, si direbbe orizzontale, ai contributi che venivano erogati ai partiti. Una formula prevedeva che venissero sottratti ogni anno 20 milioni di euro alla torta complessiva. Con l’ultima Finanziaria, invece, si prova a tagliare qualcosa sul futuro. “A decorrere dal primo rinnovo del Senato della Repubblica, della Camera dei deputati, del Parlamento europeo e dei consigli regionali successivi alla data di entrata in vigore del presente provvedimento, l’importo di un euro previsto dalla legge 3 giugno 1999, n. 157, è ridotto del 10 per cento”. Questo vuol dire che dalle prossime elezioni si pagheranno 90 centesimi per ogni anno di legislatura e per ogni singola Camera, 9 euro invece di 10: uno sconto che sa di beffa mentre continuano a correre i rimborsi di consiliature vere o presunte. Una cifra che, dal 2006 a oggi, ha portato dalle casse pubbliche a quelle dei partiti politici, enti privati che partecipano della vita pubblica del Paese, una cifra di poco superiore al miliardo e mezzo di euro. Siamo sicuri che sia un prezzo giusto?
Da Il Fatto Quotidiano del 6 agosto 2010
Le cifre in gioco
Non sono spiccioli. Se dal 2006 al 2010 ogni anno ci si è dovuti sobbarcare la spesa di quasi 100 milioni di euro (99.929.149,14 ogni anno) per finanziare le strutture politiche rappresentate nella XV legislatura, dal 2008 e fino al 2012 si dovranno comunque pagare ai partiti che contano eletti in Parlamento i rimborsi elettorali della tornata politica che ha dato vita alla XVI: sono 100.618.876,18 euro l’anno (503.094.380,90 quelli complessivi riconosciuti sui cinque anni), cui si sommano i rimborsi, sempre milionari, dovuti per le consultazioni regionali ed europee. Da quando è iniziato il governo Berlusconi, solo per i rimborsi elettorali delle politiche, sono stati spesi 600 milioni di euro. E il calcolo non tiene conto dei duecento milioni, che, volenti o nolenti, si dovranno sborsare. Una cuccagna.
Quel “no” detto dagli italiani
Il 18 e 19 aprile del 1993 gli italiani si recarono in massa a votare il referendum promosso dai Radicali (non era il primo sul tema) che aboliva il “finanziamento pubblico ai partiti”. Fu quello l’ultimo anno in cui le forze politiche presenti in parlamento ricevettero soldi dallo Stato per via diretta. Il supplemento ordinario numero 232 allegato alla Gazzetta Ufficiale del 27 dicembre 1996 certifica quanto presero: Dc, Pci, Psi, Psdi e tutti i partiti non ancora travolti dall’onda di tangentopoli o dal crollo del Muro ricevettero poco più di 80 miliardi di lire, 40 milioni di euro. Paragonati ai soldi che oggi i partiti ricevono di “rimborso” c’è da sorridere. La cifra è paragonabile ai denari che le sigle politiche intascano per le regionali, ma non “una tantum”: ogni singolo anno per ogni anno di legislatura.
Ormai la torta si avvicina ai 250-300 milioni di euro annui: un fiume di denaro pubblico non giustificato dalla regola, che può anche essere condivisa, per la quale i partiti politici debbano essere finanziati dallo Stato (il rischio è quello di essere strumento di lobby, come avviene nel modello americano, o soggetti politici governati da “ricchi”, e in questo caso l’Italia già conta un limpido esempio).
Le leggi di riferimento
Dopo il referendumabrogativo, il legislatore si è posto la domanda di come fare a conciliare il voto uscito dalle urne e la sopravvivenza dei partiti medesimi. La risposta fu nella legge 515 del 1993 e nell’idea del “rimborso”, che avrebbe sostituito il “finanziamento” bocciato dagli elettori. Il primo “rimborso” ipotizzato prevedeva una cifra standard data dalla moltiplicazione di 1600 lire per tutti gli italiani contati nel censimento. Questo avrebbe forse permesso la sopravvivenza di quelle strutture politiche. Ma non bastò, se, con opportune modifiche, il contributo elettorale passò prima a 4 mila lire a “elettore” e non più a “cittadino” (la legge è la 157 del 1999) e, successivamente, a un euro a “elettore” ma “per ogni anno di legislatura”, e quindi a 5 euro a testa (poi diventati 10, dovendosi conteggiare sia Camera che Senato). Fu nel 2006, infine, che si decise di salvare anche i partiti “zombie” permettendo che ricevessero finanziamenti pubblici per l’attività politica anche quelli che non avrebbero più fatto nessuna attività politica in vista di nuove consultazioni elettorali, come saranno poi i Democratici di Sinistra e la Margherita (che confluiranno nel Pd), ma anche An e Forza Italia (che daranno vita al Pdl).
Tagli veri e presenti
Con la Finanziaria del 2007, si dette una piccola sforbiciata, si direbbe orizzontale, ai contributi che venivano erogati ai partiti. Una formula prevedeva che venissero sottratti ogni anno 20 milioni di euro alla torta complessiva. Con l’ultima Finanziaria, invece, si prova a tagliare qualcosa sul futuro. “A decorrere dal primo rinnovo del Senato della Repubblica, della Camera dei deputati, del Parlamento europeo e dei consigli regionali successivi alla data di entrata in vigore del presente provvedimento, l’importo di un euro previsto dalla legge 3 giugno 1999, n. 157, è ridotto del 10 per cento”. Questo vuol dire che dalle prossime elezioni si pagheranno 90 centesimi per ogni anno di legislatura e per ogni singola Camera, 9 euro invece di 10: uno sconto che sa di beffa mentre continuano a correre i rimborsi di consiliature vere o presunte. Una cifra che, dal 2006 a oggi, ha portato dalle casse pubbliche a quelle dei partiti politici, enti privati che partecipano della vita pubblica del Paese, una cifra di poco superiore al miliardo e mezzo di euro. Siamo sicuri che sia un prezzo giusto?
Da Il Fatto Quotidiano del 6 agosto 2010
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