Il Mezzogiorno continua ad affondare. Meno crescita (siamo tornati ai livelli del 2000) meno occupazione e più disuguaglianze. A tal proposito abbiamo sentito Amedeo Lepore, professore di Storia economica e consigliere dell’associazione.
Pochi giorni fa, il 20 luglio, è stato presentato il rapporto 2010 dello Svimez, l’Associazione per lo sviluppo dell’industria nel Mezzogiorno, dal quale emerge una situazione molto preoccupante della realtà socio-economica del meridione. Il Pil è ritornato ai livelli di dieci anni fa, in forte calo risulta poi la produzione industriale che, per l’ottavo anno consecutivo, cresce meno del centro-nord. L’occupazione è letteralmente crollata: più della metà dei posti di lavoro persi nell’ultimo anno in Italia si sono registrati nel Mezzogiorno. Preoccupano poi le condizioni di vita dei cittadini del meridionali. Uno su tre è a rischio povertà per il reddito troppo basso, il 14% delle famiglie vive, addirittura, con meno di 1.000 euro al mese. Il rapporto, infine, non ha mancato di segnalare anche diverse proposte, come quelle relativi alla politica industriale, tramite l’introduzione di una fiscalità di vantaggio e nuovi investimenti per le infrastrutture, per un ammontare complessivo di circa 35 miliardi di euro.
LA PAROLA ALL’ESPERTO – Abbiamo sentito a tal proposito, Amedeo Lepore, consigliere delloSvimez e professore associato di Storia economica presso l’Università degli studi di Bari, dove è titolare dei corsi di Storia del Marketing e Storia Economica delle Relazioni Internazionali.
Professor Lepore, dal rapporto Svimez di quest’anno traspare un quadro allarmante specie per quanto riguarda la disoccupazione giovanile. Quali fattori hanno maggiormente influito sull’aggravarsi di questa ormai endemica situazione? - Il Mezzogiorno, in un sol colpo, ha perso dieci anni. La sua crescita economica è tornata sui livelli raggiunti nel 2000. Ha certamente influito la crisi internazionale, ma permangono e si sono ulteriormente aggravati fattori preesistenti che già conoscevamo. Mi riferisco in particolare all’emigrazione pendolare, specie quella giovanile, verso le regioni del Nord Italia o dell’Europa. Un’emigrazione spesso qualificata, fatta di giovani laureati.
Si potrebbe quindi dire che al Sud studiare serve soprattutto per emigrare e la laurea è diventata una sorta di passaporto? – In un certo senso è così. Se fino a qualche tempo fa, la mobilità dei laureati garantiva un lavoro qualificato quantomeno ai più bravi, inteso come un lavoro meglio remunerato di quanto non sarebbe possibile nel Mezzogiorno, adesso, con la crisi, anche questa tendenza sembra essersi interrotta. Oggi, sempre più spesso, i giovani laureati meridionali finiscono con l’accettare lavori poco qualificati o, quantomeno, non confacenti al proprio percorso di studio. Questa emigrazione però ha un effetto devastante, poiché deprime ogni prospettiva di crescita dell’intera economia meridionale. Le migliori risorse e capacità contribuiscono allo sviluppo di altre regioni se non di altri paesi. Oltre all’emigrazione, ovviamente, ci sono altre cause, ormai diventate altrettanto strutturali, che opprimono come una pesante cappa l’economia del Sud. Mi riferisco ad un certo modo di far politica sia a livello locale, sia a livello nazionale di questi ultimi anni. Per esempio, con la fine dell’intervento straordinario, non è poi seguita o, almeno non ha funzionato come sperato, un’efficace strategia legata alla cosiddetta contrattazione programmata. Questo è un meccanismo da rivedere assolutamente.
Dallo stesso rapporto Svimez, appare che l’industria meridionale è in forte sofferenza. Solo a causa del calo delle esportazioni o c’è probabilmente dell’altro? In particolare, secondo lei, esiste una classe imprenditoriale meridionale degna di tale nome? In America, tanto per dirne una, imprenditore è sinonimo d’innovatore. Lei vede al Sud degli innovatori? - Credo dipenda molto dalla struttura e dal sistema produttivo delle regioni meridionali. Esistono piccole realtà produttive che davvero fanno innovazione, mi riferisco all’ambito della cosiddetta “Green economy” o della stessa “Information technology”. L’essere piccoli o riferirsi ad un mercato di nicchia, in sé non è un problema, anzi può essere un efficace vantaggio se si ha la capacità di fare “sistema” concentrando queste realtà produttive. Lo spiega efficacemente Chris Anderson nel suo libro “La coda lunga”, un libro che mi sento vivamente di consigliare di leggere, dove il concetto fondamentale è espresso nella formula “Da un mercato di massa a una massa di mercati”. (Anderson, sostiene che i prodotti a bassa richiesta o con ridotti volumi di vendita possono collettivamente occupare una quota di mercato equivalente o superiore a quella dei pochi bestseller, se il punto vendita o il canale di distribuzione sono abbastanza grandi. Il primo che ci viene in mente è, per esempio, proprio il web).
Nel rapporto dello Svimez si fa esplicitamente riferimento al rischio povertà per un’ampia fetta della popolazione del Meridione. Quali politiche occorrerebbero per determinare una decisa inversione di rotta? – Il problema, in questo caso, è nazionale. Manca una strategia di lungo respiro. Il Welfare state, così come l’abbiamo conosciuto almeno nel nostro paese, va rivisto. Occorre valorizzare gli Entilocali, a cominciare dalle Regioni e dai comuni che meglio conoscono le proprie realtà e meglio possono organizzare gli interventi. Ovviamente allo Stato va affidata una struttura efficace di politiche di coordinamento. Lo stato attuale è molto grave. Dalla nostra ricerca emerge che una famiglia su cinque (in Sicilia e Campania quasi una su quattro) non ha avuto i soldi per le visite mediche, il 21% per il riscaldamento, il 17% quasi ha pagato in ritardo le bollette. Il 30% dei nuclei familiari non ha avuto disponibilità economica per i vestiti, l’8% ha dovuto rinunciare a generi alimentari necessari.
Spesso, in passato, il welfare nel Sud ha assunto una deriva di tipo assistenziale, pensa che il federalismo possa apportare un cambiamento fecondo e se sì, cosa pensa del federalismo che si appresta a varare il governo Berlusconi? – Ho l’impressione che il federalismo del governo sia un finto federalismo. Il federalismo serio ha come obiettivo quello di responsabilizzare gli Enti locali, ma non può avere un intento punitivo che colpisce alcuni (vedi il Mezzogiorno) e favorisce altri (il settentrione). Per ora si è capito ancora poco di quali sono le vere intenzioni del governo. Bisognerà aspettare i decreti attuativi e vedere quanto verrà effettivamente destinato alle Regioni.
Un’ultima domanda Professor Lepore. Lei è napoletano e a Napoli l’anno prossimo si vota per eleggere il nuovo sindaco. Al di là degli schieramenti e dei candidati, qual è, a suo giudizio, la prima iniziativa che la nuova Amministrazione partenopea deve assolutamente mettere in campo? - Napoli, mi permetta questo termine, deve “sprovicializzarsi”. Deve tornare ad essere protagonista. Deve superare le divisioni che in questi anni tanto l’hanno penalizzata. Per fare questo, però, occorrono facce nuove, nuove capacità, nuove volontà. Bisogna superare l’idea di una Napoli da cartolina a favore di una Napoli protagonista, che torni a contare nel nostro paese e nello scenario internazionale.
Professore, ma lei vede in giro queste capacità e questa volontà, specie nell’ambito politico? – Ci sono senza dubbio. Devono avere il coraggio di farsi avanti e determinare in prima persona il necessario cambiamento.
Del resto, in politica come altrove nessuno regala niente.
Fonte:Giornalettismo
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