di Maria Loi - 17 luglio 2010
Roma. Il presidente del vecchio Banco Ambrosiano, Roberto Calvi, è stato ucciso, anche se non si sa chi ha voluto la sua morte. Un delitto destinato a rimanere senza colpevoli perché in troppi avrebbero voluto la morte del banchiere. Sono due dei passaggi importanti della motivazione della sentenza del processo che ha mandato assolti in secondo grado, lo scorso 7 maggio, il faccendiere sardo Flavio Carboni, l’ex cassiere della mafia Pippo Calò e l’esponente della banda della Magliana Ernesto Diotallevi per insufficienza di prove.
Dopo anni trascorsi a mettere in fila le informazioni che inizialmente aveva spinto prima la magistratura inglese (le cui indagini avevano dato esiti contrastanti perché in un primo momento, nel 1982, erano sfociate nella tesi del suicidio, successivamente invece nel 1983 avevano condotto ad un verdetto “aperto”) e poi la procura di Milano ad archiviare la morte del banchiere come suicidio, la tesi dell’omicidio inizia a prendere corpo quando nel 1992 la Cassazione decide di trasferire l’inchiesta dal capoluogo lombardo a Roma. Quest’ultima, in possesso di nuovi elementi, apre un’indagine per omicidio volontario premeditato.
Nel 1997 il gip del Tribunale di Roma, Mario Almerighi, emette un’ordinanza di custodia cautelare con l’accusa di omicidio a carico dell’ex cassiere della mafia Pippo Calò e del faccendiere sardo Flavio Carboni come presunti mandanti del delitto Calvi.
Nel dicembre del 1998 Otello Lupacchini, il gip del Tribunale di Roma subentrato ad Almerighi, ordina una nuova perizia sulle cause della morte di Calvi. È quest’ultima a stabilire che l’ex presidente del Banco Ambrosiano non si è suicidato ma è stato invece assassinato. Il 5 ottobre 2005 a Roma prende il via il processo che dopo due anni (6 giugno 2007) assolve gli imputati Pippo Calò, Ernesto Diotallevi, Flavio Carboni, Silvano Vittor e Manuela Kleinszig dall’accusa di aver ucciso Roberto Calvi, ma decreta dopo più di vent’anni una verità ormai incontrovertibile: il banchiere non si è suicidato quel 18 giugno del 1982, è stato ucciso. Come sancisce la motivazione della sentenza con la quale sono state confermate le assoluzioni (dei tre imputati) dalla prima sezione della Corte d’Appello di Roma presieduta dal giudice Guido Catenacci. In un passaggio delle oltre cento pagine delle motivazioni si legge che la Corte ha ritenuto “pacifica la causa ultima del decesso, che Roberto Calvi non si è suicidato e da ciò deduce che lo stesso è stato ucciso”. Solo in parte viene fatta luce sul delitto perché esecutori, mandanti e movente restano ancora sconosciuti.
Un giudizio quello di Catenacci che non ricalca la traccia accusatoria del pg Luca Tescaroli che per il trio aveva chiesto l’ergastolo. Secondo i giudici invece non ci sono prove sufficienti né a carico di Pippo Calò, né di Ernesto Diotallevi e di Flavio Carboni (quest’ultimo arrestato per l’affare dell’eolico in Sardegna la scorsa settimana). “Gli elementi di criticità sollevati con l’impugnazione della sentenza di primo grado, anche quando condivisibili, non sono mai apparsi decisivi”.
Secondo la sentenza, sul faccendiere sardo in particolare gravano “indizi consistenti” vanificati da elementi di segno opposto. Carboni “negli ultimi giorni di vita del banchiere ha conseguito un rapporto con la vittima”, e la stessa sera del 17 giugno 1982 si trova nello stesso albergo, il Chelsea Cloister, dove alloggia Calvi, però “la pluralità di moventi alternativi non pare concentrarne uno più specifico ed assorbente in danno di Carboni i cui interessi erano in sintonia con il mantenimento in vita del banchiere”. Per quanto riguarda Calò, le dichiarazioni dei collaboratori risultano “in contrasto tra loro” o smentite “da altre risultanze del processo”. E su Diotallevi invece c’è solo la certezza che il suo contributo fu finalizzato all’espatrio clandestino di Roberto Calvi.
Che fossero in molti ad avere ragione di temere che Calvi potesse tramutarsi in una “scheggia impazzita inaffidabile”, che potesse rivelare le informazioni di cui era in possesso sui movimenti di riciclaggio di ingenti somme di denaro provenienti dalle attività illecite collegate a Cosa Nostra trova conferma nelle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia, anche se vengono considerate dai giudici “non sufficienti”, perché “nessuno (di loro ndr) ha assistito ai fatti”.
Negli ultimi tempi Calvi non fa mistero di temere per l’incolumità propria e dei suoi familiari – come attestano le deposizioni in tal senso della moglie Clara e della figlia Anna – e a maggio del 1982 il banchiere fa allontanare dall’Italia la moglie e, pochi giorni prima di partire per quel viaggio che poi si concluderà tragicamente, fa trasferire la figlia nel Ticino, quindi a Lucena e poi a Zurigo.
Nella sua scalata Calvi si circonda di personaggi potenti e pericolosi allo stesso tempo come Michele Sindona, uomo dell’alta mafia, che vanta i contatti giusti con la massoneria, la politica, il Vaticano e la mafia. Conosce Monsignor Marcinkus, presidente dello Ior, la banca vaticana e intreccerà rapporti con Licio Gelli, capo della P2. Ma alla fine Calvi sarà solo una pedina, ne prenderà coscienza unica quando interrogato dai magistrati di Milano nel 1981 dirà: il banco non è mio, alludendo ai finanziamenti concessi a suo tempo dall’Ambrosiano alla banca vaticana e a quelle operazioni economiche poco trasparenti portate a termine in modo spregiudicato.
“Cosa Nostra – si legge a tal proposito nella motivazione della sentenza - impiegava il Banco Ambrosiano e lo Ior come tramite per massicce operazioni di riciclaggio” e “tali operazioni avvenivano ad opera di Vito Ciancimino e di Giuseppe Calò”. Come ha testimoniato a dibattimento Massimo Ciancimino, il figlio dell’ex sindaco di Palermo riferendo dei numerosi incontri tra il padre e Roberto Calvi.
Un elemento che ha spinto i giudici ad allargare la forbice sui moventi e interessi intorno alla morte di Roberto Calvi “alla platea delle persone a cui questo movente è possibile riferire”. Secondo la Corte più “soggetti” e “organizzazioni” avevano interesse ad eliminare Calvi: la mafia, la Camorra, la P2, lo Ior e i partiti politici italiani (“beneficiari delle tangenti o interessati a cambiare l’assetto del Banco Ambrosiano o a mutare gli equilibri di potere all’interno del Vaticano”). Oltre ai servizi segreti: sia quelli italiani che “hanno sempre mostrato di essere sempre informati di tutto e di aver seguito le mosse di Carboni e Calvi” che quelli britannici, “essendosi acclarato che Calvi aveva, tra l’altro, finanziato l’invio di armi ai dittatori argentini nel periodo in cui era in atto il conflitto bellico per le Falkland”.
Fonte:Antimafiaduemila
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Roma. Il presidente del vecchio Banco Ambrosiano, Roberto Calvi, è stato ucciso, anche se non si sa chi ha voluto la sua morte. Un delitto destinato a rimanere senza colpevoli perché in troppi avrebbero voluto la morte del banchiere. Sono due dei passaggi importanti della motivazione della sentenza del processo che ha mandato assolti in secondo grado, lo scorso 7 maggio, il faccendiere sardo Flavio Carboni, l’ex cassiere della mafia Pippo Calò e l’esponente della banda della Magliana Ernesto Diotallevi per insufficienza di prove.
Dopo anni trascorsi a mettere in fila le informazioni che inizialmente aveva spinto prima la magistratura inglese (le cui indagini avevano dato esiti contrastanti perché in un primo momento, nel 1982, erano sfociate nella tesi del suicidio, successivamente invece nel 1983 avevano condotto ad un verdetto “aperto”) e poi la procura di Milano ad archiviare la morte del banchiere come suicidio, la tesi dell’omicidio inizia a prendere corpo quando nel 1992 la Cassazione decide di trasferire l’inchiesta dal capoluogo lombardo a Roma. Quest’ultima, in possesso di nuovi elementi, apre un’indagine per omicidio volontario premeditato.
Nel 1997 il gip del Tribunale di Roma, Mario Almerighi, emette un’ordinanza di custodia cautelare con l’accusa di omicidio a carico dell’ex cassiere della mafia Pippo Calò e del faccendiere sardo Flavio Carboni come presunti mandanti del delitto Calvi.
Nel dicembre del 1998 Otello Lupacchini, il gip del Tribunale di Roma subentrato ad Almerighi, ordina una nuova perizia sulle cause della morte di Calvi. È quest’ultima a stabilire che l’ex presidente del Banco Ambrosiano non si è suicidato ma è stato invece assassinato. Il 5 ottobre 2005 a Roma prende il via il processo che dopo due anni (6 giugno 2007) assolve gli imputati Pippo Calò, Ernesto Diotallevi, Flavio Carboni, Silvano Vittor e Manuela Kleinszig dall’accusa di aver ucciso Roberto Calvi, ma decreta dopo più di vent’anni una verità ormai incontrovertibile: il banchiere non si è suicidato quel 18 giugno del 1982, è stato ucciso. Come sancisce la motivazione della sentenza con la quale sono state confermate le assoluzioni (dei tre imputati) dalla prima sezione della Corte d’Appello di Roma presieduta dal giudice Guido Catenacci. In un passaggio delle oltre cento pagine delle motivazioni si legge che la Corte ha ritenuto “pacifica la causa ultima del decesso, che Roberto Calvi non si è suicidato e da ciò deduce che lo stesso è stato ucciso”. Solo in parte viene fatta luce sul delitto perché esecutori, mandanti e movente restano ancora sconosciuti.
Un giudizio quello di Catenacci che non ricalca la traccia accusatoria del pg Luca Tescaroli che per il trio aveva chiesto l’ergastolo. Secondo i giudici invece non ci sono prove sufficienti né a carico di Pippo Calò, né di Ernesto Diotallevi e di Flavio Carboni (quest’ultimo arrestato per l’affare dell’eolico in Sardegna la scorsa settimana). “Gli elementi di criticità sollevati con l’impugnazione della sentenza di primo grado, anche quando condivisibili, non sono mai apparsi decisivi”.
Secondo la sentenza, sul faccendiere sardo in particolare gravano “indizi consistenti” vanificati da elementi di segno opposto. Carboni “negli ultimi giorni di vita del banchiere ha conseguito un rapporto con la vittima”, e la stessa sera del 17 giugno 1982 si trova nello stesso albergo, il Chelsea Cloister, dove alloggia Calvi, però “la pluralità di moventi alternativi non pare concentrarne uno più specifico ed assorbente in danno di Carboni i cui interessi erano in sintonia con il mantenimento in vita del banchiere”. Per quanto riguarda Calò, le dichiarazioni dei collaboratori risultano “in contrasto tra loro” o smentite “da altre risultanze del processo”. E su Diotallevi invece c’è solo la certezza che il suo contributo fu finalizzato all’espatrio clandestino di Roberto Calvi.
Che fossero in molti ad avere ragione di temere che Calvi potesse tramutarsi in una “scheggia impazzita inaffidabile”, che potesse rivelare le informazioni di cui era in possesso sui movimenti di riciclaggio di ingenti somme di denaro provenienti dalle attività illecite collegate a Cosa Nostra trova conferma nelle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia, anche se vengono considerate dai giudici “non sufficienti”, perché “nessuno (di loro ndr) ha assistito ai fatti”.
Negli ultimi tempi Calvi non fa mistero di temere per l’incolumità propria e dei suoi familiari – come attestano le deposizioni in tal senso della moglie Clara e della figlia Anna – e a maggio del 1982 il banchiere fa allontanare dall’Italia la moglie e, pochi giorni prima di partire per quel viaggio che poi si concluderà tragicamente, fa trasferire la figlia nel Ticino, quindi a Lucena e poi a Zurigo.
Nella sua scalata Calvi si circonda di personaggi potenti e pericolosi allo stesso tempo come Michele Sindona, uomo dell’alta mafia, che vanta i contatti giusti con la massoneria, la politica, il Vaticano e la mafia. Conosce Monsignor Marcinkus, presidente dello Ior, la banca vaticana e intreccerà rapporti con Licio Gelli, capo della P2. Ma alla fine Calvi sarà solo una pedina, ne prenderà coscienza unica quando interrogato dai magistrati di Milano nel 1981 dirà: il banco non è mio, alludendo ai finanziamenti concessi a suo tempo dall’Ambrosiano alla banca vaticana e a quelle operazioni economiche poco trasparenti portate a termine in modo spregiudicato.
“Cosa Nostra – si legge a tal proposito nella motivazione della sentenza - impiegava il Banco Ambrosiano e lo Ior come tramite per massicce operazioni di riciclaggio” e “tali operazioni avvenivano ad opera di Vito Ciancimino e di Giuseppe Calò”. Come ha testimoniato a dibattimento Massimo Ciancimino, il figlio dell’ex sindaco di Palermo riferendo dei numerosi incontri tra il padre e Roberto Calvi.
Un elemento che ha spinto i giudici ad allargare la forbice sui moventi e interessi intorno alla morte di Roberto Calvi “alla platea delle persone a cui questo movente è possibile riferire”. Secondo la Corte più “soggetti” e “organizzazioni” avevano interesse ad eliminare Calvi: la mafia, la Camorra, la P2, lo Ior e i partiti politici italiani (“beneficiari delle tangenti o interessati a cambiare l’assetto del Banco Ambrosiano o a mutare gli equilibri di potere all’interno del Vaticano”). Oltre ai servizi segreti: sia quelli italiani che “hanno sempre mostrato di essere sempre informati di tutto e di aver seguito le mosse di Carboni e Calvi” che quelli britannici, “essendosi acclarato che Calvi aveva, tra l’altro, finanziato l’invio di armi ai dittatori argentini nel periodo in cui era in atto il conflitto bellico per le Falkland”.
Fonte:Antimafiaduemila
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