di Giovanni Maria Bellu
Noi de l’Unità già conoscevamo quell’emozione per averla provata all’inizio di aprile quando venimmo qua, all’Aquila, con la nostra redazione-mobile, in occasione del primo anniversario del terremoto. Ieri l’hanno provata tanti altri colleghi che hanno visto per la prima volta la “zona rossa” e le sue macerie. Un’emozione rara per un giornalista: la sorpresa. Ancor più rara, e ancor più strana, se si considera che il terremoto dell’Aquila ha avuto, specie nei primi mesi, una copertura mediatica straordinaria: migliaia di articoli, centinaia di ore di televisione. Con una tale mole di informazioni chiunque, e a maggior ragione un professionista dell’informazione, avrebbe dovuto avere un’idea molto precisa dello “stato dei luoghi”. E dunque, nel visitarli, non avrebbe dovuto sorprendersi.
Magari restarne colpito, sì, perché vedere è un’altra cosa. Ma non sorprendersi. A meno di non scoprire una realtà nuova e, per alcuni suoi aspetti essenziali, sconosciuta. Il sindaco Massimo Cialente stava per avviare il tour dei giornalisti tra la macerie, quando le agenzie di stampa hanno diffuso il testo di una lettera di Guido Bertolaso il quale suggeriva ai giornalisti di non limitarsi a guardare le macerie e li esortava a soffermarsi anche sulle grandi cose che sono state già fatte. In definitiva, chiedeva ai giornalisti di fare quanto il principale telegiornale pubblico e il principale telegiornale privato (non a caso le loro telecamere ieri erano assenti) hanno fatto in questi quattordici mesi: nascondere la realtà e assecondare l’uso propagandistico del terremoto. Chissà se il sottosegretario alla protezione civile, mentre scriveva quell’incredibile appello alla stampa, era consapevole di rendere una pubblica confessione. O se invece, obnubilato egli stesso dalla disinformazione televisiva, davvero crede che le cosiddette “grandi cose” realizzate coi fiumi di denaro della gestione emergenziale possano nascondere il dramma degli aquilani: decine di migliaia di persone che cominciano seriamente a temere che la loro città sia entrata in un coma irreversibile. Destinata, come ha detto Cialente, a diventare una moderna Pompei. L’impresa della ricostruzione dell’Aquila è enorme. I costi, già altissimi, possono apparire inarrivabili in una fase di così grave crisi economica. Ma a tutto questo si aggiunge il peso dell’uso irresponsabile del terremoto.
Col presidente del Consiglio che, un anno fa, nel pieno dello scandalo delle escort, tentava di rifarsi una faccia e una credibilità guidando tra le macerie i grandi della terra. E con le sue televisioni, pubbliche e private, che oggi - smantellato il palcoscenico - nascondono la realtà e accreditano, nell’opinione pubblica nazionale l’idea che gli aquilani siano degli incontentabili e lamentosi rompiscatole. Ci vuole molta pazienza e molta saggezza per sopportare tutto questo. E anche per sopportare un governo che (altro passaggio della missiva di Bertolaso) candidamente dice che sono state le comunità locali e chiedere di avere la gestione della “ricostruzione pesante” (che poi è, semplicemente, la ricostruzione). In parole povere: l’emergenza - con adeguate risorse economiche - è stata gestita dal governo sotto i riflettori. La ricostruzione - senza risorse - spetta al comune. E i riflettori o devono restare spenti o, nel caso in cui proprio sia necessario accenderli, vanno puntati sulle “grandi cose” realizzate dal governo. Fino al punto - è quanto è successo ieri - di costringere un sindaco a improvvisarsi cicerone tra le macerie della sua città per tentare di ristabilire, almeno parzialmente, la realtà dei fatti. Ma Bertolaso sa cosa è la vergogna?
Fonte: L'Unità
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