lunedì 31 maggio 2010

Unità d’Italia, lo scotto pagato dalla Sicilia


Di Salvatore Agueci

Lo scotto pagato dalla Sicilia.

La ricorrenza dell’11 maggio per le celebrazioni dei 150 anni dell’unificazione d’Italia, da quando ebbe inizio (lo sbarco dei Mille a Marsala, la proclamazione della Dittatura a Salemi di Garibaldi in nome del Re Vittorio Emanuele II, la battaglia di Calatafimi contro i Borboni), e gli interventi del Capo dello Stato Giorgio Napolitano, mi hanno spinto a una serie di riflessioni che affido alla considerazione dei lettori.

Ha fatto bene Napolitano a collegare gli avvenimenti di 150 anni fa con la situazione politica e sociale attuale.

«Chi si prova a immaginare – ha affermato il Capo dello Stato - o prospettare una nuova frammentazione dello Stato nazionale, attraverso secessioni o separazioni comunque concepite, coltiva un autentico salto nel buio».

E rispondendo all’intervento del Sindaco di Marsala Carini e a tutte le attese del Mezzogiorno, Napolitano ha aggiunto: «Una salda unità è la sola garanzia per il nostro comune futuro».

Lanciando, poi, un monito al Nord e a chi pensa in termini di secessione, il Capo dello Stato, con fermezza, ha detto: «Chiedo a tutte le forze responsabili che operano nel Nord e lo rappresentano, di riflettere: l’Italia deve crescere, ma può riuscire solo se si metteranno a frutto le energie inutilizzate del Meridione».

Il Presidente ricordando l’apporto plurisecolare dato dal Meridione affinché l’Italia fosse costituita ha aggiunto: «Le celebrazioni del centocinquantesimo anniversario offrono l’occasione per mettere in luce gli apporti della Sicilia e del Mezzogiorno a una storia e a una cultura comuni che affondano le radici in un passato plurisecolare. Di quel patrimonio, culminato nelle conquiste del 1860-1861, come meridionali possiamo essere fieri: non c’è spazio, a questo proposito, per pregiudizi e luoghi comuni che, purtroppo, ancora o nuovamente, circolano nell’ignoranza di quel che il Mezzogiorno ha dato all’Italia in momenti storici essenziali».

In queste parole c’è l’invito, mosso ai Siciliani, a una non resa, c’è l’incitamento, come l’aedo nelle battaglie greche, a una riscossa.

Per noi è motivo di orgoglio per quanto il Capo dello Stato ci ha ricordato, ma da stimolo per richiamare alla memoria l’apporto che la Sicilia ha dato nella Storia.

Quando nel 491 a. C. Gerone di Siracusa inviò il primo carico di grano a Roma, la Sicilia cominciò così a essere considerata “il granaio di Roma”.

Il V secolo a. C. segnò un periodo fulgido per la Sicilia greca. Si costruirono i templi d’Agrigento, alla corte di Gerone soggiornarono a lungo il filosofo Senofane e il poeta Bacchilide. Al tempo l’influenza della Sicilia sulla Grecia era tale che lo storico Anton Gardner ha definito la Sicilia del tempo “l’America del mondo antico”. Grande fu lo splendore culturale della Sicilia greca in questo periodo, grazie alla sua originalità anche nei confronti della cultura greca; fiorirono tutte le arti.

Nel 210 a. C. la Sicilia divenne provincia romana e nel 535 d. C., con l’avvento dei Bizantini, termina il più lungo periodo dei dominatori in Sicilia. Perché Roma ebbe mire espansionistiche in Sicilia? Come dice Santi Correnti nel suo saggio “Roma e la Sicilia”, i motivi furono tre: politico, l’egemonia nella guerra con Cartagine era logico che si risolvesse proprio in Sicilia; economico, Roma aveva bisogno dei beni naturali siciliani, sia per le truppe sia per il popolo romano; strategico, la Sicilia era il ponte ideale per la conquista dell’Africa.

Del periodo svevo è da ricordare Federico II (1194-1250). Divenuto imperatore del Sacro Romano Impero, egli meritò dai suoi contemporanei l’appellativo di “la meraviglia del mondo”, per la sua vasta cultura nel campo delle lettere, delle lingue, della scienza, in particolare dell’astrologia. Alla sua corte nacquero la letteratura italiana e la “Scuola poetica siciliana”. In lui confluirono tre civiltà, quella latino-germanica, la siculo-normanna e l’araba.

Il 21 ottobre 1860 si votò l’annessione alla monarchia sabauda: lo Statuto Albertino e la legislazione piemontese diventarono legge vigente. I parlamentari siciliani divennero parte politica dell’Italia unita.

Ma l’Unità non tarderà a rivelarsi una delusione per i Siciliani. Su di loro si abbatté un enorme macigno che né il tempo, né l’Autonomia contribuiranno a sollevare. Eppure la Sicilia aveva creduto alla costruzione della Patria unica.

Appoggiò, infatti, l’impresa di Garibaldi sull’Aspromonte nel 1862, mandò i suoi figli a morire nelle guerre del 1866, in quelle d’Africa del 1895 e 1911 e contribuì con 60.000 soldati morti nella I Guerra mondiale.

I Siciliani abituati a pagare l’unica imposta sul reddito, si videro adesso costretti a pagare qualsiasi genere di tassa, quella comunale, provinciale, l’addizionale, il focatico (tassa di famiglia), la tassa sul macinato (che colpiva i poveri), e la tassa di successione; quello che non sopportarono fu, in ogni caso, la leva militare obbligatoria (contestata a Garibaldi), poiché il servizio militare era volontario.

Il carico fiscale superò ogni previsione, la Sicilia che pur aveva contribuito alla composizione del capitale liquido dell’Italia con 443 milioni su 668, pari al 65,7%, si vide in malo modo ricompensata dallo Stato, che spendeva in Liguria 71,15 lire annue per abitante, mentre in Sicilia si accontentava di darne solo 19,88.

Alla Sicilia furono estese le leggi eversive Siccardi per la vendita delle proprietà ecclesiastiche. Fu un colpo pesante per la Sicilia e per l’economia dell’Isola: i due terzi delle terre erano, infatti, in possesso delle istituzioni religiose che davano pane e lavoro alla gente: fu l’ultimo colpo inflitto al feudalesimo, ma anche all’opportunità occupazionale.

La vendita dei beni fatta alla borghesia capitalistica dell’Isola procurò oltre 600 milioni, che non furono spesi per la Sicilia stessa, ma furono incassati dallo Stato; il 16 marzo 1876 il bolognese Marco Minghetti poté dichiarare trionfalmente il pareggio del bilancio dello Stato. Gli effetti furono disastrosi: la borghesia non poteva apportare migliorie al latifondo, né pagare i salari ai braccianti. Si cadde in un disfattismo economico-sociale.

Iniziò il triste fenomeno dell’emigrazione in massa che in cento anni di storia ha portato verso le Americhe e i Paesi Europei cinque milioni di Siciliani, di cui un milione con passaporto italiano: interi paesi si spopolarono, le campagne si svuotarono, le famiglie furono private degli affetti più cari. Ironia della sorte: le rimesse degli immigrati servirono all’industria italiana per l’acquisto delle materie prime.

Nel 1861 mentre la media della popolazione attiva in Sicilia era del 52%, in Piemonte del 17% e in Lombardia del 26%, nel 1936, durante il fascismo, la Sicilia aveva appena che il 34% della forza lavoro, mentre in Piemonte era salita al 53%, in Lombardia al 48%.

Dal 1928 al 1938 mentre in Italia si costruirono 1800 chilometri d’acquedotti, in Sicilia appena che 15 chilometri; neppure un metro ferroviario era elettrificato.

Ci fu un tentativo di rivalsa sociale in Sicilia, fu con i “Fasci siciliani dei lavoratori”, fondati nel 1891 dal catanese Giuseppe De Felice, ma furono stroncati fin dal primo nascere. Le conseguenze: non è stato prodotto sviluppo in 150 anni d’Unità d’Italia, aumentando il fenomeno emigratorio fino ai nostri giorni. Le ondate migratorie continuarono, infatti, dopo la II Guerra mondiale e negli anni sessanta, dirigendosi verso l’Australia e ancora in Canada ed Europa.

Tuttora i nostri giovani partono verso il Centro-Nord dell’Italia e verso i paesi europei. A questo fenomeno, divenuto elemento portante della nostra storia, si aggiunge, ai nostri giorni, la grande immigrazione dal Sud del mondo.

I siciliani hanno, quindi, contribuito, in termini umani e lavorativi, allo sviluppo di tutto il Settentrione d’Italia, esportando menti, cuori e braccia perché il Nord si sviluppasse e progredisse. Ma la storia si ripete. Adesso stiamo assistendo a un’usurpazione dei capitali da parte delle banche del Nord. Se non fosse così quale interesse avevano i colossi bancari italiani per acquistare in questi ultimi anni le banche siciliane, impossessandosi, ancora una volta, dei loro risparmi e investendoli al Nord?

Che si gridi pure contro il Meridione, che si faccia ventilare lo spettro della “diversità” ma che si riconosca quanto Oreste del Buono, toscano, ha scritto: «Da almeno due secoli, per quel che riguarda l’interpretazione della società in cui viviamo, la cultura italiana senza l’apporto siciliano, è letteralmente impossibile. L’Italia non è in grado di fare a meno della Sicilia. L’identità degli Italiani dipende in gran parte da quella dei Siciliani».

Ben venga, allora, il monito del Capo dello Stato non solo per celebrare l’Unificazione dell’Italia, ma perché si lavori affinché ci sia un solo Paese e tutto, dai capitali alla cultura, siano distribuiti in modo armonico e non secessionistico.

Fonte:BlogSicilia

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Di Salvatore Agueci

Lo scotto pagato dalla Sicilia.

La ricorrenza dell’11 maggio per le celebrazioni dei 150 anni dell’unificazione d’Italia, da quando ebbe inizio (lo sbarco dei Mille a Marsala, la proclamazione della Dittatura a Salemi di Garibaldi in nome del Re Vittorio Emanuele II, la battaglia di Calatafimi contro i Borboni), e gli interventi del Capo dello Stato Giorgio Napolitano, mi hanno spinto a una serie di riflessioni che affido alla considerazione dei lettori.

Ha fatto bene Napolitano a collegare gli avvenimenti di 150 anni fa con la situazione politica e sociale attuale.

«Chi si prova a immaginare – ha affermato il Capo dello Stato - o prospettare una nuova frammentazione dello Stato nazionale, attraverso secessioni o separazioni comunque concepite, coltiva un autentico salto nel buio».

E rispondendo all’intervento del Sindaco di Marsala Carini e a tutte le attese del Mezzogiorno, Napolitano ha aggiunto: «Una salda unità è la sola garanzia per il nostro comune futuro».

Lanciando, poi, un monito al Nord e a chi pensa in termini di secessione, il Capo dello Stato, con fermezza, ha detto: «Chiedo a tutte le forze responsabili che operano nel Nord e lo rappresentano, di riflettere: l’Italia deve crescere, ma può riuscire solo se si metteranno a frutto le energie inutilizzate del Meridione».

Il Presidente ricordando l’apporto plurisecolare dato dal Meridione affinché l’Italia fosse costituita ha aggiunto: «Le celebrazioni del centocinquantesimo anniversario offrono l’occasione per mettere in luce gli apporti della Sicilia e del Mezzogiorno a una storia e a una cultura comuni che affondano le radici in un passato plurisecolare. Di quel patrimonio, culminato nelle conquiste del 1860-1861, come meridionali possiamo essere fieri: non c’è spazio, a questo proposito, per pregiudizi e luoghi comuni che, purtroppo, ancora o nuovamente, circolano nell’ignoranza di quel che il Mezzogiorno ha dato all’Italia in momenti storici essenziali».

In queste parole c’è l’invito, mosso ai Siciliani, a una non resa, c’è l’incitamento, come l’aedo nelle battaglie greche, a una riscossa.

Per noi è motivo di orgoglio per quanto il Capo dello Stato ci ha ricordato, ma da stimolo per richiamare alla memoria l’apporto che la Sicilia ha dato nella Storia.

Quando nel 491 a. C. Gerone di Siracusa inviò il primo carico di grano a Roma, la Sicilia cominciò così a essere considerata “il granaio di Roma”.

Il V secolo a. C. segnò un periodo fulgido per la Sicilia greca. Si costruirono i templi d’Agrigento, alla corte di Gerone soggiornarono a lungo il filosofo Senofane e il poeta Bacchilide. Al tempo l’influenza della Sicilia sulla Grecia era tale che lo storico Anton Gardner ha definito la Sicilia del tempo “l’America del mondo antico”. Grande fu lo splendore culturale della Sicilia greca in questo periodo, grazie alla sua originalità anche nei confronti della cultura greca; fiorirono tutte le arti.

Nel 210 a. C. la Sicilia divenne provincia romana e nel 535 d. C., con l’avvento dei Bizantini, termina il più lungo periodo dei dominatori in Sicilia. Perché Roma ebbe mire espansionistiche in Sicilia? Come dice Santi Correnti nel suo saggio “Roma e la Sicilia”, i motivi furono tre: politico, l’egemonia nella guerra con Cartagine era logico che si risolvesse proprio in Sicilia; economico, Roma aveva bisogno dei beni naturali siciliani, sia per le truppe sia per il popolo romano; strategico, la Sicilia era il ponte ideale per la conquista dell’Africa.

Del periodo svevo è da ricordare Federico II (1194-1250). Divenuto imperatore del Sacro Romano Impero, egli meritò dai suoi contemporanei l’appellativo di “la meraviglia del mondo”, per la sua vasta cultura nel campo delle lettere, delle lingue, della scienza, in particolare dell’astrologia. Alla sua corte nacquero la letteratura italiana e la “Scuola poetica siciliana”. In lui confluirono tre civiltà, quella latino-germanica, la siculo-normanna e l’araba.

Il 21 ottobre 1860 si votò l’annessione alla monarchia sabauda: lo Statuto Albertino e la legislazione piemontese diventarono legge vigente. I parlamentari siciliani divennero parte politica dell’Italia unita.

Ma l’Unità non tarderà a rivelarsi una delusione per i Siciliani. Su di loro si abbatté un enorme macigno che né il tempo, né l’Autonomia contribuiranno a sollevare. Eppure la Sicilia aveva creduto alla costruzione della Patria unica.

Appoggiò, infatti, l’impresa di Garibaldi sull’Aspromonte nel 1862, mandò i suoi figli a morire nelle guerre del 1866, in quelle d’Africa del 1895 e 1911 e contribuì con 60.000 soldati morti nella I Guerra mondiale.

I Siciliani abituati a pagare l’unica imposta sul reddito, si videro adesso costretti a pagare qualsiasi genere di tassa, quella comunale, provinciale, l’addizionale, il focatico (tassa di famiglia), la tassa sul macinato (che colpiva i poveri), e la tassa di successione; quello che non sopportarono fu, in ogni caso, la leva militare obbligatoria (contestata a Garibaldi), poiché il servizio militare era volontario.

Il carico fiscale superò ogni previsione, la Sicilia che pur aveva contribuito alla composizione del capitale liquido dell’Italia con 443 milioni su 668, pari al 65,7%, si vide in malo modo ricompensata dallo Stato, che spendeva in Liguria 71,15 lire annue per abitante, mentre in Sicilia si accontentava di darne solo 19,88.

Alla Sicilia furono estese le leggi eversive Siccardi per la vendita delle proprietà ecclesiastiche. Fu un colpo pesante per la Sicilia e per l’economia dell’Isola: i due terzi delle terre erano, infatti, in possesso delle istituzioni religiose che davano pane e lavoro alla gente: fu l’ultimo colpo inflitto al feudalesimo, ma anche all’opportunità occupazionale.

La vendita dei beni fatta alla borghesia capitalistica dell’Isola procurò oltre 600 milioni, che non furono spesi per la Sicilia stessa, ma furono incassati dallo Stato; il 16 marzo 1876 il bolognese Marco Minghetti poté dichiarare trionfalmente il pareggio del bilancio dello Stato. Gli effetti furono disastrosi: la borghesia non poteva apportare migliorie al latifondo, né pagare i salari ai braccianti. Si cadde in un disfattismo economico-sociale.

Iniziò il triste fenomeno dell’emigrazione in massa che in cento anni di storia ha portato verso le Americhe e i Paesi Europei cinque milioni di Siciliani, di cui un milione con passaporto italiano: interi paesi si spopolarono, le campagne si svuotarono, le famiglie furono private degli affetti più cari. Ironia della sorte: le rimesse degli immigrati servirono all’industria italiana per l’acquisto delle materie prime.

Nel 1861 mentre la media della popolazione attiva in Sicilia era del 52%, in Piemonte del 17% e in Lombardia del 26%, nel 1936, durante il fascismo, la Sicilia aveva appena che il 34% della forza lavoro, mentre in Piemonte era salita al 53%, in Lombardia al 48%.

Dal 1928 al 1938 mentre in Italia si costruirono 1800 chilometri d’acquedotti, in Sicilia appena che 15 chilometri; neppure un metro ferroviario era elettrificato.

Ci fu un tentativo di rivalsa sociale in Sicilia, fu con i “Fasci siciliani dei lavoratori”, fondati nel 1891 dal catanese Giuseppe De Felice, ma furono stroncati fin dal primo nascere. Le conseguenze: non è stato prodotto sviluppo in 150 anni d’Unità d’Italia, aumentando il fenomeno emigratorio fino ai nostri giorni. Le ondate migratorie continuarono, infatti, dopo la II Guerra mondiale e negli anni sessanta, dirigendosi verso l’Australia e ancora in Canada ed Europa.

Tuttora i nostri giovani partono verso il Centro-Nord dell’Italia e verso i paesi europei. A questo fenomeno, divenuto elemento portante della nostra storia, si aggiunge, ai nostri giorni, la grande immigrazione dal Sud del mondo.

I siciliani hanno, quindi, contribuito, in termini umani e lavorativi, allo sviluppo di tutto il Settentrione d’Italia, esportando menti, cuori e braccia perché il Nord si sviluppasse e progredisse. Ma la storia si ripete. Adesso stiamo assistendo a un’usurpazione dei capitali da parte delle banche del Nord. Se non fosse così quale interesse avevano i colossi bancari italiani per acquistare in questi ultimi anni le banche siciliane, impossessandosi, ancora una volta, dei loro risparmi e investendoli al Nord?

Che si gridi pure contro il Meridione, che si faccia ventilare lo spettro della “diversità” ma che si riconosca quanto Oreste del Buono, toscano, ha scritto: «Da almeno due secoli, per quel che riguarda l’interpretazione della società in cui viviamo, la cultura italiana senza l’apporto siciliano, è letteralmente impossibile. L’Italia non è in grado di fare a meno della Sicilia. L’identità degli Italiani dipende in gran parte da quella dei Siciliani».

Ben venga, allora, il monito del Capo dello Stato non solo per celebrare l’Unificazione dell’Italia, ma perché si lavori affinché ci sia un solo Paese e tutto, dai capitali alla cultura, siano distribuiti in modo armonico e non secessionistico.

Fonte:BlogSicilia

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