Di Gianpaolo Santoro Un sindaco leghista per il Sud "Ora un sindaco leghista per Napoli". Ad affermarlo all'indomani dell'ultimo successo elettorale, quello delle Regionali, è il ministro dell'Interno Roberto Maroni. Una boutade? Non proprio. Per rendersene conto non servono dotte analisi degli intellettuali locali. Basta ascoltare i discorsi nei taxi e negli autobus. Burocrazia e cattiva amministrazione, servizi carenti, mancanza di senso civico: anche nel cittadino comune si fa strada l'idea che i mali cosiddetti endemici di Napoli non siano da attribuire a un destino maligno, ma il prodotto di una storia sbagliata. Centocinquanta anni di storia di unità che hanno registrato clamorosi fallimenti: lo Stato prefettizio, burocratico, uniforme, iper-centralistico, finito con il fascismo e lo Stato delle asfittiche autonomie regionali della Costituzione del '48. Ambedue questi assetti istituzionali si sono dimostrati non idonei a esprimere una efficace politica di sviluppo per il Sud. E ciò che impressiona particolarmente è che il divario tra le due Italie non solo non è stato eliminato ma in molti campi si è addirittura tragicamente aggravato. E quello che colpisce ancora di più è che sembra un destino ineluttabile.Il divaro aumenta. Comunque Prendiamo ad esempio gli anni che vanno dal 1995 al 2007, periodo in cui si è verificata a livello nazionale, secondo una ricerca dell'Istituto di studi e analisi economica (Isae) una notevole riduzione della disoccupazione, precipitata dall'11,2 al 6,1 per cento. Un risultato estremamente positivo che però ha fatto crescere, ancora una volta, il divario occupazionale tra il Sud e il Centro-Nord, visto che la maggior parte dell'offerta lavorativa era tutta nel Settentrione e in tanti hanno risalito il Paese per avere uno stipendio a fine mese. E prendiamo, viceversa, il fenomeno contrario, guardando ai dati pubblicati dall'Istat sui riflessi che la grande crisi ha avuto nel fragile tessuto industriale del Mezzogiorno. Dal primo gennaio 2008 a settembre 2009 'è stata una perdita secca del 10 per cento dei posti di lavoro nell'industria delle regioni meridionali, contro la media del 3 per cento nazionale. In pratica circa 90.000 posti di lavoro in meno, di cui 26.000 nella sola Campania. Quello che lascia interdetti, insomma, è che comunque vadano le cose (diminuisca o aumenti la disoccupazione) il divario fra il Sud e il resto del Paese comunque cresce. Non c'è via d'uscita, è come essere in un vicolo cieco.
[emigrazione] L'emigrazione interna, dal Sud verso il Nord del Paese, comincia dopo la seconda guerra mondiale. Negli anni che vanno dal 1952 al 1974, circa 4,2 milioni di persone si dirigono dal Sud per quasi due terzi verso il Centro-Nord del Paese. L'esodo raggiunge la massima intensità nei primi anni '60, quando il Paese attraversa una fase di intenso sviluppo, il boom economico che prende il nome di "miracolo italiano" e che vide circa 240 mila persone l'anno lasciare i campi, il paese, la terra, in cerca di futuro e di fortuna. Un altro picco lo si registra fra il 1997 e il 2008, quando i meridionali emigrati al Nord in cerca di un lavoro raggiungono quota 700 mila. Vale a dire come se tutta Palermo avesse fatto valigie e bagagli e si fosse trasferita nel Settentrione.
[la fuga dei cervelli] Un altro aspetto di questo problema è rappresentato dalla quota di emigranti composta da giovani: l'80 per cento ha meno di quarantacinque anni, circa la metà ha un diploma, uno su quattro è laureato. Se ne vanno cervelli, non braccia. In particolare partono sempre di più i laureati con il massimo dei voti: nel 2004 erano il 25 per cento, tre anni dopo sono diventati il 38 per cento. E allora, ecco emergere, esplodere un altro aspetto, del contenzioso fra la parte ricca e quella eternamente povera del paese. Per dirla più chiaramente basta citare uno dei padri del pensiero politico meridionale, Manlio Rossi Doria. "Se si tiene, poi, conto del fatto che a partire sono stati per lo più uomini giovani, formatisi a carico delle loro famiglie, si può dire che il Mezzogiorno abbia ceduto o regalato alle regioni del Nord Italia e ai paesi europei un capitale di enormi dimensioni, fornendo loro lo strumento principale per il rapido sviluppo industriale di quegli anni. Applicando agli emigrati i metodi di calcolo usati nella stima degli animali da lavoro, ogni uomo è costato a chi lo ha allevato, e quindi alle regioni meridionali, da 5 a 8 milioni di lire. Il capitale ceduto, pertanto, può essere valutato tra i 20 e i 30 mila miliardi di lire, equivalenti al doppio di quanto lo Stato ha speso nel Mezzogiorno dal 1950 in poi". Una provocazione? Si ma è la verità, il ragionamento non fa una grinza. Un individuo, nei primi anni di vita, non è produttivo. Rappresenta per la società un costo sia in termini di consumi privati (qui intesi come i consumi delle famiglie che acquistano beni atti a soddisfare le esigenze indotte dal processo di crescita di un individuo) sia in termini di formazione (erogata dall'operatore pubblico come da quello privato) sia in termini di servizi sociali. Questi costi si possono valutare come un investimento che la collettività affronta al fine di approvvigionarsi delle risorse umane necessarie al proprio sviluppo futuro. Secondo quanto evidenziano Dario Scalella e Franco Balestrieri in uno studio pubblicato nel volume "Domani a Mezzogiorno" curato da Gianni Pittella, eurodeputato del Pd e vicepresidente del Parlamento europeo, moltiplicando i valori a seconda del livello di formazione per il saldo netto degli emigranti dal Sud al Nord del Paese nell'ultimo anno, deriva un danno per il Mezzogiorno di una cifra impressionante: 13.228.869.000. Una cifra a undici zeri che per la teoria dei vasi comunicanti è finita dritta dritta nella cassaforte del Nord Italia. E la regione leader di questo rosso di bilancio, neanche a dirlo, è la Campania con 5.965.965.000 euro
[Scacco matto al Sud in cinque mosse] Scacco matto al Sud in cinque mosse Nelle ragioni del non decollo dell'economia italiana, del mancato risanamento delle aeree più povere e del crescere del debito pubblico, spesso si confondono vittime e carnefici. Eppure la storia è lì, a portata di tutti, semplice e inconfutabile. Lo scacco matto al Sud avviene in un secolo e mezzo con cinque mosse. La partita comincia con un Meridione ricco e un Settentrione povero. E finisce clamorosamente a ruoli invertiti. Inesorabilmente. Prima mossa. L'abolizione del protezionismo. E così che il Sud che al momento dell'unità d'Italia, poteva contare una importante e florida industria metalmeccanica, tessile, della carta, del vetro, dei pianoforti, non solo ha finito col perdere tutte le posizioni di mercato conquistate ma, a poco a poco, si è trovato definitivamente spiazzato. Senza tariffe doganali pesanti l'industria meridionale è crollata di fronte alla concorrenza. Qualcosa tipo l'effetto-Cina dei giorni nostri. Seconda mossa. Sembra di assistere a un gioco di prestigio. Messo in ginocchio una prima volta con l'abolizione delle tariffe doganali, questa volta il Sud va in crisi per una improvvisa immissione proprio di nuove tariffe doganali. Una doppia beffa. Crollata l'industria, il Sud sì concentra sull'agricoltura, comparto che ha uno sviluppo vertiginoso e determinante basato sulle esportazioni favorite da un mercato libero, senza vincoli. Vanno, soprattutto, molto bene le esportazioni all'estero. Ma all'improvviso il governo ripristina le tariffe doganali, perché l'industria settentrionale ha bisogno di essere protetta. E così, dopo l'industria è distrutta anche l'agricoltura meridionale: esportazioni più che dimezzate, economia in ginocchio, banche alla deriva. "Una vigliaccata". Così Giustino Fortunato fotografa la decisione del governo. Terza mossa. Agli inizi del 1900, quando pallidamente il Mezzogiorno accenna a una timida ripresa sullo slancio di alcune leggi speciali, ecco che l'Italia sulla dissennata spinta centro-settentrionale alla ricerca di gloria e di nuovi mercati si imbarca nell'impresa della conquista della Libia. Il risultato? Finanze dissanguate, leggi speciali interrotte e Sud ritornato al punto di partenza come nel gioco dell'Oca. Strade, ferrovie, acquedotti, fognature, scuole, università, gli obiettivi delle leggi speciali, tutto resta sulla carta. Quarta mossa. Siamo alla prima guerra mondiale, le uniche industrie che lavorano e si arricchiscono sono naturalmente quelle del Settentrione. Esplode poi il fascismo, che nasce al nord e che prima di ogni altra cosa sostiene le terre e le popolazioni del nord. Le grandi opere pubbliche, le maggiori bonifiche, i grandi interventi, quasi tutti al di sopra di Roma. Tutti sanno poi come è andata a finire. Quinta mossa. Siamo alla ricostruzione dopo lo sfracello della seconda guerra mondiale. L' intervento speciale al Sud si fonda soprattutto sul Piano Marshall, aiuti americani che avrebbero dovuto aggiungersi, non sostituirsi a quelli dello Stato italiano, come invece è stato. E tanto per cambiare di quegli interventi beneficiò soprattutto l'industria settentrionale, che al Sud scendeva ad aprire fabbriche, spesso richiudendole quasi subito, dopo aver incassato i soldi. E soprattutto dal Centro-Nord sono stati utilizzati quasi tutti gli incentivi delle altre leggi "a favore delle aree sfavorite". Lo Stato tanto per fare due conti, ha finito con lo spendere per il Sud non più dello 0,50 per cento del reddito nazionale, molto meno di quanto speso per la Cassa integrazione e la ristrutturazioni delle industrie del Nord.
[La macroregione] Inutile girarci intorno: le varie politiche d'incentivazione, avviate ormai da una sessantina d'anni, non hanno dato risultati di rilievo nel superamento del marcato dualismo della nostra economia. Fortunatamente tramontata la convinzione secondo la quale le sorti del Mezzogiorno sarebbero tutto sommato irrilevanti per il futuro dello sviluppo e della crescita del Paese, è riemersa l'esigenza inderogabile di una riflessione molto seria sulla necessità nazionale di una politica che abbia l'obiettivo dell'unione economica del Paese, senza la quale una vera ripresa stabile dello sviluppo dell'intera economia è del tutto irrealizzabile. Si è parlato di ritorno "alle gabbie salariali", di partito del Sud, di piano Marshall per il Mezzogiorno, ipotesi che, per una ragione o per l'altra, hanno convinto poco. E allora all'inizio del nuovo secolo il quesito fondamentale è se in un paese duale come l'Italia, un assetto istituzionale di forti autonomie, di tipo federale possa essere in grado di consentire gli indirizzi di governo necessari ad una efficace politica di unificazione economica del Paese. Oppure se bisognerà invece fare ancora un ulteriore passo avanti. Come ad esempio le tre macroregioni (Nord, Centro e Sud) sulla base delle affinità storiche, etniche, economiche e culturali, lanciate dall'ideologo dell'allora neonata Lega Gianfranco Miglio all'inizio degli anni '90 (nel libro "L'asino di Buridano") e poi riprese da un altro docente universitario, questa volta meridionale, Gerardo Mazziotti ( nel libro "L'assalto alla diligenza").
[Euroregione] Tre macroregioni, solo suggestive formule studiate a tavolino, ipotesi completamente fuori dalle agende della politica? Non è proprio così. Non tutte le forze politiche la pensano in questo modo. Nel marzo di due anni fa, subito dopo aver siglato l'accordo di programma con il partito della libertà per le elezioni politiche (poi stravinte dal Centro-destra) Roberto Maroni, numero due dei padani, in una intervista alla Stampa, fissò il calendario degli obiettivi della Lega per il futuro prossimo, diciamo per i prossimi dieci anni. "Prima di tutto la piena attuazione del federalismo fiscale. La nostra ricetta è semplice: un regime fiscale transitorio lungo dieci anni in cui si trasferisce il 90 per cento del gettito fiscale e poi, a regime, si trattiene direttamente il 50 per cento delle imposte dirette e il 50 per cento dell'Iva più altre imposte, con tutte le perequazioni del caso. Ma il federalismo fiscale per noi è solo un punto intermedio, sia chiaro. Noi vogliamo un federalismo extra-strong. Puntiamo a quella forma di Stato federato teorizzata da Miglio nel 1990. Allora poteva sembrare eversivo. Oggi può diventare realtà, perché rappresenta la piena attuazione della normativa giuridica europea. Certo, bisogna aggiornare il quadro. Non più le tre macroregioni, ma tre Euroregioni: Padania, Centro, Sud ".
[Stati Uniti del Sud] Insomma, c'è già chi lavora per una Italia, una e trina, dal volto diverso. Ma cosa vorrebbe dire una macroregione o una euroregione meridionale, una sorta di federazione degli Stati uniti del Sud, così come propugnava Cattaneo? Più o meno 20 milioni di abitanti, un terzo della popolazione italiana, un solo presidente, un solo Consiglio regionale e una sola Giunta. Il Sud avrebbe le carte in regola per poter dialogare alla pari, non solo col governo nazionale ma anche con quelli europei, e soprattutto con quelli del Mediterraneo, interlocutori naturali. Una sola grande regione che potrebbe vantare un enorme patrimonio di beni culturali (Palazzi Reali di Caserta, Napoli e Palermo e l'Ottagono federiciano di Castel del Monte), i tesori archeologici di Pompei, Ercolano, Paestum e Agrigento, le Università d'eccellenza, i Centri di ricerca, l'Istituto marottiano di studi filosofici e quello crociano di studi storici nonché quanto di meglio esiste in Italia in materia di bellezze naturali. E, ancora, gli unici vulcani d'Europa, il Vesuvio e l'Etna. Una terra ricca di risorse che potrebbe tornare ad essere, come già fu agli albori della sua storia moderna, con Federico II, uno dei luoghi più belli e più sviluppati culturalmente, d'Italia e del mondo occidentale.Gli imprenditori meridionali, anticipando i tempi della politica, qualcosa del genere l'hanno già attuata. Almeno nel settore turistico. La macroregione turistica si chiama South Italy, e mette insieme gli imprenditori turistici e alberghieri di otto regioni del Sud (Abruzzo, Molise, Basilicata, Campania, Calabria, Puglia, Sicilia e Sardegna) che con la benedizione dei rispettivi assessorati regionali al turismo hanno creato un marchio unico e un portale per veicolare con maggiore forza contrattuale la promozione turistica e aprire al mondo una finestra sul Sud Italia.Per il turismo, così come per altri settori c'è infine la questione fondi europei, troppe volte male utilizzati o restituiti al mittente. Troppe volte la politica meridionale non ha avuto il tempo e la capacità di presentare uno straccio di progetto. L'ennesima occasione mancata. Fonte:Denaro
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