di Vincenzo Esposito
NAPOLI - Le celebrazioni per i 150 anni dell’unità d’Italia stanno diventando l’occasione di un revisionismo risorgimentale che sfocia in accese polemiche, politiche e non. Nelle librerie saggi come «Indietro Savoia», «La guerra cafona», «l’Ultimo assedio» o «Controstoria dell’unità d’Italia», stanno andando a ruba. Grande il successo, ad esempio, di «Terroni» di Pino Aprile (sette edizioni in due mesi) che parla di guerra coloniale, di rappresaglie tipo SS, stupri e azzeramento scientifico dei Savoia della cultura del regno del Sud e, quindi, del Meridione (la questione meridionale prima dell’Unità non esisteva). Al salone internazionale del Libro di Torino, domenica sera, durante il dibattito aperto proprio su «Terroni», lo storico Giordano Bruno Guerri è quasi venuto alle mani con un ragazzo che tra il pubblico aveva urlato slogan contro il ministro Calderoli.
E a Napoli? I movimenti neoborbonici fremono. Una nutrita rappresentanza ha raggiunto Marsala con bandiere listate a lutto, l’11 maggio scorso (anniversario dello sbarco dei Mille). Un altro nutrito corteo ha invece protestato a Torino contro l’apertura del museo Lombroso, lo scienziato che voleva dimostrare il perché i meridionali fossero una razza inferiore. Qualche anno fa, un innamorato di Napoli, Jean-Noël Schifano, chiese ai napoletani di reimpossessarsi della loro identità perduta, enumerando gli innumerevoli primati del Regno delle due Sicilie al cospetto dei «picchi vergognosi dei giorni nostri». «Per prima cosa bisognerebbe - disse - cambiare il nome di alcune strade, per cancellare le tracce della colonizzazione piemontese». Oggi è la stessa proposta che lanciano i neoborbonici: piazza del Plebiscito dovrebbe tornare al toponimo di Largo di Palazzo, via dei Mille andrebbe mutata in corso Giambattista Basile ed infine piazza Garibaldi andrebbe intitolata al «3 ottobre 1839», una data storica: l’inaugurazione della prima linea ferroviaria italiana, la Napoli-Portici.
Inoltre molte delle strade dedicate ai Savoia, erano state realizzate dai Borbone, anticipando di almeno un secolo futuri sistemi urbanistici. Come, ad esempio, l’attuale corso Vittorio Emanuele, la prima tangenziale del mondo. Una strada che congiungeva gli estremi del nucleo cittadino dell’epoca: Chiaia e Capodimonte. Una strada che invece di passare in basso, tra le case, tagliava la collina, snellendo il traffico delle carrozze e delle merci. Originariamente si chiamò «Corso Maria Teresa», in onore di Maria Teresa d’Asburgo Lorena, seconda moglie di re Ferdinando II che commissionò, nel 1853, il progetto all’architetto Errico Alvino. Inoltre la strada univa la città bassa con il Vomero. Con l’Unità, i Savoia ne cambiarono la denominazione, cancellandone la storia. Ma di esempi ve ne sono tantissimi, come le strade «piemontesi». Per esempio Cavour. A lui è intitolata una piazza (ex Largo delle pigne) nella strada più borbonica di Napoli: via Foria (acronimo di «Fora ’a via»). Il primo siciliano a diventare italiano, è Francesco Crispi e a lui è dedicata una via. Poi i principi piemontesi: corso, piazza, traversa e rione Duca d’Aosta; quindi piazza, traversa, via, vico e vicoletto Duca degli Abruzzi. A Garibaldi spettano una piazza, le I II III IV Traversa (a Forcella), una via. Poi ci sono piazza dei Martiri, dedicata a quelli che consegnarono la città al generale Championnet. Con i Borbone era chiamata piazza della Pace e aveva al centro un alto fusto di granito grigio che doveva celebrare la riconciliazione nazionale scossa dagli avvenimenti del 1821. Pochi metri più in là via dei Mille (ex Basile). Ma torniamo ai Savoia: il principe di Napoli - a suo nome troviamo la galleria, i portici, una piazza, una via (a Ponticelli) e una a San Pietro a Patierno), il principe Umberto (una piazza e una galleria); la principessa Margherita vanta una traversa, una piazzetta e una via, il re d’Italia un corso, la regina Elena una piazza, la regina Margherita una via e un parco (oltre a una pizza). Umberto I si prende un corso (il Rettifilo), la galleria, i portici.
Poi Vittorio Emanuele: corso, gradini, rione, una via a Miano e una a Secondigliano. Altro luogo in cui sono state cancellate le tracce della Napoli capitale, è piazza Dante che prima del 1871 era chiamata «Foro Carolino», uno slargo voluto da Carlo III di Borbone, dove la statua di Dante, sul cui basamento è inciso «All’unità d’Italia raffigurata in Dante Alighieri», fu situata per azzerare il vecchio nome e far sloggiare la statua del sovrano. Anche in Piazza Trieste e Trento, fino al 1919 Piazza San Ferdinando (resistette un po’ di più perché c’era l’ambiguità di quel «san»), era presente il busto di un re borbonico. Si trattava, guarda caso, di Ferdinando II. Finì in un deposito di Pietrarsa. La vicina piazza del Plebiscito, ex Largo di palazzo, dove si riunivano le truppe in parata per salutare il re, prende il nome dal plebiscito popolare del 1860 con cui Napoli e l’intera Italia meridionale ratificarono, dicono gli storici, la propria annessione al Regno dei Savoia. Cosa resta delle Due Sicilie? Nei nomi, oltre piazza Carlo III, dove sorge quello che fu il «Real Albergo dei poveri», nulla. Nei fatti gran parte della città, dei palazzi, delle strade, dei parchi.
Fonte:Corriere del Mezzogiorno del 18 maggio 2010
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