mercoledì 14 aprile 2010

IL SACCO DEL SUD


di Santo Prontera - da Mondoperaio 3/2010


l clima in cui si va a celebrare il 150° anno dell’Unità nazionale non è certamente il piú adatto alla ricorrenza. Nel prevalente discorso pubblico attuale – pesantemente condizionato dalla Lega, ben al di là del suo peso elettorale – si stenta a riconoscere l’evento come meritevole di adeguato apprezzamento. Sembra che quel grande appuntamento storico non abbia prodotto gli esiti sperati per colpa del Mezzogiorno, inizio e fine di tutti i mali. È veramente cosí? Per la Lega non ci sono dubbi. Tanti opinionisti, però, di dubbi dovrebbero averne, eppure fanno da codazzo mediatico alla stessa Lega. Questo fenomeno solleva necessariamente una domanda: quale tasso di contenuto storico si può rintracciare in tutto ciò che si dice del paese e del Sud, e del rapporto di questo con quello? Il Sud si trova incastrato nella morsa di due realtà di diverso tipo. È realtà la storia, ossia l’insieme dei fatti realmente accaduti; ed è realtà anche l’insieme delle credenze che vivono nella cultura collettiva con riferimento a quei fatti. Le credenze sono realtà in quanto matrici di conseguenze concrete. Le credenze, infatti – indipendentemente dalla corrispondenza tra le stesse e i fatti – hanno il potere di generare comportamenti sociali e, in seguito a questi, anche decisioni politiche.
Nessuno deve fare sconti al Mezzogiorno per gli aspetti di debolezza che esprime sul piano sociale, politico ed etico-politico. Ma non è interesse di nessuno –né dello stesso Mezzogiorno né del paese nel suo complesso- gravare la vita nazionale con una distorta visione dei fatti, che nasce dal ruolo soverchiante assunto dai pregiudizi sui giudizi. È una situazione che scaturisce da un riciclaggio continuo dei pregiudizi di ieri e dai problemi osservati in forma istantanea e non diacronica. A furia di cavalcare i pregiudizi si finisce col dare fiato alle trombe delle posizioni leghiste da un lato ed a quelle delle contro-leghe del Sud, con il rischio di alimentare i processi di spaccatura del paese.

Il Mezzogiorno non è un tutto negativo ed indifferenziato, ma è almeno duplice. C’è un Mezzogiorno positivo che si oppone drasticamente al Mezzogiorno negativo. Ragionare in termini di pregiudizi, e non già di fatti e processi storici e politici, favorisce il secondo e danneggia il primo e l’intero paese. Il Mezzogiorno è certamente un problema, ma non si va da nessuna parte se non si tiene presente che è anche frutto di una storia unitaria alla quale sono mancate diverse virtú. Alla grande cultura nazionale – quando si cimenta con meriti e demeriti del Sud e del Nord – si possono addebitare peccati d’uso della scienza e, diciamo cosí, di ipo-esercizio di ruolo, ma al leghismo, che lo voglia o no, occorre pur dire, schiettamente e direttamente, come diceva Francesco Saverio Nitti, che certamente “i meridionali hanno politicamente tanti torti, ma nemmeno i torti bisogna esagerare!”.

Una tematica come la questione meridionale, demonizzata dalla Lega, non trova ormai da tempo alcuna forma di accesso in determinati ambienti politici e culturali (anche esterni alla stessa Lega). È tuttavia impossibile prescindere dalla stessa se si intende leggere il presente in prospettiva futura. Oggi, in pieno leghismo – sia doc che spurio – è bene rammentare da quale storia venivano le due parti del paese all’atto dell’Unità e cosa avvenne successivamente. Reputando condivisibile l’impostazione di alcuni studiosi e non già quella di chi non è d’accordo col mettere in mezzo cause precedenti l’Unità , ritengo che, per comprendere le radici piú profonde della “questione meridionale”, e quindi per lumeggiare le cause di alcuni aspetti che tribolano il nostro presente, occorra paradossalmente fare almeno qualche accenno intorno ai Comuni, ossia alle libere città dell’Italia centro-settentrionale che dopo l’anno Mille gradualmente sgretolarono il sistema feudale, gettando le basi della modernità e, in definitiva, come ha tra gli altri ampiamente argomentato Luciano Pellicani , dell’attuale civiltà del mondo occidentale.

Nel centro-nord del paese il feudalesimo fu un portato del Sacro Romano Impero di Carlo Magno. Il sud d’Italia, in termini formali e sostanziali, non fece parte di quell’impero. Una parte costituiva una zona d’influenza carolingia esterna all’impero, un’altra parte era inclusa nell’Impero bizantino, un’altra parte ancora era sotto il dominio dei musulmani. A parte i precedenti rapporti dualistici di cui parla Giustino Fortunato , si può dire che fu nel periodo dei Comuni che il Nord e il Sud del Paese presero strade diverse. Anzi, diametralmente opposte. Da un lato il Nord usciva dal feudalesimo (iure langobardorum, frazionabile fra tutti i figli e quindi predisposto ad un indebolimento progressivo che ha facilitato l’avvento delle città) e dall’altro lato il Sud (che fino ad allora ne era rimasto fuori) vi entrava. In quel periodo, infatti, il Sud, per opera dei Normanni, cominciava a fare la sua esperienza feudale (iure francorum; quindi feudo trasmissibile solo al primogenito e caratterizzato da un’importanza politica piú solida) . Prima dell’avvento dei Normanni, le dinamiche socio-politiche del Mezzogiorno erano analoghe a quelle del Nord, ossia caratterizzate dalla tendenza al “particolarismo”. Corrado Vivanti fa opportunamente notare che, negli stessi anni in cui i feudi del Nord si disgregano a vantaggio delle autonomie cittadine, “il particolarismo e il progressivo frazionamento del potere territoriale nel Mezzogiorno bizantino e longobardo sono invece arrestati, e il feudalesimo, nelle sue forme piú perfezionate, impone un processo inverso, diventando la struttura portante del nuovo regno normanno” . Lo stesso concetto si trova in Giuseppe Galasso: “Il particolarismo, la tendenza irrefrenabile ad un processo di progressivo frazionamento del potere territoriale era stata [...] la logica autentica della storia meridionale fino all’arrivo dei Normanni, cosí come lo era stata della storia italiana ed europea dello stesso periodo” .

Pur con tutto il bene che si è detto del Regnum, il dato di fatto è questo: con l’epopea normanna, nel Sud vennero demoliti i presupposti di sviluppo che il Nord cominciava a costruirsi. Sintomatica a tal proposito fu l’esperienza di Amalfi. “Quando il Comune di Firenze era appena bambino – afferma Gaetano Salvemini – la Repubblica d’Amalfi mandava le sue navi per il mediterraneo”. E il suo successo si inquadrava in un contesto sviluppato. Infatti “l’Italia meridionale, la Sardegna e la Sicilia – afferma ancora Salvemini- furono dal secolo X al XIII i paesi piú floridi d’Italia” . Prima in ordine di tempo tra le città marinare, Amalfi decadde non solo per i conflitti con le altre nascenti potenze navali della penisola, ma anche per la perdita di ogni autonomia. E il destino di Amalfi si tirò dietro anche quello di altre incipienti esperienze similari. Galasso fa notare che la realtà meridionale “fino all’arrivo dei Normanni appariva [...] ricca di slancio e di possibilità” e le città meridionali “in epoca pre-feudale avevano acquisito rilievo nelle rispettive regioni per il loro sviluppo verso un regime aristocratico di tipo (se cosí si può dire) paracomunale o precomunale e per la loro forza economica” . La feudalizzazione bloccò questo movimento storico e lo invertí di segno rispetto al Nord.

Il regno normanno

In termini socio-strutturali di lungo periodo, dunque, la fondazione del regno normanno risultò assolutamente deleteria. Le dinamiche sociali innescate per via politica condussero il Mezzogiorno alla perdita di quei ceti che sono la base portante di una moderna società di mercato. A tal proposito Carlo M. Cipolla, proseguendo nel discorso visto sopra, afferma quanto segue: “Ai nastri di partenza dello sviluppo medievale, che vide subito l’Italia porsi all’avanguardia nell’economia europea, non si può certo dire che il Mezzogiorno giungesse in ritardo rispetto al Nord”. La divaricazione avvenne dopo. Infatti i “monarchi normanni (e poi i loro successori svevi e angioini), che erano i maggiori proprietari fondiari del regno, e con essi i cavalieri, i vescovi e gli abati a cui erano andati i grandi feudi concessi dopo la conquista, avevano tutto l’interesse a dare libero corso alla pressante richiesta di grano e di materie prime del Nord e dell’Occidente. D’altra parte i mercanti italiani centrosettentrionali erano rappresentanti di potenze navali, delle quali era inevitabile coltivare l’amicizia e il sostegno. A essi i re non si facevano scrupolo di concedere favori e privilegi commerciali, che evidentemente non avevano alcun motivo di estendere ai propri sudditi. Nei confronti delle sue città la monarchia si sentiva semmai in pieno diritto di limitare le autonomie istituzionali, e anche le ‘libertà’ fiscali, precedenti alla fondazione del regno. Per i mercanti locali diventava difficile sostenere la concorrenza delle aristocrazie commerciali dell’Italia dei comuni, che nelle proprie libere città-stato erano invece riuscite a prendere in mano sia il potere economico sia il potere politico. Ad ogni modo, con il proseguire della rinascita urbana e dello sviluppo tecnologico e manifatturiero dell’Europa, tutta la struttura degli scambi si trasformò in modo da impedire alle città meridionali di continuare a esercitare funzioni autonome di intermediazione fra Oriente e Occidente [...] Da allora , fra le ‘due Italie’, si instaurò una sorta di divisione del lavoro e una relazione economica che non sarebbe piú stata modificata” . Sul piano storico, le conseguenze subite dalla società meridionale ad opera della “gabbia” politica rappresentata dal Regnum furono rovinose. Infatti “l’economia di mercato delle regioni meridionali iniziò a dipendere quasi completamente da manufatti di importazione, sia per i consumi di lusso della nobiltà feudale sia per quelli degli strati sociali medi e inferiori, e alla lunga si trovò anche in difetto di ceti artigiani e mercantili indigeni. Le città meridionali non avrebbero piú avuto modo di conoscere uno sviluppo di tipo industriale e commerciale” .

Alla vigilia del 1900 Salvemini, riferendosi agli effetti del passato feudale sul lungo periodo come ad una delle malattie del Sud, sottolineava e precisava che tale malattia “è antichissima ed è tutta speciale del Mezzogiorno. È la struttura sociale semifeudale, che è di fronte a quella borghese dell’Italia settentrionale un anacronismo [...] Nelle cause di questa malattia non c’entrano né il clima né la razza; le cause sono esclusivamente sociali. Nel secolo XII, al tempo dei Normanni, e nella prima metà del XIII, sotto gli Svevi, nell’Italia meridionale prevaleva la piccola proprietà; e parecchie regioni oggi infestate dal latifondo, dalla malaria e dalla prepotenza dei baroni e dei cavalieri, davano vita ad una popolazione molto piú densa dell’attuale, laboriosa, fiorente di ricchezze. Sotto i Normanni e gli Svevi la nobiltà fu tenuta a freno e talvolta anche oppressa; gli ecclesiastici ebbero ricchezze e potere molto limitati. Il feudalesimo vero e proprio entra nel Mezzogiorno con gli Angioini [...] E la nobiltà feudale usò del suo potere come ha sempre fatto, quando ha potuto affermare la propria supremazia: i piccoli proprietari scomparvero, la campagna si spopolò, le terre comuni vennero usurpate, i diritti piú esosi vennero riscossi dai feudatari divenuti sovrani nelle loro possessioni; e alla fine del secolo XV la rovina delle classi medie era definitivamente compiuta. La dominazione spagnola non fece che aggravare la situazione aggiungendo ai nobili indigeni nobili nuovi” .

In definitiva, la politica del Regnum uccise proprio i ceti che altrove erano (e lo sarebbero stati sempre piú) i protagonisti di una nuova civiltà, ossia i responsabili primari della ricchezza e del progresso materiale e intellettuale. Da questo punto di vista il Sud rappresenta una netta conferma della tesi, ampiamente documentata da Luciano Pellicani nelle sue opere , secondo la quale sono i fattori politici che governano la genesi e lo sviluppo delle dinamiche economiche sul piano storico (e non viceversa). Il Sud, che per certi aspetti era partito in vantaggio sui binari della storia, fu condotto dalle vicende politiche in un buio tunnel.

Lʼindustria dei Borbone

La feudalità nel Sud durò fino alla sua eversione ad opera dei napoleonidi, iniziata nel 1806. In circa otto secoli, dunque, l’economia di mercato da una parte ed il sistema feudale dall’altra plasmarono in modi diversi ed opposti le due parti del paese. Eppure, come si vedrà appresso, la società meridionale, pur avendo perso sui patiboli del 1799 buona parte di un nucleo di classe dirigente di nuovo tipo per vedute e prospettive, non giunse all’appuntamento unitario priva di ogni presupposto di moderno sviluppo. Certamente il Nord aveva dalla sua immensi vantaggi storico – ambientali (il Nord era una normale società “borghese” di fronte ad un Sud semi-feudale), ma il Mezzogiorno, pur con tutti i suoi aspetti di arretratezza, giunse all’appuntamento unitario con un suo nucleo proto-industriale (comparabile con quello del Centro-Nord) che avrebbe potuto funzionare come lievito modernizzante. Sintetizzando, Nitti poteva dire che “al momento dell’unione l’Italia meridionale avea tutti gli elementi per trasformarsi” . Nel momento storico dell’Unità né il Centro-Nord né il Meridione erano società economicamente avanzate. Entrambe le aree misuravano distanze enormi rispetto alle nazioni europee piú progredite. Tanto al Nord quanto al Sud c’erano solo barlumi e balbettii di industrializzazione. Il Sud, comunque, aveva i suoi balbettii e i suoi barlumi, che talvolta sopravanzavano quelli del Nord. Ai fini del discorso che qui si conduce, potremmo semplicemente limitarci a dire che nel Sud, quando giunse a compimento l’Unità, era in atto un interessante processo di industrializzazione, ma, data la tenacia dei pregiudizi che rivestono l’idea del Sud, è opportuno fornire esempi specifici del fenomeno.

Nel saggio La Provincia subordinata, Luigi De Rosa scrive che “nel 1861, come è stato riconosciuto, Napoli e Genova rappresentavano i centri in cui si era concentrata l’industria metalmeccanica”. La presenza industriale al Sud era frutto di iniziative statali e private, sia locali che straniere. “Pietrarsa, l’opificio di maggior rilievo, rivaleggiava, con i suoi 1000 tra operai e tecnici, con l’Ansaldo di Genova – Sampierdarena. Alla vigilia dell’unificazione del paese, aveva già costruito 22 locomotive e fornito le macchine ad alcuni vapori [...] Della costruzione di macchine a vapore si era occupata anche la Guppy e Pattison [...] Era considerata la seconda officina d’Italia”. Vi era poi un “terzo complesso metalmeccanico, la Macry ed Henry”, che produceva “macchine fisse a vapore e di locomobili di discreta potenza”. “A questi stabilimenti – continua De Rosa – andavano aggiunti gli arsenali navali di Napoli e Castellammare di Stabia, che Nitti riconobbe essere stati, al 1861, i piú importanti d’Italia. Nel quinquennio precedente l’unificazione politica del paese quasi ogni anno vi si era varata una nave da guerra”.

Non era questo l’unico settore di importanza rilevante.
“Risultati piú consistenti – aggiunge De Rosa – si erano ottenuti nel settore tessile. In primo luogo, nell’industria del cotone [...] in attività alla periferia di Salerno e nel retroterra di Napoli [...] In un solo stabilimento erano concentrati 40.000 dei circa 500.000 fusi allora in attività in tutta Italia, con oltre 1.500 lavoratori occupati [...] Risultati confortanti si erano ottenuti, grazie alla Società industriale partenopea, anche nel settore della pettinatura, cardatura e filatura del lino e della canapa. Nello stabilimento di Sarno lavoravano 800 operai [...] Né si trattava dell’unico stabilimento del genere. Altri stabilimenti, meritevoli di menzione per la qualità del prodotto, operavano in Piedimonte d’Alife, Pagani, Scafati, Salerno [...] Ancor piú brillanti i risultati ottenuti nel settore laniero, nel quale si distinguevano i lanifici di Sava, Zino, Polsinelli, Manna, Ciccodicola. Quello di Sava [...] per fronteggiare la crescita della domanda, aveva dovuto fare ricorso a subappalti e prendere in fitto altri stabilimenti, adottando una strategia imprenditoriale che gli consentiva la massima elasticità e adattabilità. [...] Importante era anche l’industria della carta. Il suo prodotto [...] era largamente esportato, ad onta dell’alto costo del trasporto, sia nell’Italia centro-settentrionale (a Torino, Milano, Bologna, Firenze) sia all’estero”. Uno dei fattori del successo di questa industria, dice De Rosa, era la possibilità “di ottenere a discrete condizioni la materia prima, cioè gli stracci, i quali nel Napoletano abbonda[va]no ed [erano] di buona qualità” . Dopo l’Unità, tuttavia, questa industria “scomparve quasi del tutto [...] a causa della fortissima diminuzione del dazio sulla esportazione degli stracci: da lire 28,25 a lire 8” . A tutto questo discorso vanno aggiunti la lavorazione della seta a San Leucio, da cui erano usciti i drappi per la Reggia di Caserta, e altri settori di non trascurabile importanza. “Nel complesso –riassume De Rosa- si può dire che metalmeccanico, tessile, carta e cartoni erano assurti a settori – guida della trasformazione industriale [del Sud]. Va da sé che tutte le arti e i mestieri fornivano ai consumatori napoletani una vasta gamma di altri prodotti industriali, alcuni dei quali – come per esempio i guanti, i pianoforti Sievers, i vetri – avevano ricevuto un considerevole consenso anche sul piano internazionale, tanto da alimentare una non insignificante esportazione” .

L’unità leonina

Nel Mezzogiorno di allora queste premesse e promesse di industrializzazione rappresentavano gli aspetti moderni che, opportunamente coltivati e sviluppati, avrebbero potuto gradualmente prendere il sopravvento sugli aspetti di arretratezza. Si trattava, comunque, di un panorama industriale che prosperava al riparo di forti barriere protezionistiche. Non tenendo conto di ciò (per ragioni che qui non vengono approfondite), la politica economica dello Stato unitario, che non aveva autodifese territoriali a carattere federale, ma era emanazione “piemontese”, spazzò via in poco tempo tutto quel panorama. “Il nuovo Regno – dice De Rosa – adottò infatti la tariffa doganale piemontese, di marca cavouriana, e dopo quella toscana, la piú liberista tra quelle praticate negli ex Stati italiani” [1]. Tra parificazione al ribasso delle tariffe interne ed ulteriori ribassi concordati con Stati esteri, ben presto, ossia già nel 1863, “le tariffe napoletane subirono una riduzione di circa l’80%” [2]. Un’autentica cura da cavallo. Risultato: “Nessuno dei settori che avevano registrato segni di modernizzazione e di progresso sfuggí alla crisi” [3].

La “classe industriale” del Meridione espresse invano preoccupazioni e proposte. Non chiedeva di mantenere alte per l’eternità le barriere doganali. “Sollecitava – nota De Rosa – solo la concessione di un ragionevole lasso di tempo per adattarsi alla nuova politica tariffaria. Il suo giornale, L’industria italiana, sostenne piú volte che ‘le tariffe doganali voglion essere gradatamente ridotte; la concorrenza di estere nazioni ammessa solo a gradi a gradi’” [4]. Per dialogare, però, c’è bisogno di un interlocutore disposto ad ascoltare. Si dà il caso che alcuni ministeri rispedirono al mittente le copie della rivista che gli editori si erano permessi di mandare. Gli industriali meridionali avevano di fronte un interlocutore chiuso in astrattismi ideologici (nel migliore dei casi). È ben vero, infatti, che il liberismo era la teoria corrente nei paesi piú sviluppati, ma corrispondeva agli interessi dei medesimi, i quali, in qualità di pesci grossi, tutto avevano da guadagnare in un confronto squilibrato con pesci piccoli. Rosario Romeo ha affermato che quell’astratta ed estremistica politica commerciale è stata indicata da piú parti come “l’inizio della conquista economica del Sud e del regime quasi coloniale di subordinazione del Mezzogiorno al Settentrione d’Italia” [5]. La Giunta provvisoria di Commercio di Napoli, nominata dalle nuove autorità unitarie, in una relazione del 12 giugno 1861, sollecitata dal Ministero dell’Agricoltura, Industria e Commercio per conoscere le “condizioni economiche delle diverse province del Regno”, levava forti lamentele circa la scarsa attenzione riservata dal Parlamento alle esigenze dell’apparato industriale meridionale: “Le industrie che oggi fioriscono in questa parte meridionale d’Italia non sono di piccola considerazione, anzi avuto rispetto alle condizioni infelici in cui sono stati questi popoli, può dirsi che il suo progresso industriale sia stato grande, come quello che non è secondo a molti Stati d’Europa, e forse molti ne avanza [...] E però non senza un forte rincrescimento noi della meridionale Italia abbiamo inteso dal seno del nostro Parlamento con leggerezza, e quasi disprezzo farsi nessuna ragione di queste industrie nostrali, anzi averle quasi in dispregio, come cosa vile e da poco”. Nella stessa relazione si faceva notare che le industrie meridionali “non versa[vano] nella piú favorevole condizione, anzi [erano] minacciate di rovina” per via del nuovo sistema di tariffe doganali “che [aveva] ap[erto] improvvisamente la barriera alla concorrenza straniera, senza aver curato quei provvedimenti opportuni per i quali solamente si [sarebbe] pot[uto] andare senza scossa da un sistema protettore a uno opposto” [6]. Come investito da uno tsunami, crollò questo primo modello economico del Mezzogiorno, il quale, perdendo il nucleo di una sua possibile trasformazione, restò con tutti i problemi che successivamente la memoria collettiva ha raccolto.

Dopo il crollo di questo modello economico “industrialista”, per il Sud fu giocoforza orientarsi verso un nuovo “modello”. Fu cosí – dice De Rosa – che l’agricoltura “diventò l’attività principale del Mezzogiorno” [7]. Dapprima divenne grande produttore ed esportatore di cereali e poi, con l’Europa “progressivamente invasa dai grani americani venduti a prezzi del 30-40 % inferiori” [8], potenziò le colture pregiate, come la vite, l’olivo, gli agrumi. Ma neanche per questo modello subordinante e di ripiego ci fu pace. “Questa crescita – scrive De Rosa- subí –come è noto – una drammatica interruzione dopo che fu approvata nel 1887 la tariffa protezionistica voluta da Crispi, su pressione degli interessi centro- settentrionali” [9]. L’industria, che era “ormai concentrata quasi completamente nelle tre regioni del Nord: Lombardia, Piemonte e Liguria” [10], per reggere la concorrenza estera sul mercato interno, chiese con insistenza (e poi, tra il 1877 e il 1878, ottenne) provvedimenti di protezione doganale, gli stessi che erano stati negati a quella del Sud prima che questa finisse nell’archivio dei ricordi. Le nuove tariffe doganali scatenarono la reazione della Francia e a farne le spese fu l’agricoltura meridionale, vittima delle ritorsioni dei cugini d’oltralpe. Infatti, per i mercati dei prodotti agricoli meridionali “il mercato francese, per rappresaglia, si chiuse alle esportazioni italiane”, determinando una caduta dei “prezzi del vino e dell’olio” [11]. Conseguenza diretta di questa disastrosa crisi per l’economia meridionale fu la “crescente e consistente corrente migratoria verso il Nord e il Sud America” [12].

Nordici e sudici

Come mai il Mezzogiorno non riusciva a difendersi sul piano politico? Per via della becera classe dominante, cinicamente utilizzata dalle mene altrui. Scrive De Rosa: “Nel 1899 esplose lo scandalo della corruzione maturata in seno al Comune di Napoli, favorito in larga parte dalle mene degli interessi settentrionali” [13]. Quale fosse in buona parte il tenore della deputazione meridionale in Parlamento e a quali interessi rispondesse, lo disse, con profonda indignazione, Giustino Fortunato. Per lo studioso lucano il governo dell’Italia era “la gran macchina senza onore e senza pudore che fa[ceva] e disfa[ceva] – quaggiú – i deputati, avvocati per il maggior numero, o possidenti incolti e voraci; avvocati, che la deputazione fa[ceva] ricchi; possidenti, che la deputazione fa[ceva] onnipotenti [...] Il Settentrione capitalista e militarista fa i suoi affari, restando al timone dello Stato, grazie alla degradazione politica del Mezzogiorno” [14]. Mentre Nitti scriveva: “Nel 1860, soprattutto dopo il 1876, l’Italia meridionale è stata considerata come il paese destinato a formare le maggioranze ministeriali. I prefetti quasi non hanno altra funzione che di fare le elezioni. Un ex ministro raccontava alla Camera avergli un prefetto dichiarato essere arbitro delle elezioni, poiché poteva mandare tutti i sindaci della sua provincia in carcere. Si è speculato da ogni partito sull’ignoranza e sul dolore. Dove bisognava tagliare il male, si è incrudito. Intere regioni sono state abbandonate a clientele infami” [15]. Dal canto suo Salvemini, spiccio e sanguigno come sempre, tuonava: “Che i settentrionali sfruttino i meridionali, non c’è dubbio, ma che cosa fanno i meridionali per non essere sfruttati? I ‘nordici’ trovano proprio fra i ‘sudici’ i peggiori strumenti del loro sfruttamento economico e politico” [16]. Ancora oggi, del resto, tanti industriali del Nord fanno i propri affari entrando in combutta con le mafie del Sud per lo smaltimento di rifiuti tossici.

De Rosa ha anche scritto una monumentale Storia del Banco di Napoli [17], nella quale si descrivono le singolari vicende dell’istituto bancario partenopeo in rapporto alle altre banche centro- settentrionali. Dopo essere stato ostacolato dal regime borbonico quanto a modernizzazione e strategie di sviluppo, questo istituto bancario non fu meglio trattato dallo Stato unitario. Da quelle pagine emerge con chiarezza, anche per i non addetti ai lavori, quanto il governo sia stato super partes e quanto sia stato giocatore di una squadra in campo. All’atto dell’Unità le banche piú importanti erano due: la Nazionale, con sede al Nord, e il Banco di Napoli. Quest’ultimo, però, disponeva di una maggiore riserva aurea. Dopo l’Unità, alla Nazionale fu subito permesso di aprire filiali nel Sud, facendo cosí concorrenza al Banco di Napoli, ma a quest’ultimo il permesso di aprire filiali al Nord non arrivò prima della fine del 1865. Quali furono le conseguenze? Le filiali della Nazionale aperte al Sud rastrellavano cartamoneta emessa dal Banco e poi, presentandosi agli sportelli del medesimo, chiedevano il cambio in oro, dato che allora era vigente il sistema della convertibilità. In tal modo si operava un vero trapasso di oro dal Banco alla Nazionale. Il risultato non era di poco conto. Le banche, infatti, potevano emettere tre lire di carta per ogni lira di oro posseduto. Ciò significa che, con il favoritismo ottenuto dalla Nazionale, si trasferivano dal Sud al Nord notevoli capacità di credito, a tutto vantaggio del sistema economico del Centro-Nord. Dopo il 1865, però, al Banco di Napoli, con le sue filiali al Nord, fu possibile solo in parte sviluppare la propria attività e la propria azione di difesa nei confronti della Nazionale, perché l’istituto di emissione napoletano fu boicottato. E non solo dalle banche del Centro-Nord. A Roma, ebbe a dire un alto funzionario del Banco di Napoli, il Cuciniello, la carta emessa dall’istituto partenopeo “non [veniva] ricevuta dalle Amministrazioni dello Stato”. Un altro dato interessante, tra i tanti, si riferisce all’emissione di carta- moneta, vincolata al rapporto 1 a 3 rispetto alle riserve auree possedute. Il Banco di Napoli, sottoposto all’azione di drenaggio politicamente coperta, manteneva prudentemente la sua emissione al di sotto delle effettive possibilità; la Nazionale, viceversa, usava sconfinare –evidentemente per motivi opposti- oltre le possibilità consentite dalla legge.

È opportuno considerare alcuni dati significativi. Con l’operazione “drenaggio” effettuata dalla Nazionale le riserve auree del Banco di Napoli, che nel 1863 ammontavano a 78 milioni, si ridussero, alla vigilia del corso forzoso (sospensione della convertibilità cartamoneta/oro) a 43 milioni. La differenza fu acquisita dalla Nazionale, la quale, però, dal 1860 al 1866, vide aumentare le sue riserve auree di soli 6 milioni. Dove finiva l’oro? La Nazionale sosteneva banche piú piccole, di credito mobiliare, impegnate a finanziare un sistema di industrie in crisi. Una nota a margine: al Sud fu impedita la costituzione di banche mobiliari, per operare allo stesso modo che al Nord. In sostanza, il sostegno alle industrie settentrionali veniva assicurato con il trasferimento di oro dal Sud al Nord e con lo strozzamento del credito al sistema industriale meridionale.

Un altro dato significativo è collegato alla legge sul corso forzoso, approvata il 1° maggio 1866. Con tale provvedimento si rese inconvertibile (non si poteva richiedere la conversione di cartamoneta con il corrispondente valore in oro) solo la moneta della Nazionale. Quella del Banco di Napoli restava convertibile come prima e come prima le riserve auree del Banco restavano nel mirino della Nazionale. Nel 1868 la relazione di un’apposita commissione parlamentare stabilirà che non c’era stato alcun reale bisogno del corso forzoso e che tale provvedimento legislativo era stato fatto (al di là del pretesto ufficiale: le necessità collegate alla guerra del 1866 contro l’Austria – ma il corso forzoso durò fino al 1883, ben oltre la necessità –) per evitare il fallimento della Nazionale e delle banche ad essa collegate. In Parlamento il ministro Scialoja, rispondendo all’on. Avitabile, disse che il sacrificio del Banco di Napoli era “una volgare verità”, ma nel contempo quel provvedimento era stata una triste necessità [18].

Chi ha dato e chi ha avuto

Non si vuol fare a tutti i costi i puntigliosi, correndo anche il rischio di dare man forte a rivendicazionismi di bassa lega, ma alcune cose importanti, in periodo di leghismo dilagante e circondato da tante giustificazioni e simpatie esterne, vanno necessariamente rammentate. Subito dopo l’Unità c’è indubbiamente stato un immediato e massiccio trasferimento di richezza dal Sud al Nord. Tra i tanti, De Rosa ricorda che il Piemonte cavouriano aveva appesantito enormemente il deficit di bilancio per modernizzare lo Stato (ma non solo per questo) attraverso infrastrutture di vario genere. Al contrario ai Borbone stava a cuore il pareggio di bilancio nell’ambito di una politica generale che certamente non era propulsiva e lungimirante. Faceva bene Cavour (ma non tutte le spese sabaude erano virtuose; tante erano improprie e persino scandalose!) e facevano male i Borbone. Tuttavia, l’eccessiva disinvoltura dell’aumento del deficit di bilancio aveva portato lo Stato piemontese in uno “stato di bancarotta”, che fu evitato con l’Unità. Infatti, dice De Rosa, “il Regno sabaudo non ebbe difficoltà a scaricare poi sul Napoletano il suo debito pubblico che, da solo, superava l’insieme di tutti quelli degli altri ex Stati italiani; e ad appropriarsi della riserva d’argento [del Regno di Napoli] che garantiva il valore del ducato, imponendo al quale l’equivalente di 4,25 lire gli portò via quasi il 100% del suo potere d’acquisto” [19].

Dal canto suo, Salvemini aveva già fatto notare che “il Napoletano e la Sicilia non avevano debiti, quando entrarono a far parte dell’Italia una: e la unità del bilancio nazionale ebbe l’effetto di obbligare i meridionali a pagare gl’interessi dei debiti fatti dai settentrionali prima dell’unità e fatti quasi tutti per iscopi che coll’unità nulla avevano a che fare” [20]. Lo stesso Salvemini rammentava ancora che “il Napoletano e la Sicilia erano ricchissimi di beni ecclesiastici [...]; la confisca di tutti quei beni a vantaggio delle finanze dell’Italia una, sottrasse all’Italia meridionale un’enorme quantità di capitale sotto forma di pagamenti immediati all’atto della compera o di pagamenti annuali” [21]. Sul medesimo argomento De Rosa nota che vi fu un “drenaggio di capitali dal Sud che il governo unitario si assicurò attraverso la vendita dei beni demaniali ed ecclesiastici. Tramite una semplice voltura di nomi nei documenti catastali, mettendo al posto di quello dell’ente pubblico o ecclesiastico il nome di un cittadino napoletano, costui si privava delle sue liquidità o si indebitava” [22]. A fronte di questi flussi di denaro e per quelli derivanti da una tassazione squilibrata a danno del Mezzogiorno, non vi fu un adeguato ritorno al Sud. Quella ricchezza, com’è ampiamente noto, fu spesa prevalentemente per opere realizzate nel Nord. Se l’unità, tanto per far notare un dato di una certa importanza, si fosse realizzata sotto gli auspici dell’idea federalista del lombardo Carlo Cattaneo, le cose sarebbero andate diversamente.

De Rosa ha inteso concludere cosí il suo saggio: “All’ansia del Piemonte di uscire rapidamente dallo stato di bancarotta nel quale si era immerso e all’impazienza di tutta l’Italia settentrionale di assicurasi subito un mercato addizionale per il collocamento dei suoi prodotti, il Sud non seppe opporre le aspettative e gli ideali dei suoi patrioti, che pure avevano sofferto il carcere, l’esilio ed anche la morte per la causa nazionale. Dimenticando che senza la fervida partecipazione della sua popolazione Garibaldi non avrebbe compiuto cosí facilmente la sua impresa, il Sud si adattò all’idea di essere conquistato e annesso alla nuova unità politica, assumendosi cosí anche la responsabilità di non aver contribuito a creare un’effettiva ed efficiente patria italiana” I [23].

Chi gestí l’Unità non fu all’altezza del sentire e del progetto dei migliori tra coloro che l’avevano voluta e realizzata. L’Unità andava fatta; è stato un bene farla. Ma è stata fatta male. Malissimo. Dopo l’impeto poetico (dovuto alla “generazione lirica e tragica”, ossia a quella parte costituita da limpide figure, degne della riconoscenza dei posteri), non poteva che arrivare la prosa, ma è stata una cattiva prosa, in linea con l’ottica mentale di chi aveva guardato all’Unità solo per calcolo. Dobbiamo convivere per sempre con un’Unità fatta male? Dobbiamo costantemente correre il rischio di una disastrosa rottura o comunque sentire ad ogni momento che bisogna farla finita con l’Unità? È giusto dire che va corretta. E per farlo è necessario risolvere la questione del Sud.

Perduta la possibilità di beneficiare di una profonda trasformazione sociale grazie all’egemonia di una moderna cultura tramite lo sviluppo industriale, al Mezzogiorno era rimasta, come forza egemone, la sua zavorra, manovrata da burattinai settentrionali contro gli interessi dello stesso Mezzogiorno, che in definitiva erano interessi della nazione. Sono arcinote, a tal proposito, le feroci invettive di Salvemini contro il rapporto da burattini a burattinai tra determinate forze del Sud con altre del Nord (nel suo linguaggio: tra le mafie del Sud e le mafie del Nord). Significativamente faceva notare che la “spedizione garibaldina fu per la maggioranza dei benpensanti settentrionali un atto di conquista vera e propria” [24]; ma, da spirito unitario e responsabile, ben chiariva, ovviamente, che il Sud e il Nord non erano e non sono solo questo.

La leggenda fiscale

l Mezzogiorno, comunque, anche allora veniva incolpato di tutto. Una leggenda corrente all’epoca riguardava il livello della tassazione. Il Sud, si diceva, paga poche tasse e vive alle spalle del Nord. Si diceva cosí, ma nessuno aveva chiesto il parere a carta e lapis (non c’era ancora la calcolatrice). Questo parere decise di chiederlo Nitti. Ed appurò, come anche altri, che le cose stavano alla rovescia. Il Sud, in proporzione alla sua ricchezza, pagava piú del Nord, non meno. La parte povera del paese era fiscalmente gravata piú della parte ricca ed in piú doveva sopportare la nomea dello scroccone di casa. Fortunato riconosceva non esserci piú “dubbio, dopo le sicure analisi e i minuti raffronti della grande indagine statistica, compiuta dal Nitti: il Mezzogiorno, comparativamente alla sua ricchezza, sopporta un onere tributario assai maggiore di quello che grava l’alta e la media Italia” [25]. La sperequazione venne documentata e ribadita anche da Salvemini: “l’Alta Italia –diceva lo storico pugliese- possiede il 48% della ricchezza totale e paga meno del 40% del carico tributario; l’Italia media possiede il 25 % e paga il 28%; l’Italia meridionale possiede il 27% e paga il 32%. Nel dare, il Meridione è all’avanguardia, nel ricevere è alla retroguardia” [26]. Eppure nel discorso comune non si trova traccia di questi dati. Esiste, viceversa, un generico pregiudizio di tipo opposto.

Agli storici è noto che dopo l’Unità la maggior parte delle tasse del Sud faceva un viaggio di sola andata, ossia non ritornava al Sud sotto forma di investimenti pubblici: lo Stato spendeva mediamente 50 lire per ogni cittadino del Nord e 15 lire per ognuno del Sud. Nel 1900 Nitti ebbe a scrivere: “Quando i capitali si sono raggruppati al Nord, è stato possibile tentare la trasformazione industriale. Il movimento protezionista ha fatto il resto e due terzi d’Italia hanno per dieci anni almeno funzionato come mercato di consumo. Ora l’industria si è formata e la Lombardia, la Liguria e il Piemonte potranno anche, fra breve, non ricordare le ragioni prime della loro presente prosperità [...] Il Nord d’Italia ha già dimenticato: ha peccato anche di orgoglio. I miliardi che il Sud ha dato, non ricorda piú: i sacrifici non vede” [27].

Fortunato era consapevole della necessità di non porre veli sui dati reali e nel contempo era giustamente interessato a bocciare le posizioni faziosamente rivendicazioniste, perché fiutava i pericoli di una polemica condotta fino in fondo. Pertanto, allo scopo di difendere una prospettiva unitaria in condizioni di chiaro ed equilibrato rapporto fra le varie parti del paese, aveva opportunamente argomentato sul comune giovamento – sia pur sbilanciato a scapito del Sud – tratto tramite l’Unità da parte dell’Italia intera.

Dalle pagine di storia patria risulta chiaro che il paese ha conseguito obiettivi di fondo ed è riuscito a crescere notevolmente, sollevandosi dalla penosa condizione in cui era precipitato. È riuscito a crescere grazie ad un insieme di fattori, tra cui una plurisecolare tradizione culturale, l’opera di una “minoranza lirica e tragica” che ha fatto il Risorgimento (pur in presenza di un vario e parallelo materiale umano su cui conviene stendere un velo pietoso), l’azione di minoranze di alto sentire che hanno riconosciuto, assecondato e difeso l’identità costruita dalla storia e curato gli interessi generali.

Sono stati i membri di queste minoranze a farsi costruttori e pedagoghi della nazione. Il panorama odierno non ci dice nulla di nuovo. Oggi, come ieri, le prospettive del paese sono legate alla generosità ed alla tenacia di minoranze attive e lungimiranti. È auspicabile che le minoranze di oggi, che lottano per grandi o piccoli obiettivi politici e civili nelle varie realtà, siano consapevoli dell’importanza della loro azione e della necessità di perseverare.

Andiamo a delineare un quadro di sintesi per capire meglio. La questione meridionale, pur avendo alcuni presupposti precedenti l’unificazione, maturò in seno allo Stato unitario come questione sociale legata al rapporto non felice tra il nuovo Stato e il Sud. È un aspetto che peraltro emerge con chiarezza nelle Lettere meridionali di Pasquale Villari e nelle successive indagini sul Mezzogiorno. La classe dei latifondisti, costituita dalla borghesia agraria e dagli ex baroni, in genere avida e gretta, e storica nemica delle masse contadine, era uscita rafforzata dalle vicende unitarie. Aveva accresciuto il proprio potere economico, catturando quote demaniali destinate ai contadini [28], ed aveva inoltre acquisito nelle proprie mani il potere politico che precedentemente apparteneva in esclusiva alla monarchia assoluta. Le masse contadine, in quella situazione, non vedevano spiragli che si aprivano in rapporto alla loro condizione sociale, bensí spiragli che si chiudevano. Per certi aspetti si venne a determinare una situazione analoga a quella emersa in Francia dopo la Rivoluzione. Questo enorme evento si era concluso con il dominio economico e politico della borghesia, ma il quarto stato aveva di che lamentarsi. Oltralpe questa situazione sfociò in una protesta che prese le forme del socialismo, che peraltro era per tanta parte una produzione intellettuale per il quarto stato e non dello stesso. Date le specifiche condizioni storiche in cui vivevano le classi subalterne meridionali, la delusione dei contadini nel Mezzogiorno –nell’immediato e nel lungo periodo- si manifestò (anche) come alimento del brigantaggio e come massiccio esodo migratorio.

Fatti e pregiudizi

A proposito del primo [brigantaggio], occorre precisare che non fu certamente generato dall’esito del processo unitario, ma fu vistosamente potenziato dallo stesso. Come fa notare anche Vivanti, è sintomatico che Villari, in appendice alle sue Lettere meridionali, riportasse un sintetico ed efficace giudizio di un ufficiale piemontese che aveva partecipato alla repressione del brigantaggio: questo fenomeno “trae unicamente origine dalla triste condizione sociale delle popolazioni, non dagli avvenimenti politici, che se possono aumentargli forza, non basterebbero mai a dargli vita” [1]. Per lumeggiare il rapporto del nuovo Stato con il Mezzogiorno basti ricordare che nel 1873 “una circolare ai prefetti del primo ministro e ministro degli interni, Lanza, invitava ad ostacolare con ogni mezzo l’espatrio dei lavoratori” [2]. La decongestione del mercato del lavoro non era negli spicci interessi dei latifondisti, e con quella circolare il governo correva in loro soccorso. Non si trattava di un fatto episodico. Era un atteggiamento costante. Per farsene un’idea è sufficiente scorrere qualche pagina al vetriolo di Salvemini, il quale descriveva con somma indignazione i comportamenti che assumevano al Sud le istituzioni statali. La tirannia dello spazio non ci consente di portare degli esempi, ma si può in qualche modo immaginare cosa possa esserci dietro parole di questo genere: “Un uomo del Nord – diceva – non ha la minima idea di ciò che [determinate denunce] significhino, perché il piú forcaiuolo e camorristico governo di questo mondo non si permetterebbe mai nel Nord neanche la millesima parte di ciò che si può concedere il governo piú liberale e onesto nel Sud” [3].
Lo Stato non si presentava come equo e garante per tutti. Verso le masse, e non solo, assumeva un volto persecutorio ed oppressivo. Fa allora meraviglia se ancora oggi lo Stato viene visto come “nemico”?. Un fenomeno sintomatico del modo in cui viene percepito lo Stato si verifica continuamente sulle strade. Allorché incontrano una pattuglia delle forze dell’ordine posizionata per servizio, tantissimi automobilisti azionano le luci lampeggianti per segnalare il “pericolo” agli automobilisti – perfetti sconosciuti – che incrociano. È una sorta di solidarietà che scatta tra lepri di fronte al cacciatore. In Svizzera avviene l’esatto contrario.

Nell’universo mentale collettivo, il rapporto tra immagine corrente del Sud e dati reali non ha avuto fortuna neanche dopo la prima fase dell’Unità. Procediamo schematizzando e saltando anche fasi importanti. All’epoca della prima guerra mondiale l’industria, ormai concentrata al Nord, doveva sostenere con la sua produzione lo sforzo bellico; di conseguenza nelle trincee non potevano, per ragioni ovvie e incontrovertibili, andare gli operai, bensí i contadini; quindi, per tanta parte, i contadini del Sud. La guerra, però, fu un potente fattore di sviluppo dell’apparato industriale nazionale. Il miracolo economico del secondo dopoguerra fu anche dovuto al contributo, interno ed esterno, dei lavoratori meridionali. Contributo interno: le industrie avevano bisogno di manodopera e tanta parte fu fornita dal Sud attraverso l’emigrazione interna. Primo contributo esterno: per funzionare, le industrie avevano bisogno di carbone e fu a tal riguardo decisivo il contributo dell’emigrazione in Belgio, in gran parte meridionale; infatti, fu stipulato un accordo tra Belgio e Italia: per ogni 1000 operai italiani che lavoravano nelle miniere, il Belgio si impegnava ad esportare in Italia 2500 tonnellate di carbone al mese. Secondo contributo esterno: il massiccio flusso migratorio in Europa alimentò con le rimesse in valuta il mercato meridionale, che svolse un ruolo decisivo per il decollo dell’industria settentrionale.

Quanto alla Cassa per il Mezzogiorno, istituita nel 1950, opportunamente viene ricordato da De Rosa che “al finanziamento della Cassa, nella sua originaria impostazione, non contribuí affatto la finanza pubblica italiana, e quindi il contribuente dell’Italia centro- settentrionale o del Mezzogiorno, ma la finanza pubblica statunitense” tramite il Piano Marshall [4]. Giova ricordare che la Cassa, benché si chiamasse “per il Mezzogiorno”, era in realtà uno strumento per risollevare le sorti di tutte le aree depresse. “Il programma della Cassa – pertanto – non riguardava soltanto il Mezzogiorno, ma anche la Maremma toscana e laziale, il Delta del Po, il basso Friuli, il fiume Arno, etc.” [5]. Fatto rilevante, e per tanti aspetti ovvio, data la struttura del sistema economi- co italiano: circa un terzo della spesa della Cassa fu assorbito dal Centro- Nord” [6].

Meno ovvi furono alcuni furbeschi dirottamenti di fondi dal Sud ad aziende del Nord. “Ad ostacolare l’industrializzazione del Sud – scrive sempre De Rosa – contribuí anche la tendenza a favorire la grande industria [...] Era stabilito che le infrastrutture consortili fossero a intero carico della Cassa, e quelle private ricevessero da essa solo un contributo del 40%. Ma questa distinzione fu aggirata in molti casi. Come riferisce Petriccione, che della Cassa fu autorevole consigliere di amministrazione, bastava ‘che due o piú imprese effettivamente indipendenti (o appositamente costituite) abbisognassero di una infrastruttura, perché questa venisse dichiarata consortile, fruendo del contributo dell’85% anziché del 40%’ “ [7]. Come tante volte è accaduto, in questi casi i fondi effettivamente usati per il Mezzogiorno erano inferiori a quelli formalmente dichiarati.

Tante volte si è quindi impropriamente potuto parlare di fiumi di denaro destinati al Sud: si trattava di denaro che il Sud in realtà non ha mai visto. Un fenomeno clamoroso, da questo punto di vista, è stata la spesa nominalmente straordinaria che diventava sostitutiva di quella ordinaria. A tale proposito l’economista Gianfranco Viesti mette bene in evidenza lo scarto tra cifre nominali e cifre effettivamente fruite dal Mezzogiorno quando afferma che spesso la “spesa ‘straordinaria’ sostitui[va] la spesa ordinaria: nelle regioni del Sud ven[ivano] realizzati, con l’ausilio delle risorse straordinarie della Cassa, strade e ferrovie, impianti elettrici e di telecomunicazioni, che l’ANAS, le Ferrovie dello Stato, l’ENEL e la SIP effettua[va]no nel resto del paese con le loro risorse ordinarie”. Il Sud, dunque, finiva spesso per avere somme “straordinarie” gonfiate di aria fritta. Data la propaganda fatta sulle cifre “straordinarie”, però, “l’opinione pubblica del Nord si convince che colossali risorse sono utilizzate (e in gran parte sprecate) nel Mezzogiorno” [8]. “Eppure – scrive De Rosa- l’intervento straordinario, come dimostrò lo stesso Saraceno, non era costato allo Stato italiano piú dello 0,50 % del reddi-to nazionale: quasi niente, rispetto a quanto erano costati all’Italia lo sviluppo e la preservazione dell’industria centro- settentrionale” (che ovviamente è interesse e patrimonio nazionale, come interesse e patrimonio nazionale dovrebbe essere lo sviluppo del Sud) [9].

La questione settentrionale

Generalmente si pensa che, comunque, l’intervento straordinario, che in realtà è stato straordinario solo in parte, avrebbe potuto sviluppare il Mezzogiorno, ma, precisa De Rosa, “se guardiamo all’intervento straordinario attuato nell’ultimo dopoguerra –come ha osservato giustamente Cafiero- ‘l‘intervento nell’area non pot[eva] essere sufficiente a determinare il decollo dell’economia meridionale’” [10]. Ma lo sviluppo del Sud, dice ancora De Rosa, è un obiettivo mancato dallo Stato unitario anche per via di “un’incapacità” che ha un “vizio d’origine: di avere cioè negato al Mezzogiorno, al momento dell’unificazione politica, l’autonomia necessaria e indispensabile per adattare entro un ragionevole lasso di tempo la sua concreta struttura all’indirizzo di politica economica perseguito dalla nuova classe dirigente” [11]. Nel discorso pubblico, dunque, diventa un peso il contributo nominale al Sud, ma non fanno peso ed opinione i dati appena espressi ed i fiumi di denaro che sono stati effettivamente fruiti dal Nord con una infinità di leggi, opportunamente citate da De Rosa, della cui dotazione il Sud ha beneficiato per lo 0,4%, 0,5%, 7%, 9% e via dicendo [12]. Un altro dato, non certamente marginale ai fini di un discorso di equità e di sviluppo: fino al 1961 (nazionalizzazione dell’energia elettrica) il Sud ha pagato tariffe elettriche “piú onerose” [13]. Ma il Sud, come dice la vulgata della Lega, non paga meno tasse del Nord? Per il passato, dati alla mano, Nitti ha dimostrato quanto fosse lontana dalla realtà questa convinzione. Ed oggi? Idem. Per appurarlo è sufficiente consultare i dati ufficiali, che Viesti ha messo a disposizione del grande pubblico mediante due saggi pubblicati di recente [14]. Si è spesso detto che negli ultimi venti anni di attività della Cassa per il Mezzogiorno si sono registrati sperperi di pubblico denaro. C’è qualcuno che può ragionevolmente negarlo?. Assolutamente no. Quando si levano queste sacrosante lamentele, tuttavia, sul banco degli imputati sale solo il Sud (in forma indistinta, peraltro). Come già accennato, si tace sulle responsabilità delle tante imprese del Nord che hanno beneficiato di quegli sperperi, talvolta organizzandoli. Tutti colpevoli e dunque nessun colpevole? Non è questa la logica che qui si vuole proporre. Gli sperperi e i latrocini sono fenomeni che vanno combattuti indipendentemente da chi e da quanti siano i responsabili. Si vuole semplicemente dire che la Lega e il suoi seguaci (interi o all’acqua di rose) non possono tenere insieme tre cose che non si conciliano: a) aver incassato notevolmente ieri; b) scaricare oggi sul solo Sud tutte le responsabilità, con contorno di contumelie; c) lanciare angelici saluti di addio. Non si può approfondire l’argomento complessivo, perché qui – ancora una volta per ragioni di spazio – la maggior parte del discorso resta necessariamente dietro le quinte, ma sul punto giova lasciare la parola a Giovanni Russo quando cita un dato significativo per capire che c’è un Mezzogiorno niente affatto indulgente, ma anzi decisamente stanco, nei riguardi di certe pratiche malsane. Russo rammenta che a suo tempo c’è stata una “raccolta [di] firme per il referendum che intende[va] abrogare gran parte dell’intervento straordinario nel Mezzogiorno” e fa osservare che “metà di quel milione e piú di sottoscrizioni provenivano dal Sud” [15].

È la questione settentrionale che agita il sonno a Bossi. Di che si tratta? Può essere schematizzata con le parole di Viesti. Dopo aver sintetizzato alcuni pregiudizi correnti sul Sud, tipo “la storia del Mezzogiorno è storia di sprechi infiniti, ripetuti in tutte le forme immaginabili, che hanno solo aggravato i problemi di quelle regioni”, l’economista pugliese dice: “Peccato che tutte queste opinioni siano espresse, normalmente, senza portare alcuna prova documentale; sulla base del sentito dire, della conoscenza episodica, della lettura di un articolo di giornale” [16]. Come ai tempi di Nitti, anche oggi le cifre dicono una cosa e i pregiudizi affermano altro. E Viesti lo dimostra puntualmente: “Fino agli anni Sessanta la spesa pubblica italiana era molto inferiore a quella degli altri grandi paesi europei, e largamente inferiore era la tassazione; con gli anni Settanta sono state realizzate importanti riforme che hanno notevolmente modificato questo quadro: dai cambiamenti nel sistema pensionistico al nuovo sistema sanitario nazionale” [17]. Queste riforme hanno comportato una notevole spesa non bilanciata da un corrispondente aumento della pressione fiscale. Negli anni Settanta e Ottanta il “Centro-Nord aveva un flusso di spesa pubblica pari al suo gettito fiscale” [18]. Il suo dare in termini di tasse, insomma, era pari a quanto otteneva. Il Sud, però, area economicamente debole, otteneva piú di quanto dava e questa differenza “era finanziata con nuovo debito pubblico. Lo Stato italiano si indebitava prevalentemente con i piú ricchi cittadini del Centro-Nord, a cui pagava lauti interessi per garantire la spesa al Sud. Ma cosí il debito pubblico italiano è cresciuto dal 55% al 120% del PIL” I [19]. In quelle condizioni, insomma, il Nord non solo non ci rimetteva in termini immediati, ma anzi ci guadagnava, dato che in misura maggiore beneficiava degli interessi sul debito pubblico.

Con quella situazione di bilancio, però, che registrava un debito pubblico del 120%, lo Stato si veniva a trovare sull’orlo della bancarotta. Occorreva apprestare dei rimedi. Il risanamento delle finanze pubbliche “ha comportato piú un aumento della pressione fiscale che una riduzione della spesa” [20]. Fu allora che cominciò a cambiare qualcosa. Aumentò la pressione fiscale (al Nord e al Sud), ma con una differenza. Il gettito fiscale del Nord non ritornava piú, grosso modo tutto intero, alle regioni di provenienza, ma una parte veniva utilizzata per compensare la minore capacità fiscale del Sud, meno ricco. Nella nuova situazione, tanto il Nord quanto il Sud avvertivano il maggior peso fiscale e nel contempo percepivano un corrispettivo non soddisfacente in termini di servizi pubblici. Questa nuova situazione finanziaria e questa insoddisfazione sono alcuni degli aspetti etichettati come questione settentrionale. La distanza tra accresciuto peso fiscale e scarsa qualità dei servizi pubblici, dice giustamente Viesti, non è un fatto localizzato al Nord, ma coinvolge tutto il Paese. Pertanto, afferma, sotto questo profilo, “la definizione [ossia, la questione settentrionale] è assai impropria: la questione vale a tutte le latitudini, è una vera e propria questione italiana”. [21].

Dove va la spesa pubblica

C’è un particolare, tuttavia. È vero che la crescente pressione fiscale grava sia sul Sud sia sul Nord, ma ora, a differenza di prima, il Nord paga anche per il Sud (anche se, come vedremo, non di piú rispetto al Sud, bensí – in proporzione – di meno). Da qui la protesta, che ha trovato il proprio paladino nel movimento leghista. In termini brutali, il messaggio e l’obiettivo sono chiari: ognuno si arrangia con i soldi che ha. Che un simile modo di pensare appartenga a Bossi e sodali non fa meraviglia. Desta meraviglia e perplessità, invece, che sia fatto proprio anche da Roberto Formigoni, presidente della Regione Lombardia, e della sua assemblea regionale. Secondo Formigoni, seguace esterno di Bossi, le risorse fiscali non sono dello Stato, ma “appartengono” alle regioni “perché sono del cittadino che paga” [22]. È sulle sue posizioni, come accennato, la maggioranza di centro – destra; ma, dal canto loro, i gruppi che poi hanno dato vita al Partito Democratico non sono andati oltre l’astensione sulla relativa proposta di legge approvata nel 2007 dalla Regione Lombardia per inviarla al Parlamento. Ancor piú meraviglia desta una simile impostazione quando viene fatta propria a livello nazionale. Come ricorda Viesti, infatti, quella proposta diventa un obiettivo esplicito del programma elettorale del Popolo della Libertà nel 2008 [23].

Bisognerebbe ricordare che il Sud, nei primi quaranta anni di vita unitaria, ha versato all’erario, senza ritorno, circa 100 milioni di lire in piú del dovuto? Il Mezzogiorno, che avrebbe dovuto avere sussidi per via delle sue condizioni, dava di piú a tutto vantaggio del Nord. Ricordarlo a Formigoni e Bossi serve sul piano polemico e su quello della verità storica, ma non è su quella via che va indirizzato seriamente il discorso. Uno Stato non dovrebbe avere per obiettivo e consuetudine la logica degli egoismi, bensí quella di un’equilibrata distribuzione delle risorse in base a criteri di solidarietà (principio peraltro stabilito dalla Costituzione, come opportunamente ricorda Viesti). Ad ogni buon conto, il Nord è quello che è in virtú di un passato dal quale, piú che dare, ha avuto. Ed ora si converte alla logica del “chi ha avuto ha avuto; chi ha dato ha dato”?

Inoltre, la Costituzione stabilisce due principi: la tassazione progressiva, in virtú della quale paga piú tasse chi ha piú reddito, e la perequazione per i territori piú deboli sul piano economico. Cosa ne deriva? A parte ogni considerazione di carattere civile circa la solidarietà nazionale – civile, appunto, e non pelosa – ed a parte la considerazione già fatta circa le radici storiche dell’attuale benessere delle regioni del Nord, sviluppando fino in fondo la ratio della posizione egoistica e immemore della Lega, si dovrebbe giungere alla conclusione che, per simmetria di strampalato ragionamento, anche i piú ricchi cittadini dello stesso Nord potrebbero adottare la medesima linea di ragionamento e rivendicare per sé il gettito fiscale di loro competenza. Ben si vede dove si può arrivare, di piccineria in piccineria. Può una nazione impigliarsi in simili sterpaglie? Si può anche comprendere la sopravvivenza di pulsioni tribali in qualche sottocultura, ma non si può ammettere che questa sottocultura infetti la nazione nel suo complesso.

Bossi e sodali hanno forse ragione sulle tasse? Il Sud paga forse meno del Nord? Se cosí fosse, dato che è la parte meno sviluppata del paese, sarebbe normale. Ma i dati che si possono reperire tranquillamente, e doviziosamente forniti da Viesti, conducono alle stesse conclusioni a cui giunsero ieri Nitti ed altri studiosi. Il Mezzogiorno, in altri termini, dovrebbe in proporzione pagare di meno e invece paga di piú: “Fra il 1996 e il 2006 le entrate fiscali pro capite al Sud sono cresciute del 56,4% [...] [e] nel Centro- Nord del 36,4%, pur in presenza di una crescita economica grosso modo simile fra le due aree”. Come si spiega? “Con meno risorse disponibili –dice Viesti- enti locali e Regioni del Sud hanno utilizzato la propria capacità di imposizione fiscale. L’addizionale IRPEF in media è dell’1,23% al Sud e dell’1,03 al Nord; la leva fiscale dei Comuni dell’81,1% al Sud e del 69,1% al Nord. [In definitiva] i cittadini delle regioni piú povere (e con meno servizi pubblici), a parità di reddito, pagano piú tasse” [24].

D’accordo, pagano piú tasse; però – si potrebbe pensare- introitano bastimenti di trasferimenti pubblici che derivano da tasse pagate da altre regioni. Un aspetto dell’argomento (il principio di perequazione territoriale, con l’aggiunta delle radici storiche dell’attuale ricchezza del Nord) è già stato trattato prima. Resta da vedere quanto il Sud dovrebbe avere e quanto in realtà ottiene. Non è possibile riportare tutti i dati contenuti nel saggio di Viesti, ma vale la pena notare quanto segue: “Nel 2006 le spese per investimenti pubblici sono ammontate a 58,3 miliardi di euro nel Centro-Nord (72% del totale) e a 16,3 miliardi di euro nel Mezzogiorno. Nella media 2000-2006 gli investimenti pubblici pro capite sono stati 680 euro al Sud e 946 euro al Centro-Nord, con uno scarto che si è significativamente ampliato nel tempo” [25]. Ed è oltremodo significativo quanto Viesti fa ancora notare: “Scopriamo cosí, guardando alle cifre ufficiali, che tutta questa colossale spesa per lo sviluppo del Sud negli ultimi dieci anni non c’è stata, cosa curiosamente sfuggita a tanti dotti commentatori” [26]. Ma a quale ammontare, espresso in percentuale sul totale, aveva diritto il Sud? Fatti tutti i calcoli, tra risorse interne e comunitarie, avrebbe dovuto avere il 45%. [27]. Questo obiettivo, “che – dice Viesti – i diversi governi di centro-sinistra e di centro-destra si erano dati, non è mai stato raggiunto” [28]. Perché? Perché ancora una volta ciò che doveva essere “straordinario”, e quindi aggiuntivo, è stato “sostitutivo di mancata spesa ordinaria” [29], che è rimasta nelle casse dello Stato. Il Sud, in definitiva, ora come allora (Cassa per il Mezzogiorno), non ha ottenuto quanto era stato concordato. Eppure, nonostante ciò e tra le mille difficoltà che incontra ovunque ogni area arretrata, il Sud è cambiato e sta cambiando, grazie all’impegno tenace ed alle lotte della sua parte onesta e responsabile contro la parte che costituisce una pesante zavorra.

Per concludere, pur senza avere esaurito l’argomento, andiamo a verificare la spesa corrente. È almeno lí che il Sud ottiene di piú? “Il cittadino del Sud – riporta Viesti, riferendosi ai luoghi comuni- riceve troppo rispetto a quanto riceve un cittadino del Nord. Questa ipotesi, di senso comune in Italia e su cui moltissimi, indipendentemente dalla latitudine a cui vivono si sentirebbero di convenire, è perfettamente verificabile. Ma, sorpresa, è falsa. Nel 2006 la spesa pubblica pro capite è stata in Italia pari a 14.141 euro. Il valore sale a 15.719 euro nel Centro-Nord e scende a 11.253 nelle otto regioni del Mezzogiorno. Dunque, un cittadino del Sud, in media, beneficia di una spesa pubblica corrente del 28% inferiore rispetto a un cittadino del Centro-Nord. Tale scarto è rimasto costante nel corso degli anni: quello che vale per il 2006 vale anche per gli anni precedenti” [30]. Anche se incompleto, questo quadro di dati smentisce la vulgata leghista circa la questione del Meridione e ribadisce il concetto del Mezzogiorno come questione nazionale.



Testo tratto da:
DueSicilie.org
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di Santo Prontera - da Mondoperaio 3/2010


l clima in cui si va a celebrare il 150° anno dell’Unità nazionale non è certamente il piú adatto alla ricorrenza. Nel prevalente discorso pubblico attuale – pesantemente condizionato dalla Lega, ben al di là del suo peso elettorale – si stenta a riconoscere l’evento come meritevole di adeguato apprezzamento. Sembra che quel grande appuntamento storico non abbia prodotto gli esiti sperati per colpa del Mezzogiorno, inizio e fine di tutti i mali. È veramente cosí? Per la Lega non ci sono dubbi. Tanti opinionisti, però, di dubbi dovrebbero averne, eppure fanno da codazzo mediatico alla stessa Lega. Questo fenomeno solleva necessariamente una domanda: quale tasso di contenuto storico si può rintracciare in tutto ciò che si dice del paese e del Sud, e del rapporto di questo con quello? Il Sud si trova incastrato nella morsa di due realtà di diverso tipo. È realtà la storia, ossia l’insieme dei fatti realmente accaduti; ed è realtà anche l’insieme delle credenze che vivono nella cultura collettiva con riferimento a quei fatti. Le credenze sono realtà in quanto matrici di conseguenze concrete. Le credenze, infatti – indipendentemente dalla corrispondenza tra le stesse e i fatti – hanno il potere di generare comportamenti sociali e, in seguito a questi, anche decisioni politiche.
Nessuno deve fare sconti al Mezzogiorno per gli aspetti di debolezza che esprime sul piano sociale, politico ed etico-politico. Ma non è interesse di nessuno –né dello stesso Mezzogiorno né del paese nel suo complesso- gravare la vita nazionale con una distorta visione dei fatti, che nasce dal ruolo soverchiante assunto dai pregiudizi sui giudizi. È una situazione che scaturisce da un riciclaggio continuo dei pregiudizi di ieri e dai problemi osservati in forma istantanea e non diacronica. A furia di cavalcare i pregiudizi si finisce col dare fiato alle trombe delle posizioni leghiste da un lato ed a quelle delle contro-leghe del Sud, con il rischio di alimentare i processi di spaccatura del paese.

Il Mezzogiorno non è un tutto negativo ed indifferenziato, ma è almeno duplice. C’è un Mezzogiorno positivo che si oppone drasticamente al Mezzogiorno negativo. Ragionare in termini di pregiudizi, e non già di fatti e processi storici e politici, favorisce il secondo e danneggia il primo e l’intero paese. Il Mezzogiorno è certamente un problema, ma non si va da nessuna parte se non si tiene presente che è anche frutto di una storia unitaria alla quale sono mancate diverse virtú. Alla grande cultura nazionale – quando si cimenta con meriti e demeriti del Sud e del Nord – si possono addebitare peccati d’uso della scienza e, diciamo cosí, di ipo-esercizio di ruolo, ma al leghismo, che lo voglia o no, occorre pur dire, schiettamente e direttamente, come diceva Francesco Saverio Nitti, che certamente “i meridionali hanno politicamente tanti torti, ma nemmeno i torti bisogna esagerare!”.

Una tematica come la questione meridionale, demonizzata dalla Lega, non trova ormai da tempo alcuna forma di accesso in determinati ambienti politici e culturali (anche esterni alla stessa Lega). È tuttavia impossibile prescindere dalla stessa se si intende leggere il presente in prospettiva futura. Oggi, in pieno leghismo – sia doc che spurio – è bene rammentare da quale storia venivano le due parti del paese all’atto dell’Unità e cosa avvenne successivamente. Reputando condivisibile l’impostazione di alcuni studiosi e non già quella di chi non è d’accordo col mettere in mezzo cause precedenti l’Unità , ritengo che, per comprendere le radici piú profonde della “questione meridionale”, e quindi per lumeggiare le cause di alcuni aspetti che tribolano il nostro presente, occorra paradossalmente fare almeno qualche accenno intorno ai Comuni, ossia alle libere città dell’Italia centro-settentrionale che dopo l’anno Mille gradualmente sgretolarono il sistema feudale, gettando le basi della modernità e, in definitiva, come ha tra gli altri ampiamente argomentato Luciano Pellicani , dell’attuale civiltà del mondo occidentale.

Nel centro-nord del paese il feudalesimo fu un portato del Sacro Romano Impero di Carlo Magno. Il sud d’Italia, in termini formali e sostanziali, non fece parte di quell’impero. Una parte costituiva una zona d’influenza carolingia esterna all’impero, un’altra parte era inclusa nell’Impero bizantino, un’altra parte ancora era sotto il dominio dei musulmani. A parte i precedenti rapporti dualistici di cui parla Giustino Fortunato , si può dire che fu nel periodo dei Comuni che il Nord e il Sud del Paese presero strade diverse. Anzi, diametralmente opposte. Da un lato il Nord usciva dal feudalesimo (iure langobardorum, frazionabile fra tutti i figli e quindi predisposto ad un indebolimento progressivo che ha facilitato l’avvento delle città) e dall’altro lato il Sud (che fino ad allora ne era rimasto fuori) vi entrava. In quel periodo, infatti, il Sud, per opera dei Normanni, cominciava a fare la sua esperienza feudale (iure francorum; quindi feudo trasmissibile solo al primogenito e caratterizzato da un’importanza politica piú solida) . Prima dell’avvento dei Normanni, le dinamiche socio-politiche del Mezzogiorno erano analoghe a quelle del Nord, ossia caratterizzate dalla tendenza al “particolarismo”. Corrado Vivanti fa opportunamente notare che, negli stessi anni in cui i feudi del Nord si disgregano a vantaggio delle autonomie cittadine, “il particolarismo e il progressivo frazionamento del potere territoriale nel Mezzogiorno bizantino e longobardo sono invece arrestati, e il feudalesimo, nelle sue forme piú perfezionate, impone un processo inverso, diventando la struttura portante del nuovo regno normanno” . Lo stesso concetto si trova in Giuseppe Galasso: “Il particolarismo, la tendenza irrefrenabile ad un processo di progressivo frazionamento del potere territoriale era stata [...] la logica autentica della storia meridionale fino all’arrivo dei Normanni, cosí come lo era stata della storia italiana ed europea dello stesso periodo” .

Pur con tutto il bene che si è detto del Regnum, il dato di fatto è questo: con l’epopea normanna, nel Sud vennero demoliti i presupposti di sviluppo che il Nord cominciava a costruirsi. Sintomatica a tal proposito fu l’esperienza di Amalfi. “Quando il Comune di Firenze era appena bambino – afferma Gaetano Salvemini – la Repubblica d’Amalfi mandava le sue navi per il mediterraneo”. E il suo successo si inquadrava in un contesto sviluppato. Infatti “l’Italia meridionale, la Sardegna e la Sicilia – afferma ancora Salvemini- furono dal secolo X al XIII i paesi piú floridi d’Italia” . Prima in ordine di tempo tra le città marinare, Amalfi decadde non solo per i conflitti con le altre nascenti potenze navali della penisola, ma anche per la perdita di ogni autonomia. E il destino di Amalfi si tirò dietro anche quello di altre incipienti esperienze similari. Galasso fa notare che la realtà meridionale “fino all’arrivo dei Normanni appariva [...] ricca di slancio e di possibilità” e le città meridionali “in epoca pre-feudale avevano acquisito rilievo nelle rispettive regioni per il loro sviluppo verso un regime aristocratico di tipo (se cosí si può dire) paracomunale o precomunale e per la loro forza economica” . La feudalizzazione bloccò questo movimento storico e lo invertí di segno rispetto al Nord.

Il regno normanno

In termini socio-strutturali di lungo periodo, dunque, la fondazione del regno normanno risultò assolutamente deleteria. Le dinamiche sociali innescate per via politica condussero il Mezzogiorno alla perdita di quei ceti che sono la base portante di una moderna società di mercato. A tal proposito Carlo M. Cipolla, proseguendo nel discorso visto sopra, afferma quanto segue: “Ai nastri di partenza dello sviluppo medievale, che vide subito l’Italia porsi all’avanguardia nell’economia europea, non si può certo dire che il Mezzogiorno giungesse in ritardo rispetto al Nord”. La divaricazione avvenne dopo. Infatti i “monarchi normanni (e poi i loro successori svevi e angioini), che erano i maggiori proprietari fondiari del regno, e con essi i cavalieri, i vescovi e gli abati a cui erano andati i grandi feudi concessi dopo la conquista, avevano tutto l’interesse a dare libero corso alla pressante richiesta di grano e di materie prime del Nord e dell’Occidente. D’altra parte i mercanti italiani centrosettentrionali erano rappresentanti di potenze navali, delle quali era inevitabile coltivare l’amicizia e il sostegno. A essi i re non si facevano scrupolo di concedere favori e privilegi commerciali, che evidentemente non avevano alcun motivo di estendere ai propri sudditi. Nei confronti delle sue città la monarchia si sentiva semmai in pieno diritto di limitare le autonomie istituzionali, e anche le ‘libertà’ fiscali, precedenti alla fondazione del regno. Per i mercanti locali diventava difficile sostenere la concorrenza delle aristocrazie commerciali dell’Italia dei comuni, che nelle proprie libere città-stato erano invece riuscite a prendere in mano sia il potere economico sia il potere politico. Ad ogni modo, con il proseguire della rinascita urbana e dello sviluppo tecnologico e manifatturiero dell’Europa, tutta la struttura degli scambi si trasformò in modo da impedire alle città meridionali di continuare a esercitare funzioni autonome di intermediazione fra Oriente e Occidente [...] Da allora , fra le ‘due Italie’, si instaurò una sorta di divisione del lavoro e una relazione economica che non sarebbe piú stata modificata” . Sul piano storico, le conseguenze subite dalla società meridionale ad opera della “gabbia” politica rappresentata dal Regnum furono rovinose. Infatti “l’economia di mercato delle regioni meridionali iniziò a dipendere quasi completamente da manufatti di importazione, sia per i consumi di lusso della nobiltà feudale sia per quelli degli strati sociali medi e inferiori, e alla lunga si trovò anche in difetto di ceti artigiani e mercantili indigeni. Le città meridionali non avrebbero piú avuto modo di conoscere uno sviluppo di tipo industriale e commerciale” .

Alla vigilia del 1900 Salvemini, riferendosi agli effetti del passato feudale sul lungo periodo come ad una delle malattie del Sud, sottolineava e precisava che tale malattia “è antichissima ed è tutta speciale del Mezzogiorno. È la struttura sociale semifeudale, che è di fronte a quella borghese dell’Italia settentrionale un anacronismo [...] Nelle cause di questa malattia non c’entrano né il clima né la razza; le cause sono esclusivamente sociali. Nel secolo XII, al tempo dei Normanni, e nella prima metà del XIII, sotto gli Svevi, nell’Italia meridionale prevaleva la piccola proprietà; e parecchie regioni oggi infestate dal latifondo, dalla malaria e dalla prepotenza dei baroni e dei cavalieri, davano vita ad una popolazione molto piú densa dell’attuale, laboriosa, fiorente di ricchezze. Sotto i Normanni e gli Svevi la nobiltà fu tenuta a freno e talvolta anche oppressa; gli ecclesiastici ebbero ricchezze e potere molto limitati. Il feudalesimo vero e proprio entra nel Mezzogiorno con gli Angioini [...] E la nobiltà feudale usò del suo potere come ha sempre fatto, quando ha potuto affermare la propria supremazia: i piccoli proprietari scomparvero, la campagna si spopolò, le terre comuni vennero usurpate, i diritti piú esosi vennero riscossi dai feudatari divenuti sovrani nelle loro possessioni; e alla fine del secolo XV la rovina delle classi medie era definitivamente compiuta. La dominazione spagnola non fece che aggravare la situazione aggiungendo ai nobili indigeni nobili nuovi” .

In definitiva, la politica del Regnum uccise proprio i ceti che altrove erano (e lo sarebbero stati sempre piú) i protagonisti di una nuova civiltà, ossia i responsabili primari della ricchezza e del progresso materiale e intellettuale. Da questo punto di vista il Sud rappresenta una netta conferma della tesi, ampiamente documentata da Luciano Pellicani nelle sue opere , secondo la quale sono i fattori politici che governano la genesi e lo sviluppo delle dinamiche economiche sul piano storico (e non viceversa). Il Sud, che per certi aspetti era partito in vantaggio sui binari della storia, fu condotto dalle vicende politiche in un buio tunnel.

Lʼindustria dei Borbone

La feudalità nel Sud durò fino alla sua eversione ad opera dei napoleonidi, iniziata nel 1806. In circa otto secoli, dunque, l’economia di mercato da una parte ed il sistema feudale dall’altra plasmarono in modi diversi ed opposti le due parti del paese. Eppure, come si vedrà appresso, la società meridionale, pur avendo perso sui patiboli del 1799 buona parte di un nucleo di classe dirigente di nuovo tipo per vedute e prospettive, non giunse all’appuntamento unitario priva di ogni presupposto di moderno sviluppo. Certamente il Nord aveva dalla sua immensi vantaggi storico – ambientali (il Nord era una normale società “borghese” di fronte ad un Sud semi-feudale), ma il Mezzogiorno, pur con tutti i suoi aspetti di arretratezza, giunse all’appuntamento unitario con un suo nucleo proto-industriale (comparabile con quello del Centro-Nord) che avrebbe potuto funzionare come lievito modernizzante. Sintetizzando, Nitti poteva dire che “al momento dell’unione l’Italia meridionale avea tutti gli elementi per trasformarsi” . Nel momento storico dell’Unità né il Centro-Nord né il Meridione erano società economicamente avanzate. Entrambe le aree misuravano distanze enormi rispetto alle nazioni europee piú progredite. Tanto al Nord quanto al Sud c’erano solo barlumi e balbettii di industrializzazione. Il Sud, comunque, aveva i suoi balbettii e i suoi barlumi, che talvolta sopravanzavano quelli del Nord. Ai fini del discorso che qui si conduce, potremmo semplicemente limitarci a dire che nel Sud, quando giunse a compimento l’Unità, era in atto un interessante processo di industrializzazione, ma, data la tenacia dei pregiudizi che rivestono l’idea del Sud, è opportuno fornire esempi specifici del fenomeno.

Nel saggio La Provincia subordinata, Luigi De Rosa scrive che “nel 1861, come è stato riconosciuto, Napoli e Genova rappresentavano i centri in cui si era concentrata l’industria metalmeccanica”. La presenza industriale al Sud era frutto di iniziative statali e private, sia locali che straniere. “Pietrarsa, l’opificio di maggior rilievo, rivaleggiava, con i suoi 1000 tra operai e tecnici, con l’Ansaldo di Genova – Sampierdarena. Alla vigilia dell’unificazione del paese, aveva già costruito 22 locomotive e fornito le macchine ad alcuni vapori [...] Della costruzione di macchine a vapore si era occupata anche la Guppy e Pattison [...] Era considerata la seconda officina d’Italia”. Vi era poi un “terzo complesso metalmeccanico, la Macry ed Henry”, che produceva “macchine fisse a vapore e di locomobili di discreta potenza”. “A questi stabilimenti – continua De Rosa – andavano aggiunti gli arsenali navali di Napoli e Castellammare di Stabia, che Nitti riconobbe essere stati, al 1861, i piú importanti d’Italia. Nel quinquennio precedente l’unificazione politica del paese quasi ogni anno vi si era varata una nave da guerra”.

Non era questo l’unico settore di importanza rilevante.
“Risultati piú consistenti – aggiunge De Rosa – si erano ottenuti nel settore tessile. In primo luogo, nell’industria del cotone [...] in attività alla periferia di Salerno e nel retroterra di Napoli [...] In un solo stabilimento erano concentrati 40.000 dei circa 500.000 fusi allora in attività in tutta Italia, con oltre 1.500 lavoratori occupati [...] Risultati confortanti si erano ottenuti, grazie alla Società industriale partenopea, anche nel settore della pettinatura, cardatura e filatura del lino e della canapa. Nello stabilimento di Sarno lavoravano 800 operai [...] Né si trattava dell’unico stabilimento del genere. Altri stabilimenti, meritevoli di menzione per la qualità del prodotto, operavano in Piedimonte d’Alife, Pagani, Scafati, Salerno [...] Ancor piú brillanti i risultati ottenuti nel settore laniero, nel quale si distinguevano i lanifici di Sava, Zino, Polsinelli, Manna, Ciccodicola. Quello di Sava [...] per fronteggiare la crescita della domanda, aveva dovuto fare ricorso a subappalti e prendere in fitto altri stabilimenti, adottando una strategia imprenditoriale che gli consentiva la massima elasticità e adattabilità. [...] Importante era anche l’industria della carta. Il suo prodotto [...] era largamente esportato, ad onta dell’alto costo del trasporto, sia nell’Italia centro-settentrionale (a Torino, Milano, Bologna, Firenze) sia all’estero”. Uno dei fattori del successo di questa industria, dice De Rosa, era la possibilità “di ottenere a discrete condizioni la materia prima, cioè gli stracci, i quali nel Napoletano abbonda[va]no ed [erano] di buona qualità” . Dopo l’Unità, tuttavia, questa industria “scomparve quasi del tutto [...] a causa della fortissima diminuzione del dazio sulla esportazione degli stracci: da lire 28,25 a lire 8” . A tutto questo discorso vanno aggiunti la lavorazione della seta a San Leucio, da cui erano usciti i drappi per la Reggia di Caserta, e altri settori di non trascurabile importanza. “Nel complesso –riassume De Rosa- si può dire che metalmeccanico, tessile, carta e cartoni erano assurti a settori – guida della trasformazione industriale [del Sud]. Va da sé che tutte le arti e i mestieri fornivano ai consumatori napoletani una vasta gamma di altri prodotti industriali, alcuni dei quali – come per esempio i guanti, i pianoforti Sievers, i vetri – avevano ricevuto un considerevole consenso anche sul piano internazionale, tanto da alimentare una non insignificante esportazione” .

L’unità leonina

Nel Mezzogiorno di allora queste premesse e promesse di industrializzazione rappresentavano gli aspetti moderni che, opportunamente coltivati e sviluppati, avrebbero potuto gradualmente prendere il sopravvento sugli aspetti di arretratezza. Si trattava, comunque, di un panorama industriale che prosperava al riparo di forti barriere protezionistiche. Non tenendo conto di ciò (per ragioni che qui non vengono approfondite), la politica economica dello Stato unitario, che non aveva autodifese territoriali a carattere federale, ma era emanazione “piemontese”, spazzò via in poco tempo tutto quel panorama. “Il nuovo Regno – dice De Rosa – adottò infatti la tariffa doganale piemontese, di marca cavouriana, e dopo quella toscana, la piú liberista tra quelle praticate negli ex Stati italiani” [1]. Tra parificazione al ribasso delle tariffe interne ed ulteriori ribassi concordati con Stati esteri, ben presto, ossia già nel 1863, “le tariffe napoletane subirono una riduzione di circa l’80%” [2]. Un’autentica cura da cavallo. Risultato: “Nessuno dei settori che avevano registrato segni di modernizzazione e di progresso sfuggí alla crisi” [3].

La “classe industriale” del Meridione espresse invano preoccupazioni e proposte. Non chiedeva di mantenere alte per l’eternità le barriere doganali. “Sollecitava – nota De Rosa – solo la concessione di un ragionevole lasso di tempo per adattarsi alla nuova politica tariffaria. Il suo giornale, L’industria italiana, sostenne piú volte che ‘le tariffe doganali voglion essere gradatamente ridotte; la concorrenza di estere nazioni ammessa solo a gradi a gradi’” [4]. Per dialogare, però, c’è bisogno di un interlocutore disposto ad ascoltare. Si dà il caso che alcuni ministeri rispedirono al mittente le copie della rivista che gli editori si erano permessi di mandare. Gli industriali meridionali avevano di fronte un interlocutore chiuso in astrattismi ideologici (nel migliore dei casi). È ben vero, infatti, che il liberismo era la teoria corrente nei paesi piú sviluppati, ma corrispondeva agli interessi dei medesimi, i quali, in qualità di pesci grossi, tutto avevano da guadagnare in un confronto squilibrato con pesci piccoli. Rosario Romeo ha affermato che quell’astratta ed estremistica politica commerciale è stata indicata da piú parti come “l’inizio della conquista economica del Sud e del regime quasi coloniale di subordinazione del Mezzogiorno al Settentrione d’Italia” [5]. La Giunta provvisoria di Commercio di Napoli, nominata dalle nuove autorità unitarie, in una relazione del 12 giugno 1861, sollecitata dal Ministero dell’Agricoltura, Industria e Commercio per conoscere le “condizioni economiche delle diverse province del Regno”, levava forti lamentele circa la scarsa attenzione riservata dal Parlamento alle esigenze dell’apparato industriale meridionale: “Le industrie che oggi fioriscono in questa parte meridionale d’Italia non sono di piccola considerazione, anzi avuto rispetto alle condizioni infelici in cui sono stati questi popoli, può dirsi che il suo progresso industriale sia stato grande, come quello che non è secondo a molti Stati d’Europa, e forse molti ne avanza [...] E però non senza un forte rincrescimento noi della meridionale Italia abbiamo inteso dal seno del nostro Parlamento con leggerezza, e quasi disprezzo farsi nessuna ragione di queste industrie nostrali, anzi averle quasi in dispregio, come cosa vile e da poco”. Nella stessa relazione si faceva notare che le industrie meridionali “non versa[vano] nella piú favorevole condizione, anzi [erano] minacciate di rovina” per via del nuovo sistema di tariffe doganali “che [aveva] ap[erto] improvvisamente la barriera alla concorrenza straniera, senza aver curato quei provvedimenti opportuni per i quali solamente si [sarebbe] pot[uto] andare senza scossa da un sistema protettore a uno opposto” [6]. Come investito da uno tsunami, crollò questo primo modello economico del Mezzogiorno, il quale, perdendo il nucleo di una sua possibile trasformazione, restò con tutti i problemi che successivamente la memoria collettiva ha raccolto.

Dopo il crollo di questo modello economico “industrialista”, per il Sud fu giocoforza orientarsi verso un nuovo “modello”. Fu cosí – dice De Rosa – che l’agricoltura “diventò l’attività principale del Mezzogiorno” [7]. Dapprima divenne grande produttore ed esportatore di cereali e poi, con l’Europa “progressivamente invasa dai grani americani venduti a prezzi del 30-40 % inferiori” [8], potenziò le colture pregiate, come la vite, l’olivo, gli agrumi. Ma neanche per questo modello subordinante e di ripiego ci fu pace. “Questa crescita – scrive De Rosa- subí –come è noto – una drammatica interruzione dopo che fu approvata nel 1887 la tariffa protezionistica voluta da Crispi, su pressione degli interessi centro- settentrionali” [9]. L’industria, che era “ormai concentrata quasi completamente nelle tre regioni del Nord: Lombardia, Piemonte e Liguria” [10], per reggere la concorrenza estera sul mercato interno, chiese con insistenza (e poi, tra il 1877 e il 1878, ottenne) provvedimenti di protezione doganale, gli stessi che erano stati negati a quella del Sud prima che questa finisse nell’archivio dei ricordi. Le nuove tariffe doganali scatenarono la reazione della Francia e a farne le spese fu l’agricoltura meridionale, vittima delle ritorsioni dei cugini d’oltralpe. Infatti, per i mercati dei prodotti agricoli meridionali “il mercato francese, per rappresaglia, si chiuse alle esportazioni italiane”, determinando una caduta dei “prezzi del vino e dell’olio” [11]. Conseguenza diretta di questa disastrosa crisi per l’economia meridionale fu la “crescente e consistente corrente migratoria verso il Nord e il Sud America” [12].

Nordici e sudici

Come mai il Mezzogiorno non riusciva a difendersi sul piano politico? Per via della becera classe dominante, cinicamente utilizzata dalle mene altrui. Scrive De Rosa: “Nel 1899 esplose lo scandalo della corruzione maturata in seno al Comune di Napoli, favorito in larga parte dalle mene degli interessi settentrionali” [13]. Quale fosse in buona parte il tenore della deputazione meridionale in Parlamento e a quali interessi rispondesse, lo disse, con profonda indignazione, Giustino Fortunato. Per lo studioso lucano il governo dell’Italia era “la gran macchina senza onore e senza pudore che fa[ceva] e disfa[ceva] – quaggiú – i deputati, avvocati per il maggior numero, o possidenti incolti e voraci; avvocati, che la deputazione fa[ceva] ricchi; possidenti, che la deputazione fa[ceva] onnipotenti [...] Il Settentrione capitalista e militarista fa i suoi affari, restando al timone dello Stato, grazie alla degradazione politica del Mezzogiorno” [14]. Mentre Nitti scriveva: “Nel 1860, soprattutto dopo il 1876, l’Italia meridionale è stata considerata come il paese destinato a formare le maggioranze ministeriali. I prefetti quasi non hanno altra funzione che di fare le elezioni. Un ex ministro raccontava alla Camera avergli un prefetto dichiarato essere arbitro delle elezioni, poiché poteva mandare tutti i sindaci della sua provincia in carcere. Si è speculato da ogni partito sull’ignoranza e sul dolore. Dove bisognava tagliare il male, si è incrudito. Intere regioni sono state abbandonate a clientele infami” [15]. Dal canto suo Salvemini, spiccio e sanguigno come sempre, tuonava: “Che i settentrionali sfruttino i meridionali, non c’è dubbio, ma che cosa fanno i meridionali per non essere sfruttati? I ‘nordici’ trovano proprio fra i ‘sudici’ i peggiori strumenti del loro sfruttamento economico e politico” [16]. Ancora oggi, del resto, tanti industriali del Nord fanno i propri affari entrando in combutta con le mafie del Sud per lo smaltimento di rifiuti tossici.

De Rosa ha anche scritto una monumentale Storia del Banco di Napoli [17], nella quale si descrivono le singolari vicende dell’istituto bancario partenopeo in rapporto alle altre banche centro- settentrionali. Dopo essere stato ostacolato dal regime borbonico quanto a modernizzazione e strategie di sviluppo, questo istituto bancario non fu meglio trattato dallo Stato unitario. Da quelle pagine emerge con chiarezza, anche per i non addetti ai lavori, quanto il governo sia stato super partes e quanto sia stato giocatore di una squadra in campo. All’atto dell’Unità le banche piú importanti erano due: la Nazionale, con sede al Nord, e il Banco di Napoli. Quest’ultimo, però, disponeva di una maggiore riserva aurea. Dopo l’Unità, alla Nazionale fu subito permesso di aprire filiali nel Sud, facendo cosí concorrenza al Banco di Napoli, ma a quest’ultimo il permesso di aprire filiali al Nord non arrivò prima della fine del 1865. Quali furono le conseguenze? Le filiali della Nazionale aperte al Sud rastrellavano cartamoneta emessa dal Banco e poi, presentandosi agli sportelli del medesimo, chiedevano il cambio in oro, dato che allora era vigente il sistema della convertibilità. In tal modo si operava un vero trapasso di oro dal Banco alla Nazionale. Il risultato non era di poco conto. Le banche, infatti, potevano emettere tre lire di carta per ogni lira di oro posseduto. Ciò significa che, con il favoritismo ottenuto dalla Nazionale, si trasferivano dal Sud al Nord notevoli capacità di credito, a tutto vantaggio del sistema economico del Centro-Nord. Dopo il 1865, però, al Banco di Napoli, con le sue filiali al Nord, fu possibile solo in parte sviluppare la propria attività e la propria azione di difesa nei confronti della Nazionale, perché l’istituto di emissione napoletano fu boicottato. E non solo dalle banche del Centro-Nord. A Roma, ebbe a dire un alto funzionario del Banco di Napoli, il Cuciniello, la carta emessa dall’istituto partenopeo “non [veniva] ricevuta dalle Amministrazioni dello Stato”. Un altro dato interessante, tra i tanti, si riferisce all’emissione di carta- moneta, vincolata al rapporto 1 a 3 rispetto alle riserve auree possedute. Il Banco di Napoli, sottoposto all’azione di drenaggio politicamente coperta, manteneva prudentemente la sua emissione al di sotto delle effettive possibilità; la Nazionale, viceversa, usava sconfinare –evidentemente per motivi opposti- oltre le possibilità consentite dalla legge.

È opportuno considerare alcuni dati significativi. Con l’operazione “drenaggio” effettuata dalla Nazionale le riserve auree del Banco di Napoli, che nel 1863 ammontavano a 78 milioni, si ridussero, alla vigilia del corso forzoso (sospensione della convertibilità cartamoneta/oro) a 43 milioni. La differenza fu acquisita dalla Nazionale, la quale, però, dal 1860 al 1866, vide aumentare le sue riserve auree di soli 6 milioni. Dove finiva l’oro? La Nazionale sosteneva banche piú piccole, di credito mobiliare, impegnate a finanziare un sistema di industrie in crisi. Una nota a margine: al Sud fu impedita la costituzione di banche mobiliari, per operare allo stesso modo che al Nord. In sostanza, il sostegno alle industrie settentrionali veniva assicurato con il trasferimento di oro dal Sud al Nord e con lo strozzamento del credito al sistema industriale meridionale.

Un altro dato significativo è collegato alla legge sul corso forzoso, approvata il 1° maggio 1866. Con tale provvedimento si rese inconvertibile (non si poteva richiedere la conversione di cartamoneta con il corrispondente valore in oro) solo la moneta della Nazionale. Quella del Banco di Napoli restava convertibile come prima e come prima le riserve auree del Banco restavano nel mirino della Nazionale. Nel 1868 la relazione di un’apposita commissione parlamentare stabilirà che non c’era stato alcun reale bisogno del corso forzoso e che tale provvedimento legislativo era stato fatto (al di là del pretesto ufficiale: le necessità collegate alla guerra del 1866 contro l’Austria – ma il corso forzoso durò fino al 1883, ben oltre la necessità –) per evitare il fallimento della Nazionale e delle banche ad essa collegate. In Parlamento il ministro Scialoja, rispondendo all’on. Avitabile, disse che il sacrificio del Banco di Napoli era “una volgare verità”, ma nel contempo quel provvedimento era stata una triste necessità [18].

Chi ha dato e chi ha avuto

Non si vuol fare a tutti i costi i puntigliosi, correndo anche il rischio di dare man forte a rivendicazionismi di bassa lega, ma alcune cose importanti, in periodo di leghismo dilagante e circondato da tante giustificazioni e simpatie esterne, vanno necessariamente rammentate. Subito dopo l’Unità c’è indubbiamente stato un immediato e massiccio trasferimento di richezza dal Sud al Nord. Tra i tanti, De Rosa ricorda che il Piemonte cavouriano aveva appesantito enormemente il deficit di bilancio per modernizzare lo Stato (ma non solo per questo) attraverso infrastrutture di vario genere. Al contrario ai Borbone stava a cuore il pareggio di bilancio nell’ambito di una politica generale che certamente non era propulsiva e lungimirante. Faceva bene Cavour (ma non tutte le spese sabaude erano virtuose; tante erano improprie e persino scandalose!) e facevano male i Borbone. Tuttavia, l’eccessiva disinvoltura dell’aumento del deficit di bilancio aveva portato lo Stato piemontese in uno “stato di bancarotta”, che fu evitato con l’Unità. Infatti, dice De Rosa, “il Regno sabaudo non ebbe difficoltà a scaricare poi sul Napoletano il suo debito pubblico che, da solo, superava l’insieme di tutti quelli degli altri ex Stati italiani; e ad appropriarsi della riserva d’argento [del Regno di Napoli] che garantiva il valore del ducato, imponendo al quale l’equivalente di 4,25 lire gli portò via quasi il 100% del suo potere d’acquisto” [19].

Dal canto suo, Salvemini aveva già fatto notare che “il Napoletano e la Sicilia non avevano debiti, quando entrarono a far parte dell’Italia una: e la unità del bilancio nazionale ebbe l’effetto di obbligare i meridionali a pagare gl’interessi dei debiti fatti dai settentrionali prima dell’unità e fatti quasi tutti per iscopi che coll’unità nulla avevano a che fare” [20]. Lo stesso Salvemini rammentava ancora che “il Napoletano e la Sicilia erano ricchissimi di beni ecclesiastici [...]; la confisca di tutti quei beni a vantaggio delle finanze dell’Italia una, sottrasse all’Italia meridionale un’enorme quantità di capitale sotto forma di pagamenti immediati all’atto della compera o di pagamenti annuali” [21]. Sul medesimo argomento De Rosa nota che vi fu un “drenaggio di capitali dal Sud che il governo unitario si assicurò attraverso la vendita dei beni demaniali ed ecclesiastici. Tramite una semplice voltura di nomi nei documenti catastali, mettendo al posto di quello dell’ente pubblico o ecclesiastico il nome di un cittadino napoletano, costui si privava delle sue liquidità o si indebitava” [22]. A fronte di questi flussi di denaro e per quelli derivanti da una tassazione squilibrata a danno del Mezzogiorno, non vi fu un adeguato ritorno al Sud. Quella ricchezza, com’è ampiamente noto, fu spesa prevalentemente per opere realizzate nel Nord. Se l’unità, tanto per far notare un dato di una certa importanza, si fosse realizzata sotto gli auspici dell’idea federalista del lombardo Carlo Cattaneo, le cose sarebbero andate diversamente.

De Rosa ha inteso concludere cosí il suo saggio: “All’ansia del Piemonte di uscire rapidamente dallo stato di bancarotta nel quale si era immerso e all’impazienza di tutta l’Italia settentrionale di assicurasi subito un mercato addizionale per il collocamento dei suoi prodotti, il Sud non seppe opporre le aspettative e gli ideali dei suoi patrioti, che pure avevano sofferto il carcere, l’esilio ed anche la morte per la causa nazionale. Dimenticando che senza la fervida partecipazione della sua popolazione Garibaldi non avrebbe compiuto cosí facilmente la sua impresa, il Sud si adattò all’idea di essere conquistato e annesso alla nuova unità politica, assumendosi cosí anche la responsabilità di non aver contribuito a creare un’effettiva ed efficiente patria italiana” I [23].

Chi gestí l’Unità non fu all’altezza del sentire e del progetto dei migliori tra coloro che l’avevano voluta e realizzata. L’Unità andava fatta; è stato un bene farla. Ma è stata fatta male. Malissimo. Dopo l’impeto poetico (dovuto alla “generazione lirica e tragica”, ossia a quella parte costituita da limpide figure, degne della riconoscenza dei posteri), non poteva che arrivare la prosa, ma è stata una cattiva prosa, in linea con l’ottica mentale di chi aveva guardato all’Unità solo per calcolo. Dobbiamo convivere per sempre con un’Unità fatta male? Dobbiamo costantemente correre il rischio di una disastrosa rottura o comunque sentire ad ogni momento che bisogna farla finita con l’Unità? È giusto dire che va corretta. E per farlo è necessario risolvere la questione del Sud.

Perduta la possibilità di beneficiare di una profonda trasformazione sociale grazie all’egemonia di una moderna cultura tramite lo sviluppo industriale, al Mezzogiorno era rimasta, come forza egemone, la sua zavorra, manovrata da burattinai settentrionali contro gli interessi dello stesso Mezzogiorno, che in definitiva erano interessi della nazione. Sono arcinote, a tal proposito, le feroci invettive di Salvemini contro il rapporto da burattini a burattinai tra determinate forze del Sud con altre del Nord (nel suo linguaggio: tra le mafie del Sud e le mafie del Nord). Significativamente faceva notare che la “spedizione garibaldina fu per la maggioranza dei benpensanti settentrionali un atto di conquista vera e propria” [24]; ma, da spirito unitario e responsabile, ben chiariva, ovviamente, che il Sud e il Nord non erano e non sono solo questo.

La leggenda fiscale

l Mezzogiorno, comunque, anche allora veniva incolpato di tutto. Una leggenda corrente all’epoca riguardava il livello della tassazione. Il Sud, si diceva, paga poche tasse e vive alle spalle del Nord. Si diceva cosí, ma nessuno aveva chiesto il parere a carta e lapis (non c’era ancora la calcolatrice). Questo parere decise di chiederlo Nitti. Ed appurò, come anche altri, che le cose stavano alla rovescia. Il Sud, in proporzione alla sua ricchezza, pagava piú del Nord, non meno. La parte povera del paese era fiscalmente gravata piú della parte ricca ed in piú doveva sopportare la nomea dello scroccone di casa. Fortunato riconosceva non esserci piú “dubbio, dopo le sicure analisi e i minuti raffronti della grande indagine statistica, compiuta dal Nitti: il Mezzogiorno, comparativamente alla sua ricchezza, sopporta un onere tributario assai maggiore di quello che grava l’alta e la media Italia” [25]. La sperequazione venne documentata e ribadita anche da Salvemini: “l’Alta Italia –diceva lo storico pugliese- possiede il 48% della ricchezza totale e paga meno del 40% del carico tributario; l’Italia media possiede il 25 % e paga il 28%; l’Italia meridionale possiede il 27% e paga il 32%. Nel dare, il Meridione è all’avanguardia, nel ricevere è alla retroguardia” [26]. Eppure nel discorso comune non si trova traccia di questi dati. Esiste, viceversa, un generico pregiudizio di tipo opposto.

Agli storici è noto che dopo l’Unità la maggior parte delle tasse del Sud faceva un viaggio di sola andata, ossia non ritornava al Sud sotto forma di investimenti pubblici: lo Stato spendeva mediamente 50 lire per ogni cittadino del Nord e 15 lire per ognuno del Sud. Nel 1900 Nitti ebbe a scrivere: “Quando i capitali si sono raggruppati al Nord, è stato possibile tentare la trasformazione industriale. Il movimento protezionista ha fatto il resto e due terzi d’Italia hanno per dieci anni almeno funzionato come mercato di consumo. Ora l’industria si è formata e la Lombardia, la Liguria e il Piemonte potranno anche, fra breve, non ricordare le ragioni prime della loro presente prosperità [...] Il Nord d’Italia ha già dimenticato: ha peccato anche di orgoglio. I miliardi che il Sud ha dato, non ricorda piú: i sacrifici non vede” [27].

Fortunato era consapevole della necessità di non porre veli sui dati reali e nel contempo era giustamente interessato a bocciare le posizioni faziosamente rivendicazioniste, perché fiutava i pericoli di una polemica condotta fino in fondo. Pertanto, allo scopo di difendere una prospettiva unitaria in condizioni di chiaro ed equilibrato rapporto fra le varie parti del paese, aveva opportunamente argomentato sul comune giovamento – sia pur sbilanciato a scapito del Sud – tratto tramite l’Unità da parte dell’Italia intera.

Dalle pagine di storia patria risulta chiaro che il paese ha conseguito obiettivi di fondo ed è riuscito a crescere notevolmente, sollevandosi dalla penosa condizione in cui era precipitato. È riuscito a crescere grazie ad un insieme di fattori, tra cui una plurisecolare tradizione culturale, l’opera di una “minoranza lirica e tragica” che ha fatto il Risorgimento (pur in presenza di un vario e parallelo materiale umano su cui conviene stendere un velo pietoso), l’azione di minoranze di alto sentire che hanno riconosciuto, assecondato e difeso l’identità costruita dalla storia e curato gli interessi generali.

Sono stati i membri di queste minoranze a farsi costruttori e pedagoghi della nazione. Il panorama odierno non ci dice nulla di nuovo. Oggi, come ieri, le prospettive del paese sono legate alla generosità ed alla tenacia di minoranze attive e lungimiranti. È auspicabile che le minoranze di oggi, che lottano per grandi o piccoli obiettivi politici e civili nelle varie realtà, siano consapevoli dell’importanza della loro azione e della necessità di perseverare.

Andiamo a delineare un quadro di sintesi per capire meglio. La questione meridionale, pur avendo alcuni presupposti precedenti l’unificazione, maturò in seno allo Stato unitario come questione sociale legata al rapporto non felice tra il nuovo Stato e il Sud. È un aspetto che peraltro emerge con chiarezza nelle Lettere meridionali di Pasquale Villari e nelle successive indagini sul Mezzogiorno. La classe dei latifondisti, costituita dalla borghesia agraria e dagli ex baroni, in genere avida e gretta, e storica nemica delle masse contadine, era uscita rafforzata dalle vicende unitarie. Aveva accresciuto il proprio potere economico, catturando quote demaniali destinate ai contadini [28], ed aveva inoltre acquisito nelle proprie mani il potere politico che precedentemente apparteneva in esclusiva alla monarchia assoluta. Le masse contadine, in quella situazione, non vedevano spiragli che si aprivano in rapporto alla loro condizione sociale, bensí spiragli che si chiudevano. Per certi aspetti si venne a determinare una situazione analoga a quella emersa in Francia dopo la Rivoluzione. Questo enorme evento si era concluso con il dominio economico e politico della borghesia, ma il quarto stato aveva di che lamentarsi. Oltralpe questa situazione sfociò in una protesta che prese le forme del socialismo, che peraltro era per tanta parte una produzione intellettuale per il quarto stato e non dello stesso. Date le specifiche condizioni storiche in cui vivevano le classi subalterne meridionali, la delusione dei contadini nel Mezzogiorno –nell’immediato e nel lungo periodo- si manifestò (anche) come alimento del brigantaggio e come massiccio esodo migratorio.

Fatti e pregiudizi

A proposito del primo [brigantaggio], occorre precisare che non fu certamente generato dall’esito del processo unitario, ma fu vistosamente potenziato dallo stesso. Come fa notare anche Vivanti, è sintomatico che Villari, in appendice alle sue Lettere meridionali, riportasse un sintetico ed efficace giudizio di un ufficiale piemontese che aveva partecipato alla repressione del brigantaggio: questo fenomeno “trae unicamente origine dalla triste condizione sociale delle popolazioni, non dagli avvenimenti politici, che se possono aumentargli forza, non basterebbero mai a dargli vita” [1]. Per lumeggiare il rapporto del nuovo Stato con il Mezzogiorno basti ricordare che nel 1873 “una circolare ai prefetti del primo ministro e ministro degli interni, Lanza, invitava ad ostacolare con ogni mezzo l’espatrio dei lavoratori” [2]. La decongestione del mercato del lavoro non era negli spicci interessi dei latifondisti, e con quella circolare il governo correva in loro soccorso. Non si trattava di un fatto episodico. Era un atteggiamento costante. Per farsene un’idea è sufficiente scorrere qualche pagina al vetriolo di Salvemini, il quale descriveva con somma indignazione i comportamenti che assumevano al Sud le istituzioni statali. La tirannia dello spazio non ci consente di portare degli esempi, ma si può in qualche modo immaginare cosa possa esserci dietro parole di questo genere: “Un uomo del Nord – diceva – non ha la minima idea di ciò che [determinate denunce] significhino, perché il piú forcaiuolo e camorristico governo di questo mondo non si permetterebbe mai nel Nord neanche la millesima parte di ciò che si può concedere il governo piú liberale e onesto nel Sud” [3].
Lo Stato non si presentava come equo e garante per tutti. Verso le masse, e non solo, assumeva un volto persecutorio ed oppressivo. Fa allora meraviglia se ancora oggi lo Stato viene visto come “nemico”?. Un fenomeno sintomatico del modo in cui viene percepito lo Stato si verifica continuamente sulle strade. Allorché incontrano una pattuglia delle forze dell’ordine posizionata per servizio, tantissimi automobilisti azionano le luci lampeggianti per segnalare il “pericolo” agli automobilisti – perfetti sconosciuti – che incrociano. È una sorta di solidarietà che scatta tra lepri di fronte al cacciatore. In Svizzera avviene l’esatto contrario.

Nell’universo mentale collettivo, il rapporto tra immagine corrente del Sud e dati reali non ha avuto fortuna neanche dopo la prima fase dell’Unità. Procediamo schematizzando e saltando anche fasi importanti. All’epoca della prima guerra mondiale l’industria, ormai concentrata al Nord, doveva sostenere con la sua produzione lo sforzo bellico; di conseguenza nelle trincee non potevano, per ragioni ovvie e incontrovertibili, andare gli operai, bensí i contadini; quindi, per tanta parte, i contadini del Sud. La guerra, però, fu un potente fattore di sviluppo dell’apparato industriale nazionale. Il miracolo economico del secondo dopoguerra fu anche dovuto al contributo, interno ed esterno, dei lavoratori meridionali. Contributo interno: le industrie avevano bisogno di manodopera e tanta parte fu fornita dal Sud attraverso l’emigrazione interna. Primo contributo esterno: per funzionare, le industrie avevano bisogno di carbone e fu a tal riguardo decisivo il contributo dell’emigrazione in Belgio, in gran parte meridionale; infatti, fu stipulato un accordo tra Belgio e Italia: per ogni 1000 operai italiani che lavoravano nelle miniere, il Belgio si impegnava ad esportare in Italia 2500 tonnellate di carbone al mese. Secondo contributo esterno: il massiccio flusso migratorio in Europa alimentò con le rimesse in valuta il mercato meridionale, che svolse un ruolo decisivo per il decollo dell’industria settentrionale.

Quanto alla Cassa per il Mezzogiorno, istituita nel 1950, opportunamente viene ricordato da De Rosa che “al finanziamento della Cassa, nella sua originaria impostazione, non contribuí affatto la finanza pubblica italiana, e quindi il contribuente dell’Italia centro- settentrionale o del Mezzogiorno, ma la finanza pubblica statunitense” tramite il Piano Marshall [4]. Giova ricordare che la Cassa, benché si chiamasse “per il Mezzogiorno”, era in realtà uno strumento per risollevare le sorti di tutte le aree depresse. “Il programma della Cassa – pertanto – non riguardava soltanto il Mezzogiorno, ma anche la Maremma toscana e laziale, il Delta del Po, il basso Friuli, il fiume Arno, etc.” [5]. Fatto rilevante, e per tanti aspetti ovvio, data la struttura del sistema economi- co italiano: circa un terzo della spesa della Cassa fu assorbito dal Centro- Nord” [6].

Meno ovvi furono alcuni furbeschi dirottamenti di fondi dal Sud ad aziende del Nord. “Ad ostacolare l’industrializzazione del Sud – scrive sempre De Rosa – contribuí anche la tendenza a favorire la grande industria [...] Era stabilito che le infrastrutture consortili fossero a intero carico della Cassa, e quelle private ricevessero da essa solo un contributo del 40%. Ma questa distinzione fu aggirata in molti casi. Come riferisce Petriccione, che della Cassa fu autorevole consigliere di amministrazione, bastava ‘che due o piú imprese effettivamente indipendenti (o appositamente costituite) abbisognassero di una infrastruttura, perché questa venisse dichiarata consortile, fruendo del contributo dell’85% anziché del 40%’ “ [7]. Come tante volte è accaduto, in questi casi i fondi effettivamente usati per il Mezzogiorno erano inferiori a quelli formalmente dichiarati.

Tante volte si è quindi impropriamente potuto parlare di fiumi di denaro destinati al Sud: si trattava di denaro che il Sud in realtà non ha mai visto. Un fenomeno clamoroso, da questo punto di vista, è stata la spesa nominalmente straordinaria che diventava sostitutiva di quella ordinaria. A tale proposito l’economista Gianfranco Viesti mette bene in evidenza lo scarto tra cifre nominali e cifre effettivamente fruite dal Mezzogiorno quando afferma che spesso la “spesa ‘straordinaria’ sostitui[va] la spesa ordinaria: nelle regioni del Sud ven[ivano] realizzati, con l’ausilio delle risorse straordinarie della Cassa, strade e ferrovie, impianti elettrici e di telecomunicazioni, che l’ANAS, le Ferrovie dello Stato, l’ENEL e la SIP effettua[va]no nel resto del paese con le loro risorse ordinarie”. Il Sud, dunque, finiva spesso per avere somme “straordinarie” gonfiate di aria fritta. Data la propaganda fatta sulle cifre “straordinarie”, però, “l’opinione pubblica del Nord si convince che colossali risorse sono utilizzate (e in gran parte sprecate) nel Mezzogiorno” [8]. “Eppure – scrive De Rosa- l’intervento straordinario, come dimostrò lo stesso Saraceno, non era costato allo Stato italiano piú dello 0,50 % del reddi-to nazionale: quasi niente, rispetto a quanto erano costati all’Italia lo sviluppo e la preservazione dell’industria centro- settentrionale” (che ovviamente è interesse e patrimonio nazionale, come interesse e patrimonio nazionale dovrebbe essere lo sviluppo del Sud) [9].

La questione settentrionale

Generalmente si pensa che, comunque, l’intervento straordinario, che in realtà è stato straordinario solo in parte, avrebbe potuto sviluppare il Mezzogiorno, ma, precisa De Rosa, “se guardiamo all’intervento straordinario attuato nell’ultimo dopoguerra –come ha osservato giustamente Cafiero- ‘l‘intervento nell’area non pot[eva] essere sufficiente a determinare il decollo dell’economia meridionale’” [10]. Ma lo sviluppo del Sud, dice ancora De Rosa, è un obiettivo mancato dallo Stato unitario anche per via di “un’incapacità” che ha un “vizio d’origine: di avere cioè negato al Mezzogiorno, al momento dell’unificazione politica, l’autonomia necessaria e indispensabile per adattare entro un ragionevole lasso di tempo la sua concreta struttura all’indirizzo di politica economica perseguito dalla nuova classe dirigente” [11]. Nel discorso pubblico, dunque, diventa un peso il contributo nominale al Sud, ma non fanno peso ed opinione i dati appena espressi ed i fiumi di denaro che sono stati effettivamente fruiti dal Nord con una infinità di leggi, opportunamente citate da De Rosa, della cui dotazione il Sud ha beneficiato per lo 0,4%, 0,5%, 7%, 9% e via dicendo [12]. Un altro dato, non certamente marginale ai fini di un discorso di equità e di sviluppo: fino al 1961 (nazionalizzazione dell’energia elettrica) il Sud ha pagato tariffe elettriche “piú onerose” [13]. Ma il Sud, come dice la vulgata della Lega, non paga meno tasse del Nord? Per il passato, dati alla mano, Nitti ha dimostrato quanto fosse lontana dalla realtà questa convinzione. Ed oggi? Idem. Per appurarlo è sufficiente consultare i dati ufficiali, che Viesti ha messo a disposizione del grande pubblico mediante due saggi pubblicati di recente [14]. Si è spesso detto che negli ultimi venti anni di attività della Cassa per il Mezzogiorno si sono registrati sperperi di pubblico denaro. C’è qualcuno che può ragionevolmente negarlo?. Assolutamente no. Quando si levano queste sacrosante lamentele, tuttavia, sul banco degli imputati sale solo il Sud (in forma indistinta, peraltro). Come già accennato, si tace sulle responsabilità delle tante imprese del Nord che hanno beneficiato di quegli sperperi, talvolta organizzandoli. Tutti colpevoli e dunque nessun colpevole? Non è questa la logica che qui si vuole proporre. Gli sperperi e i latrocini sono fenomeni che vanno combattuti indipendentemente da chi e da quanti siano i responsabili. Si vuole semplicemente dire che la Lega e il suoi seguaci (interi o all’acqua di rose) non possono tenere insieme tre cose che non si conciliano: a) aver incassato notevolmente ieri; b) scaricare oggi sul solo Sud tutte le responsabilità, con contorno di contumelie; c) lanciare angelici saluti di addio. Non si può approfondire l’argomento complessivo, perché qui – ancora una volta per ragioni di spazio – la maggior parte del discorso resta necessariamente dietro le quinte, ma sul punto giova lasciare la parola a Giovanni Russo quando cita un dato significativo per capire che c’è un Mezzogiorno niente affatto indulgente, ma anzi decisamente stanco, nei riguardi di certe pratiche malsane. Russo rammenta che a suo tempo c’è stata una “raccolta [di] firme per il referendum che intende[va] abrogare gran parte dell’intervento straordinario nel Mezzogiorno” e fa osservare che “metà di quel milione e piú di sottoscrizioni provenivano dal Sud” [15].

È la questione settentrionale che agita il sonno a Bossi. Di che si tratta? Può essere schematizzata con le parole di Viesti. Dopo aver sintetizzato alcuni pregiudizi correnti sul Sud, tipo “la storia del Mezzogiorno è storia di sprechi infiniti, ripetuti in tutte le forme immaginabili, che hanno solo aggravato i problemi di quelle regioni”, l’economista pugliese dice: “Peccato che tutte queste opinioni siano espresse, normalmente, senza portare alcuna prova documentale; sulla base del sentito dire, della conoscenza episodica, della lettura di un articolo di giornale” [16]. Come ai tempi di Nitti, anche oggi le cifre dicono una cosa e i pregiudizi affermano altro. E Viesti lo dimostra puntualmente: “Fino agli anni Sessanta la spesa pubblica italiana era molto inferiore a quella degli altri grandi paesi europei, e largamente inferiore era la tassazione; con gli anni Settanta sono state realizzate importanti riforme che hanno notevolmente modificato questo quadro: dai cambiamenti nel sistema pensionistico al nuovo sistema sanitario nazionale” [17]. Queste riforme hanno comportato una notevole spesa non bilanciata da un corrispondente aumento della pressione fiscale. Negli anni Settanta e Ottanta il “Centro-Nord aveva un flusso di spesa pubblica pari al suo gettito fiscale” [18]. Il suo dare in termini di tasse, insomma, era pari a quanto otteneva. Il Sud, però, area economicamente debole, otteneva piú di quanto dava e questa differenza “era finanziata con nuovo debito pubblico. Lo Stato italiano si indebitava prevalentemente con i piú ricchi cittadini del Centro-Nord, a cui pagava lauti interessi per garantire la spesa al Sud. Ma cosí il debito pubblico italiano è cresciuto dal 55% al 120% del PIL” I [19]. In quelle condizioni, insomma, il Nord non solo non ci rimetteva in termini immediati, ma anzi ci guadagnava, dato che in misura maggiore beneficiava degli interessi sul debito pubblico.

Con quella situazione di bilancio, però, che registrava un debito pubblico del 120%, lo Stato si veniva a trovare sull’orlo della bancarotta. Occorreva apprestare dei rimedi. Il risanamento delle finanze pubbliche “ha comportato piú un aumento della pressione fiscale che una riduzione della spesa” [20]. Fu allora che cominciò a cambiare qualcosa. Aumentò la pressione fiscale (al Nord e al Sud), ma con una differenza. Il gettito fiscale del Nord non ritornava piú, grosso modo tutto intero, alle regioni di provenienza, ma una parte veniva utilizzata per compensare la minore capacità fiscale del Sud, meno ricco. Nella nuova situazione, tanto il Nord quanto il Sud avvertivano il maggior peso fiscale e nel contempo percepivano un corrispettivo non soddisfacente in termini di servizi pubblici. Questa nuova situazione finanziaria e questa insoddisfazione sono alcuni degli aspetti etichettati come questione settentrionale. La distanza tra accresciuto peso fiscale e scarsa qualità dei servizi pubblici, dice giustamente Viesti, non è un fatto localizzato al Nord, ma coinvolge tutto il Paese. Pertanto, afferma, sotto questo profilo, “la definizione [ossia, la questione settentrionale] è assai impropria: la questione vale a tutte le latitudini, è una vera e propria questione italiana”. [21].

Dove va la spesa pubblica

C’è un particolare, tuttavia. È vero che la crescente pressione fiscale grava sia sul Sud sia sul Nord, ma ora, a differenza di prima, il Nord paga anche per il Sud (anche se, come vedremo, non di piú rispetto al Sud, bensí – in proporzione – di meno). Da qui la protesta, che ha trovato il proprio paladino nel movimento leghista. In termini brutali, il messaggio e l’obiettivo sono chiari: ognuno si arrangia con i soldi che ha. Che un simile modo di pensare appartenga a Bossi e sodali non fa meraviglia. Desta meraviglia e perplessità, invece, che sia fatto proprio anche da Roberto Formigoni, presidente della Regione Lombardia, e della sua assemblea regionale. Secondo Formigoni, seguace esterno di Bossi, le risorse fiscali non sono dello Stato, ma “appartengono” alle regioni “perché sono del cittadino che paga” [22]. È sulle sue posizioni, come accennato, la maggioranza di centro – destra; ma, dal canto loro, i gruppi che poi hanno dato vita al Partito Democratico non sono andati oltre l’astensione sulla relativa proposta di legge approvata nel 2007 dalla Regione Lombardia per inviarla al Parlamento. Ancor piú meraviglia desta una simile impostazione quando viene fatta propria a livello nazionale. Come ricorda Viesti, infatti, quella proposta diventa un obiettivo esplicito del programma elettorale del Popolo della Libertà nel 2008 [23].

Bisognerebbe ricordare che il Sud, nei primi quaranta anni di vita unitaria, ha versato all’erario, senza ritorno, circa 100 milioni di lire in piú del dovuto? Il Mezzogiorno, che avrebbe dovuto avere sussidi per via delle sue condizioni, dava di piú a tutto vantaggio del Nord. Ricordarlo a Formigoni e Bossi serve sul piano polemico e su quello della verità storica, ma non è su quella via che va indirizzato seriamente il discorso. Uno Stato non dovrebbe avere per obiettivo e consuetudine la logica degli egoismi, bensí quella di un’equilibrata distribuzione delle risorse in base a criteri di solidarietà (principio peraltro stabilito dalla Costituzione, come opportunamente ricorda Viesti). Ad ogni buon conto, il Nord è quello che è in virtú di un passato dal quale, piú che dare, ha avuto. Ed ora si converte alla logica del “chi ha avuto ha avuto; chi ha dato ha dato”?

Inoltre, la Costituzione stabilisce due principi: la tassazione progressiva, in virtú della quale paga piú tasse chi ha piú reddito, e la perequazione per i territori piú deboli sul piano economico. Cosa ne deriva? A parte ogni considerazione di carattere civile circa la solidarietà nazionale – civile, appunto, e non pelosa – ed a parte la considerazione già fatta circa le radici storiche dell’attuale benessere delle regioni del Nord, sviluppando fino in fondo la ratio della posizione egoistica e immemore della Lega, si dovrebbe giungere alla conclusione che, per simmetria di strampalato ragionamento, anche i piú ricchi cittadini dello stesso Nord potrebbero adottare la medesima linea di ragionamento e rivendicare per sé il gettito fiscale di loro competenza. Ben si vede dove si può arrivare, di piccineria in piccineria. Può una nazione impigliarsi in simili sterpaglie? Si può anche comprendere la sopravvivenza di pulsioni tribali in qualche sottocultura, ma non si può ammettere che questa sottocultura infetti la nazione nel suo complesso.

Bossi e sodali hanno forse ragione sulle tasse? Il Sud paga forse meno del Nord? Se cosí fosse, dato che è la parte meno sviluppata del paese, sarebbe normale. Ma i dati che si possono reperire tranquillamente, e doviziosamente forniti da Viesti, conducono alle stesse conclusioni a cui giunsero ieri Nitti ed altri studiosi. Il Mezzogiorno, in altri termini, dovrebbe in proporzione pagare di meno e invece paga di piú: “Fra il 1996 e il 2006 le entrate fiscali pro capite al Sud sono cresciute del 56,4% [...] [e] nel Centro- Nord del 36,4%, pur in presenza di una crescita economica grosso modo simile fra le due aree”. Come si spiega? “Con meno risorse disponibili –dice Viesti- enti locali e Regioni del Sud hanno utilizzato la propria capacità di imposizione fiscale. L’addizionale IRPEF in media è dell’1,23% al Sud e dell’1,03 al Nord; la leva fiscale dei Comuni dell’81,1% al Sud e del 69,1% al Nord. [In definitiva] i cittadini delle regioni piú povere (e con meno servizi pubblici), a parità di reddito, pagano piú tasse” [24].

D’accordo, pagano piú tasse; però – si potrebbe pensare- introitano bastimenti di trasferimenti pubblici che derivano da tasse pagate da altre regioni. Un aspetto dell’argomento (il principio di perequazione territoriale, con l’aggiunta delle radici storiche dell’attuale ricchezza del Nord) è già stato trattato prima. Resta da vedere quanto il Sud dovrebbe avere e quanto in realtà ottiene. Non è possibile riportare tutti i dati contenuti nel saggio di Viesti, ma vale la pena notare quanto segue: “Nel 2006 le spese per investimenti pubblici sono ammontate a 58,3 miliardi di euro nel Centro-Nord (72% del totale) e a 16,3 miliardi di euro nel Mezzogiorno. Nella media 2000-2006 gli investimenti pubblici pro capite sono stati 680 euro al Sud e 946 euro al Centro-Nord, con uno scarto che si è significativamente ampliato nel tempo” [25]. Ed è oltremodo significativo quanto Viesti fa ancora notare: “Scopriamo cosí, guardando alle cifre ufficiali, che tutta questa colossale spesa per lo sviluppo del Sud negli ultimi dieci anni non c’è stata, cosa curiosamente sfuggita a tanti dotti commentatori” [26]. Ma a quale ammontare, espresso in percentuale sul totale, aveva diritto il Sud? Fatti tutti i calcoli, tra risorse interne e comunitarie, avrebbe dovuto avere il 45%. [27]. Questo obiettivo, “che – dice Viesti – i diversi governi di centro-sinistra e di centro-destra si erano dati, non è mai stato raggiunto” [28]. Perché? Perché ancora una volta ciò che doveva essere “straordinario”, e quindi aggiuntivo, è stato “sostitutivo di mancata spesa ordinaria” [29], che è rimasta nelle casse dello Stato. Il Sud, in definitiva, ora come allora (Cassa per il Mezzogiorno), non ha ottenuto quanto era stato concordato. Eppure, nonostante ciò e tra le mille difficoltà che incontra ovunque ogni area arretrata, il Sud è cambiato e sta cambiando, grazie all’impegno tenace ed alle lotte della sua parte onesta e responsabile contro la parte che costituisce una pesante zavorra.

Per concludere, pur senza avere esaurito l’argomento, andiamo a verificare la spesa corrente. È almeno lí che il Sud ottiene di piú? “Il cittadino del Sud – riporta Viesti, riferendosi ai luoghi comuni- riceve troppo rispetto a quanto riceve un cittadino del Nord. Questa ipotesi, di senso comune in Italia e su cui moltissimi, indipendentemente dalla latitudine a cui vivono si sentirebbero di convenire, è perfettamente verificabile. Ma, sorpresa, è falsa. Nel 2006 la spesa pubblica pro capite è stata in Italia pari a 14.141 euro. Il valore sale a 15.719 euro nel Centro-Nord e scende a 11.253 nelle otto regioni del Mezzogiorno. Dunque, un cittadino del Sud, in media, beneficia di una spesa pubblica corrente del 28% inferiore rispetto a un cittadino del Centro-Nord. Tale scarto è rimasto costante nel corso degli anni: quello che vale per il 2006 vale anche per gli anni precedenti” [30]. Anche se incompleto, questo quadro di dati smentisce la vulgata leghista circa la questione del Meridione e ribadisce il concetto del Mezzogiorno come questione nazionale.



Testo tratto da:
DueSicilie.org
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