Intervista a Dario Tamburrano (ASPO-Italia) pubblicata in due puntate (1 e 2 ) sul blog di VerdeNero.it il 26 ed il 27 gennaio 2009
Si è tornato a parlare in questi giorni di indipendenza energetica a causa della crisi del gas tra Russia e Ucraina, ma si tratta ormai di un argomento all'ordine del giorno...
Oggi si parla di gas russo, ma siamo da sempre in potenziale emergenza energetica, fin da quando si è scelto di fare dell'Italia un paese industrializzato senza fare i conti con le fonti energetiche e le risorse minerarie disponibili sul territorio.
Finché dipenderemo dall'estero, un motivo commerciale, bellico, politico o semplicemente di sopravvenuta scarsa disponibilità geologica, ci renderà sempre soggetti a possibili ricatti energetici o a situazioni di sopravvenuta improvvisa scarsità.
Finora, non appena superata l'emergenza di turno, l'argomento della dipendenza energetica è sempre velocemente scomparso dal dibattito pubblico come fosse un tabù affrontare in maniera seria il nodo fondamentale di un modello di sviluppo mal pianificato.
Quando le fonti energetiche attualmente prevalenti diverranno sempre più difficili da reperire, insufficienti se non addirittura esaurite, le dispute tra gli Stati per l'approvvigionamento o per il profitto diverranno quotidiane.
I costi in salita, non sono solo quelli immediati dati dal mercato, ma anche quelli occulti o ritardati, tra cui quelli estrattivi, i costi indiretti del cambiamento climatico, dei conflitti bellici, degli impatti sanitari ed ambientali dell'inquinamento e dell'alterazione degli ecosistemi, ci costringeranno a guardare all'energia in generale in una maniera molto differente da come siamo stati abituati a fare.
Il fatto sorprendente è che la questione dell'indipendenza energetica, non fosse altro almeno per motivi di sicurezza strategici-militari, non sia mai stata seriamente affrontata dal dopoguerra ad oggi. Dopo Enrico Mattei non abbiamo avuto in Italia un personaggio autorevole e capace che avesse una visione lucida e lungimirante dell'approvvigionamento energetico nazionale.
Eppure ogni volta che si parla di indipendenza energetica, vedi la suddetta crisi del gas, si torna a parlare del nucleare. E' stato il caso di Scajola, ministro dello sviluppo economico, che in questi giorni è tornato all'attacco su questo versante. Ma a meno che Scajola o chi per lui non abbiano un giacimento di uranio nel proprio giardino non mi sembra questa la via per risolvere il problema...
Se si tratta solo di scegliere quale sia il padrone dei “rubinetti”, possiamo anche rivolgerci ad altri che non siano le compagnie russe del gas o quelle del petrolio e del carbone... Ma non è questo il modo...
Invece di porre le basi per i mercati del futuro convertendo l'industria pesante nostrana nella produzione di turbine eoliche, di pannelli fotovoltaici e termici, impiegando risorse nella costruzione di centrali solari a concentrazione, osserviamo impotenti al dirottamento di cifre immense per finanziare, o salvare, comparti industriali o servizi anacronistici od insostenibili... si sceglie di far volare aerei vuoti, si incentivano le vendite di veicoli con contenuti tecnologici superati. Si annunciano opere edili immense ed opere grandiose per la viabilità su gomma per un mondo che sta sparendo. Addirittura si ripropone la fissione nucleare...
L'uranio è infatti forse tra i combustibili non rinnovabili quello che comporta le maggiori criticità nella sua gestione, ci sono pochi giacimenti produttivi ed in efficienza, ce n’ é davvero poco nel pianeta... e questo senza entrare nel merito dei costi totali, i rischi del trasporto, dell'errore umano, dell'irrisolto problema della smantellamento delle centrali, dello smaltimento delle scorie, dello stato reale delle tecnologie collaudate...
Tutto questo all'interno di una situazione geopolitica piena di tensioni disseminate...
La scelta nucleare a qualcuno potrebbe convenire, ma è una cosa molto pericolosa...
Si dovrebbe piuttosto riflettere sul fatto che venti anni fa, in seguito al disastro di Chernobyl ed all'esito del referendum sul nucleare del 1986, abbiamo invece perso un'occasione storica, non perché abbiamo abbandonato l'opzione nucleare , ma al contrario perché non è seguita una pianificazione ed una ristrutturazione energetica che potesse evitare l'attuale insostenibile dipendenza dall'estero.
Era il momento migliore per affrontare il problema alla radice e di scegliere per tempo ed in maniera consapevole. La mala informazione, la superficialità, gli interessi particolari e le ideologie hanno impedito, anche ai cittadini, di adottare e chiedere alla politica di legiferare in maniera indipendente e lungimirante.
Abbiamo invece continuato a consumare sempre più energia facendo la fortuna delle compagnie petrolifere nella convinzione che qualche scoperta scientifica rivoluzionaria avrebbe prima o poi messo a tacere quella parte della popolazione che si dimostrava più sensibile al problema.
Un esempio emblematico di come la politica italiana si dimostri inadeguata, si è avuto nel 1992 successivamente all'istituzione di uno specifico prelievo in bolletta destinato allo sviluppo delle fonti rinnovabili. Queste somme, i contributi CIP6 ed ora la giungla normativa dei certificati verdi correlata, rappresentano una sorta di bottino di svariate decine di miliardi di euro dirottato in questi 16 anni per il 90% all'incentivazione dell'incenerimento dei rifiuti e della combustione degli scarti di raffineria, considerate per legge fonti energetiche assimiliate alle rinnovabili.
Un passo avanti e due indietro...
L'Italia, e quindi noi come contribuenti, si è salvata in extremis da una procedura d'infrazione comunitaria già avviata solo perché nel 1997 le fonti assimilate vennero opportunamente escluse dalla destinazione di questi fondi. Ma nel giro di un anno, dapprima lo stesso governo di centro sinistra e poi quello di centro destra, sono tornati gradualmente sui propri passi, fino alla finanziaria recentemente approvata che addirittura aumenta l'importanza dei sussidi energetici alle fonti cosiddette assimilate.
Le passate e future infrazioni comunitarie, il conto energetico, i prelievi ed i costi indiretti di queste scelte sono scaricati, spesso in maniera occulta, sulle spalle della collettività. Ed intanto si parla in televisione di termovalorizzatori e centrali nucleari come l'ultimo e definitivo ritrovato della tecnica...
Non solo ogni mese c'è una novità su qualche scelta sorprendentemente strabica, ma siamo per giunta prigionieri, anche a livello individuale, di norme anacronistiche.
Prendiamo il caso dell'energia solare: attualmente installare un impianto fotovoltaico o termico sul tetto vuoto di un condominio è considerata un'innovazione, è necessaria l'approvazione della maggioranza dei due terzi in sede assembleare condominiale. Cosa che in pratica non accade mai.
Se è il singolo condomino a voler usare a fini di produzione energetica, quella che è considerata proprietà comune, ad impedirlo basta anche uno solo che gli si oppone.
L'innovazione è ostacolata per legge e la proprietà comune, in quanto tale, viene resa improduttiva.
Rimangono inutilizzate superfici tutt'altro che trascurabili e si preclude al 50% circa della popolazione, quella che vive nelle città, l'adozione delle più elementari tecnologie per la produzione di energia rinnovabile.
Tutto ciò è paradossale... la città è uno dei luoghi dove vi è la maggiore richiesta di energia...
Basterebbero a volte solo delle piccole modifiche a delle leggi e si comincerebbe ad aprire le porte al cambiamento.
Non che ciò sia sufficiente, ma è proprio l'immobilità il problema maggiore.
Rischiamo di essere ricordati quindi come una civiltà che non è stata minimamente capace di rinnovarsi e di sviluppare soluzioni lungimiranti per iniziare a trovare la soluzione dei problemi che la minacciano.
Non sarebbe del resto il primo esempio della storia...
Quali sono quindi le vie possibili all'indipendenza o alla cosiddetta resilienza?
Tutti gli esseri viventi sono governati dall'energia, non si può essere indipendenti da essa, solo che noi umani abbiamo preso una via per la quale la gestiamo in maniera inefficiente e ne consumiamo davvero troppa... siamo diventati una specie predatrice di energia...
Usiamo energia direttamente o indirettamente per trasportare le merci, per comunicare, per riscaldarci, illuminare, spostarci, costruire macchinari, strade, edifici, per estrarre minerali, per produrre strumenti, sostanze e manufatti...
Solo grazie alla grande disponibilità di energia del secolo passato è stato finora possibile alimentare il motore della civiltà contemporanea, basato sull'attuale modello economico-culturale industrializzato, sulla crescita senza limiti dei consumi e sulla globalizzazione delle merci.
Questo modello, enormemente energivoro è in evidente crisi, anche la tempesta finanziaria attuale è in ultima analisi conseguenza della presunzione di far crescere la produzione ed il profitto all'infinito all'interno di un sistema naturale chiuso.
Finché ci baseremo per i nostri consumi sulla disponibilità di energia non rinnovabile questa prima o poi si esaurirà, finché ci dovremo approvvigionare da fonti distanti e non locali ci sarà sempre qualcuno che ha in mano una sorta di potere di vita o di morte sulle popolazioni e sull'economia.
Per ottenere l'indipendenza energetica di una nazione in maniera duratura e pacifica, le fonti di energia devono quindi essere presenti naturalmente sul territorio nazionale e non essere soggette ad esaurimento.
Solo le fonti di energia rinnovabile soddisfano entrambi i requisiti di inesauribilità e presenza ubiquitaria sul territorio.
Difatti, sono rari i posti al mondo così sfortunati ove non vi sia disponibilità di almeno una delle fonti rinnovabili che conosciamo, ove non sia presente in abbondanza o l'energia solare, l'eolica, l'idroelettrica, geotermica, da biomasse o del moto ondoso e delle maree.
Se all'interno di una nazione i singoli impianti di produzione energetica da fonti rinnovabili, di tutte le taglie, anche minime, fossero uniformemente disposti sul territorio e messi in rete ad operare in regime di scambio, si potrebbe garantire indipendenza e resilienza non solo alle singole comunità, ma si aprirebbe uno scenario dalle potenzialità inesplorate capace di risolvere una volta per tutte il fenomeno della intermittenza, il tipico problema delle fonti rinnovabili.
Tanto più si rendesse estesa la rete, tanto più numerosi e distribuiti i suoi nodi di scambio, tanto maggiore sarebbe la sua capacità di accumulo e stabilità di fronte ai picchi di richiesta e produzione locale, dovuti alla meteorologia ed ai cicli circadiani e stagionali.
La cosa sorprendente è che questo rete elettrica globale già parzialmente esiste e che basterebbe adattarla ad un nuovo paradigma di produzione scambio e distribuzione che sia multinodale, bidirezionale ed alimentato da fonti rinnovabili...
Se i governi si adoperassero a realizzare un'infrastruttura del genere si eliminerebbe in gran parte la necessità di immagazzinare l'energia se non per fare fronte alla mobilità di merci e persone o per i luoghi non connessi o privi di impianti o fonti energetiche. I motivi di conflitti per giacimenti ed oleodotti non avrebbero più motivo di esistere.
E' questa la direzione che deve prendere ogni singola nazione e l'umanità nel suo complesso per liberarsi dalla trappola energetica nella quale si è cacciata.
Sembrano utopie, ma ricordiamo che il primo embrione di quella che è divenuta internet è nata per garantire maggiore resilienza all'apparato militare statunitense in caso di conflitto. Per la sua successiva diffusione globale è stata inizialmente usata la vecchia rete telefonica preesistente. Come è nato il file sharing, il bittorrent, ci scambieremmo pacchetti di energia invece di scambiare pacchetti di informazione.
Allo stesso tempo queste potenzialità non ci devono far cullare nell'illusione, né che tutto ciò possa realizzarsi con la rapidità che è resa necessaria dall'attuale trend di esaurimento delle risorse energetiche convenzionali, né che si possa, pur nella migliore delle ipotesi, raggiungere livelli di disponibilità energetica pari a quelli che si sono avuti nello scorso secolo. Dei piani realistici che vadano incontro ai bisogni della popolazione, in uno scenario incombente di energia decrescente, sono in ogni caso quindi assolutamente necessari.
Un esempio da questo punto di vista sono le Transition Towns. Possiamo spiegare brevemente di cosa si tratta.
Il movimento delle città di transizione, si pone lo scopo di prefigurare e mettere in pratica un modello economico e culturale che riveda il modo di vivere, produrre e consumare al fine di permettere alle comunità locali di autosostenersi per i propri bisogni fondamentali e di prosperare nella transizione verso una civiltà a basso impiego di energia e conseguenti ridotte emissioni di carbonio.
Un modello di questo tipo prepara ad affrontare meglio i probabili disagi derivanti dal picco del petrolio e ad operare per mitigare i cambiamenti climatici.
La prima stesura di un piano di azione per la decrescita energetica è stata effettuata in Irlanda nel 2005 sotto la guida di Rob Hopkins da alcuni studenti di Permacultura ed è ispirata all’ingegno collettivo della comunità locale per realizzare un processo di riorganizzazione ove possibile, di tutti gli aspetti della vita.
Una Transition Town è quindi maggiormente resiliente rispetto alla totale dipendenza da sistemi fortemente globalizzati per cibo, energia, trasporti, sanità e alloggi. Sviluppare il potere collaborativo di ogni comunità locale è centrale nel perseguire questa visione del futuro.
Se un modello di questo tipo diventasse il nuovo paradigma sociale, culturale ed economico non solo si limiterebbe il pericoloso impatto antropico sul clima, ma potremmo guardare all'esaurimento delle risorse energetiche fossili come ad un'occasione speciale che è toccata alla nostra generazione, capace di aprire la via all'affermarsi pacifico di una civiltà che si immagina essere assai più stabile, solidale, vivibile e salutare dell'odierna.
Una situazione come quella attuale ci impone quindi dei cambiamenti, ma la nostra civiltà è estremamente rigida. E sappiamo bene che l'eccessiva rigidità può portare alla rottura. Come si può applicare su scala globale un concetto come quello della resilienza? Come evitare la rottura?
Una civiltà non sopravvive al mutare delle condizioni del suo habitat se non sviluppa una sufficiente resilienza. Finora ci siamo evoluti come specie perché in grado di reagire ai cambiamenti con l'adattabilità e la creatività, la capacità di comunicare ed organizzarsi come specie sociale. La resilienza è quindi una misura dell'intelligenza in senso lato. Il suo contrario è l'immobilità, l'incapacità di reazione.
Ci siamo abituati a pensare in maniera troppo schematica ed a ricevere soluzioni precostituite, siamo stati spettatori per troppo tempo di fronte a quella forma di pensiero e consumo unico che i media tradizionali ed il mercato hanno reso globale. Se invece ognuno ritornasse ad essere attore all'interno della sua comunità, ritrovando e mettendo in condivisione sia le nuove che le antiche sapienze, se si celebrasse la diversità come ricchezza e l'ingegno collettivo al fine di dare soluzioni oneste intellettualmente, ecco come si potrebbe evitare la rottura.
Nel secolo scorso l'umanità ha goduto dei vantaggi di un capitale accumulato dalla natura per miliardi di anni, materie prime da trasformare e trasportare grazie alla larga disponibilità di energia concentrata ed a basso costo. Ne abbiamo ereditato uno sviluppo di conoscenze e tecnologie impensabile, l'esistenza di una rete globale di comunicazione ed archiviazione, rende oggi accessibile in ogni casa una quantità di informazioni che rappresentano un vero e proprio salto evolutivo epocale...
Se riusciremo a coniugare in maniera creativa ed armonica questi saperi, il vecchio con il nuovo, la tecnologia con i valori ed i costumi di un mondo scomparso, che per millenni ha prosperato localmente con meno energia, se sapremo comunicare, ecco che la resilienza diventa un processo applicabile ovunque. Abbiamo oggi a disposizione tutti gli strumenti per generare miriadi di soluzioni differenti ognuna adatta al suo contesto. Sta a noi avere la volontà di farlo.
Quando si parla di Decrescita felice, Resilienza ecc. sembra sempre che si tratti di esperimenti vincolati a situazioni circoscritte, ma difficilmente riproducibili in grande scala. Vogliamo sfatare questo mito...
Propria questa è la trappola! Il cercare soluzioni precostituite valide sempre ed ovunque, da riprodurre ed esportare in larga scala. Guardiamo invece alle grandi civiltà del passato, a come erano riuscite a sviluppare soluzioni locali a basso utilizzo energetico ed a prosperare a volte per millenni.
Portiamo ad esempio le antiche tecniche di costruzione degli edifici che erano, salvo casi eccezionali, legate al territorio, al suo clima ed ai materiali disponibili. Con l'avvento dell'industrializzazione e del mercato globale si è cominciato ad edificare in maniera standardizzata in tutto il mondo affidando il comfort degli occupanti all'impiantistica, non più alla scelta dei materiali, dell'esposizione al sole, della posizione rispetto ai venti. Ma in questo modo si è messo in moto un sistema di produzione e trasporto che divora un’ enorme quantità di risorse. L'uomo del passato doveva aguzzare l'ingegno e praticare l'osservazione delle relazioni tra elementi naturali locali per potersene avvantaggiare al meglio. Questo esempio si può estendere a mille altre cose, alle tecniche di conservazione degli alimenti, al modo di coltivare, alla capacità di riciclare ogni tipo di scarto chiudendone il ciclo di vita...
Spesso si commette l'errore grossolano di considerare il picco del petrolio e i cambiamenti climatici due questioni che non hanno niente a che fare l'una con l'altra quando in realtà sono le due facce della stessa medaglia che richiedono poi lo stesso approccio programmatico...
Sì, sono facce della stessa medaglia perché entrambi rappresentano la conseguenza di un modello di sviluppo energivoro. Ed anche l'approccio per affrontare i due problemi è il medesimo, se prevede un piano di energia decrescente con un massiccio passaggio alle energie rinnovabili ed ad un modello di civiltà che si basi principalmente sulle risorse locali ed al loro mantenimento.
Se non si ha presente questo, qualcuno potrebbe fare il grave errore di vedere solo un lato di questa medaglia, risolvendo parzialmente un problema, ma aggravandone un altro...
Se in risposta al picco del petrolio si dovesse tornare ad un uso prevalente del carbone od ad uno sfruttamento insostenibile delle foreste per legna da ardere o l'impiego in centrali a biomassa, otterremo solo l'aggravamento della situazione climatica ed accelereremmo il raggiungimento dei picchi di altre risorse energetiche non rinnovabili. Se per mitigare il cambiamento climatico si imbocca la via del nucleare, come sta facendo l'Italia, lasceremo in eredità problemi altrettanto seri come le scorie lasciando irrisolta la questione dell'indipendenza energetica e della scarsità crescente di combustibile; perderemmo solo altro tempo prima di affrontare la soluzione radicale e definitiva del problema rimandandolo nella migliore delle ipotesi solo di qualche anno.
Quindi solo le energie rinnovabili sposate alla rilocalizzazione del modello di sviluppo permettono entrambi una contemporanea mitigazione climatica ed un ammorbidimento della ripidità dei picchi di esaurimento delle risorse non rinnovabili, sia che si tratti di petrolio od altre risorse minerali.
Questo è quello di cui abbiamo bisogno per scongiurare il collasso della civiltà ed evitare un ritorno alla preistoria.
Come esseri pensanti dovremo essere orgogliosamente consapevoli che la storia ha riservato proprio a noi, alla nostra generazione questa enorme responsabilità, che ognuno di noi è dunque responsabile della scelta tra l'imboccare la via della decadenza verso un oscuro regresso o il mostrare di essere ancora capaci di slanci vitali, di saltare lo steccato culturale che si frappone tra noi ed un futuro vivibile.
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