di Raffaele Abbate
L’esibizione del principino Savoia sul palco sanremese che grazie al “voto popolare” (ovvero noleggio di un call center) è arrivato in finale, mi ha fatto ritornare in mente quanto, qualche anno orsono, lessi sul “Mattino” di Napoli: una lettera aperta che il Maestro Roberto De Simone manda al principe babbo, il ”dott. Savoia V.E” , frequentatore assiduo di bordelli di alto e basso bordo.
SE VE LA SIETE PERSA LEGGETELA !!!!!
Caro dottor Savoia,
sono un napoletano come te e ho più o meno la tua età: sotto i settant’anni. Nell’apprendere che probabilmente verrai a Napoli, mi sono riaffiorate alla memoria ridde di avvenimenti risalenti al 1943, dei quali tu fai parte comunque, e che quindi mi corre l’obbligo di comunicarti.
Nell’ex convento di Monteoliveto, presso la Posta centrale, tra le rovine causate dal bombardamento del 4 dicembre 1941, si erano insediate, nel ‘43, le truppe americane di occupazione, e i napoletani della zona, affamati, ivi sostavano sperando in qualche gesto d’elemosina, o in una vendita di prodotti alimentari che i militari effettuavano per poche am-lire.
Tra i tanti, mi trovavo lì con mia nonna, avevo dieci anni, e la mia famiglia era ridotta in disperate condizioni dopo che mio padre era stato dimesso dall’esercito coloniale. A un tratto, dalle scale del cortile di Monteoliveto discese un americano il quale mostrò una grossa scatola di carne e si accinse ad aprirla. Tutti, credendo che egli volesse distribuirne il contenuto tra più persone, gli si affollarono intorno, ma il militare, non appena ebbe tagliato il coperchio, scaracchiò rumorosamente e sputò sulla carne, gettando la scatola a terra, tra le risate degli americani presenti. Purtuttavia, ricordo che una donna si chinò a recuperare la scatola, togliendone la parte superiore della carne.
A tal punto, un secondo militare si sbottonò i pantaloni e pisciò sulla scatola, bagnando anche la donna che ad alta voce bestemmiò. Ma tu non puoi ricordare tali cose: eri bene al sicuro con tuo nonno che proditoriamente era fuggito abbandonando la Nazione all’invasione delle truppe anche di colore.
Le persone come me, e sono tante, ricordano, ricordano: e io mi ricordo del povero Rosario De Leva, figlio del maestro Enrico De Leva, autore di «Spingole francesi», di «‘A nuvena» e di tante altre belle melodie. Rosario aveva quindici anni, e come me studiava il pianoforte con Tita Parisi, presso la quale mi recavo a prendere lezione, in via dei Mille, nello stesso palazzo in cui abitava il maestro De Leva. Il giovanissimo Rosario, un sabato mattina del settembre del ‘43, stava percorrendo via Vittoria Colonna, quando udì intimargli l’alt da una pattuglia tedesca. Rosario prese a correre e si rifugiò nella vicina chiesa dell’Ascensione, ma fu raggiunto da due militari che con tre colpi di pistola lo ammazzarono lì, ai piedi dell’altare maggiore. Più o meno, allo stesso modo mori mio nonno Claudio, padre di mia madre, scambiato dal tedeschi per un giovane. In quei giorni ammazzare una persona era facilissimo, caro dottor Savoia, e non si subiva nemmeno un processo, come quello che tu hai subito.
In quei giorni morire era facile, e per vivere si faceva di tutto, ci s’industriava a vendere di tutto, come fece ingegnosamente una «zarellara» dei Banchi Nuovi, che, nella Befana del 1944, si mise a vendere palloncini ricavati dai preservativi dei soldati americani. Mia madre s’industriava vendendo del sapone fatto in casa – si fa per dire – perché in realtà eravamo accampati in una casa-bottega di nonno Claudio, in piazza del Gesù, invasa totalmente dalle macerie del bombardamento del 4 agosto 1943. Noi ci eravamo li trasferiti da piazza Sant’Erasmo, al Porto, dopo che la nostra casa era stata sventrata da un pezzo della nave esplosa nel marzo del ‘43. Lì, oltre a vendere il sapone, mia madre vendeva anche lo zucchero di contrabbando, tant’è che una volta subimmo una perquisizione della polizia. Ma fortunatamente una comare di nonna ebbe la felice idea di nascondere vari sacchetti,di zucchero nel pianoforte verticale, sui quale io mi esercitavo a suonare, e i poliziotti cercarono dappertutto, perfino nei materassi, tralasciando il vecchio strumento. Era questa la realtà collettiva della nostra città, e tale rimase oltre il giugno del ‘46, quando, perlomeno, avemmo la fortuna che i Savoia fossero definitivamente cacciati via.
Ma con tutto ciò, caro dottor Savoia, a scanso di equivoci, ti chiarisco che non sono neoborbonico. Ma un re un re come Carlo di Borbone i Savoia se lo sognano, e che gli effetti di quel regno illuminato si riflessero a lungo sui discendenti di quella dinastia; ma ai Borbone si imputano gravi colpe, come la vergognosa fuga di Ferdinando dalla città, nel 1798, all’approssimarsi dell’esercito francese. Nè sarà mai perdonabile la barbara macelleria del ’99, il tradimento compiuto verso i rivoluzionari giacobini che capitolarono con la garanzia di avere salva la vita. Ma i tuoi avi, caro Savoia, hanno usurpato il regno delle due Sicilie, lo hanno spogliato come terra di conquista, abbandonando il Sud alla miseria, alla disoccupazione, all’emigrazione, al mancato sviluppo economico; sono responsabili di avere impiegato i meridionali come carne da cannone nelle guerre d’Africa, nella guerra ‘15-’18; sono colpevoli di avere aperto le porte al fascismo, di avere firmato una nefanda dichiarazione di guerra, i cui esiti a Napoli furono catastrofici e tuttora sono visibili.A tale proposito, caro dottor Savoia, non so se ricordi quale era, urbanisticamente, l’aspetto della nostra città nel ‘46, e allora quando verrai, se verrai, volgi uno sguardo alla collina del Vomero, a Posillipo, a Mergellina, alla Riviera di Chiaia, a via Marina, a piazza Mercato, e ti salteranno agli occhi gli oltraggi edilizi, gli abusi, gli scempi, che in nome di un partito monarchico, i laurini hanno perpetrato sulla città. Né dimentico le visite del sindaco Lauro a tuo padre Umberto in Portogallo, il quale si faceva ritrarre nell’atto di stringere la mano a dan Achille, e questi pubblicava le foto sul «Roma», quasi a mostrare la legittimità di una sua carica di novello Vicerè. Se tu venissi a Napoli, caro Savoia, per chiedere perdono del male fatto alla nostra città dalla tua famiglia, ti riconoscerei una qualche nobiltà. Ma tu tornerai con l’albagia del tuo rango, sarai ricevuto tra salamelecchi e baciamani al Circolo dell’Unione, e già mi vedo medaglie e nastrini e collari di’ ordini cavallereschi, e croci lucidate al Sidol, e altre chincagliene del genere, messi in bella mostra non tanto per onorare te, sappio, ma per ribadire i privilegi di un potere, che, sia pure storicamente disconosciuto, esercita tuttora una sua negativa influenza. Eppure, quando ti vedrai circondato da sorrisi di dentiere e da battimani difolcloristiche contesse e baronesse, ricordati che ci sono anche tanti napoletani come me; e siamo noi i discendenti di Giambattista Vico, di Vincenzo Cuoco, di Benedetto Croce, del professore Caccioppoli, che le palle non le hanno mai avute sulla corona ma dove di solito si collocano..
Scusami, tra l’altro, caro Savoia, se ti ho chiamato «dottore», ma è questo l’appellativo che a Napoli i gestori di parcheggio abusivo sogliono dare ai clienti cui non sanno che titolo dare.
firmato : Maestro Roberto De Simone
———————————————————————————-
Al principino Emanuele Umberto Reza Ciro René Maria Filiberto di Savoia, (il babbo ha messo la “sepponta”1 anche all’amico del cuore e di affari Reza Pahlavi) dedico questa mia invettiva alla maniera di Shakespeare.
Orbene messere, malgrado il tuo cocchio rifinito di oro zecchino,
malgrado la tua coppia di destrieri d’Arabia,
malgrado la tua giubba di Fiandra ed i tuoi merletti di Arles,
malgrado il tuo sguardo che va oltre noi miseri mortali,
come se fossimo trasparenti
qual ghiaccio di montagna,
malgrado il tuo portamento slanciato
che domina noi poveri botoli rincagnati e tondi
per il cibo sempre uguale,
mentre tu pasteggi
con ostriche e fagiani
e li innaffi con vino regale
ebbene messere,
sappi che
malgrado tutto ciò
ed altro ancora
che il rispetto, non certo per te
ma per chi mi legge,
mi impone di tacere,
è arrivata l’ora che qualcuno
ti dia la lezione che meriti.
Caro messere
ascolta queste mie forbite parole
anche se ti sarà difficile intendere
perché i tuoi avi e precettori fuggirono disperati
dalla tua avita magione
a cagione della tua refrattarietà all’apprendere.
Cerca, orsu, di sforzarti
anche se lo sforzo ti aggrotterà la fronte
ma sappi che così più ristretta sarà la tua calotta cranica
più atta ad ospitar il tuo cervello
che essendo meno nel vuoto
potrà, almeno una volta nella sua pigra vita,
funzionare.
Quel tuo misero cervello tanto simile al frutto di un’ostrica
ormai avvizzito per il non uso.
In conclusione messere
ora che lo sforzo ti rende recettivo
ascolta
ecco cosa ho da dirti:
va ad accoppiarti
in guisa degli abitanti dell’antica Sodoma
ma vedi se puoi
cerca di farlo molto ma molto lontano da noi.
In conclusione: gli unici savoiardi che tollero sono quelli nel Tiramisù!
Nota 1 Sepponta (verbo seppontare): nel suo significato originario, la sepponta è un sostegno, qualcosa che aiuta a stare in piedi, che sostiene. Nell’accezione più comune, indica l’usanza di trasferire al primo nipote maschio il nome del nonno, allo scopo di far sopravvivere il casato o anche imporre il nome di persone che si ritengono importanti.
Fonte:Lettere Magazine
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L’esibizione del principino Savoia sul palco sanremese che grazie al “voto popolare” (ovvero noleggio di un call center) è arrivato in finale, mi ha fatto ritornare in mente quanto, qualche anno orsono, lessi sul “Mattino” di Napoli: una lettera aperta che il Maestro Roberto De Simone manda al principe babbo, il ”dott. Savoia V.E” , frequentatore assiduo di bordelli di alto e basso bordo.
SE VE LA SIETE PERSA LEGGETELA !!!!!
Caro dottor Savoia,
sono un napoletano come te e ho più o meno la tua età: sotto i settant’anni. Nell’apprendere che probabilmente verrai a Napoli, mi sono riaffiorate alla memoria ridde di avvenimenti risalenti al 1943, dei quali tu fai parte comunque, e che quindi mi corre l’obbligo di comunicarti.
Nell’ex convento di Monteoliveto, presso la Posta centrale, tra le rovine causate dal bombardamento del 4 dicembre 1941, si erano insediate, nel ‘43, le truppe americane di occupazione, e i napoletani della zona, affamati, ivi sostavano sperando in qualche gesto d’elemosina, o in una vendita di prodotti alimentari che i militari effettuavano per poche am-lire.
Tra i tanti, mi trovavo lì con mia nonna, avevo dieci anni, e la mia famiglia era ridotta in disperate condizioni dopo che mio padre era stato dimesso dall’esercito coloniale. A un tratto, dalle scale del cortile di Monteoliveto discese un americano il quale mostrò una grossa scatola di carne e si accinse ad aprirla. Tutti, credendo che egli volesse distribuirne il contenuto tra più persone, gli si affollarono intorno, ma il militare, non appena ebbe tagliato il coperchio, scaracchiò rumorosamente e sputò sulla carne, gettando la scatola a terra, tra le risate degli americani presenti. Purtuttavia, ricordo che una donna si chinò a recuperare la scatola, togliendone la parte superiore della carne.
A tal punto, un secondo militare si sbottonò i pantaloni e pisciò sulla scatola, bagnando anche la donna che ad alta voce bestemmiò. Ma tu non puoi ricordare tali cose: eri bene al sicuro con tuo nonno che proditoriamente era fuggito abbandonando la Nazione all’invasione delle truppe anche di colore.
Le persone come me, e sono tante, ricordano, ricordano: e io mi ricordo del povero Rosario De Leva, figlio del maestro Enrico De Leva, autore di «Spingole francesi», di «‘A nuvena» e di tante altre belle melodie. Rosario aveva quindici anni, e come me studiava il pianoforte con Tita Parisi, presso la quale mi recavo a prendere lezione, in via dei Mille, nello stesso palazzo in cui abitava il maestro De Leva. Il giovanissimo Rosario, un sabato mattina del settembre del ‘43, stava percorrendo via Vittoria Colonna, quando udì intimargli l’alt da una pattuglia tedesca. Rosario prese a correre e si rifugiò nella vicina chiesa dell’Ascensione, ma fu raggiunto da due militari che con tre colpi di pistola lo ammazzarono lì, ai piedi dell’altare maggiore. Più o meno, allo stesso modo mori mio nonno Claudio, padre di mia madre, scambiato dal tedeschi per un giovane. In quei giorni ammazzare una persona era facilissimo, caro dottor Savoia, e non si subiva nemmeno un processo, come quello che tu hai subito.
In quei giorni morire era facile, e per vivere si faceva di tutto, ci s’industriava a vendere di tutto, come fece ingegnosamente una «zarellara» dei Banchi Nuovi, che, nella Befana del 1944, si mise a vendere palloncini ricavati dai preservativi dei soldati americani. Mia madre s’industriava vendendo del sapone fatto in casa – si fa per dire – perché in realtà eravamo accampati in una casa-bottega di nonno Claudio, in piazza del Gesù, invasa totalmente dalle macerie del bombardamento del 4 agosto 1943. Noi ci eravamo li trasferiti da piazza Sant’Erasmo, al Porto, dopo che la nostra casa era stata sventrata da un pezzo della nave esplosa nel marzo del ‘43. Lì, oltre a vendere il sapone, mia madre vendeva anche lo zucchero di contrabbando, tant’è che una volta subimmo una perquisizione della polizia. Ma fortunatamente una comare di nonna ebbe la felice idea di nascondere vari sacchetti,di zucchero nel pianoforte verticale, sui quale io mi esercitavo a suonare, e i poliziotti cercarono dappertutto, perfino nei materassi, tralasciando il vecchio strumento. Era questa la realtà collettiva della nostra città, e tale rimase oltre il giugno del ‘46, quando, perlomeno, avemmo la fortuna che i Savoia fossero definitivamente cacciati via.
Ma con tutto ciò, caro dottor Savoia, a scanso di equivoci, ti chiarisco che non sono neoborbonico. Ma un re un re come Carlo di Borbone i Savoia se lo sognano, e che gli effetti di quel regno illuminato si riflessero a lungo sui discendenti di quella dinastia; ma ai Borbone si imputano gravi colpe, come la vergognosa fuga di Ferdinando dalla città, nel 1798, all’approssimarsi dell’esercito francese. Nè sarà mai perdonabile la barbara macelleria del ’99, il tradimento compiuto verso i rivoluzionari giacobini che capitolarono con la garanzia di avere salva la vita. Ma i tuoi avi, caro Savoia, hanno usurpato il regno delle due Sicilie, lo hanno spogliato come terra di conquista, abbandonando il Sud alla miseria, alla disoccupazione, all’emigrazione, al mancato sviluppo economico; sono responsabili di avere impiegato i meridionali come carne da cannone nelle guerre d’Africa, nella guerra ‘15-’18; sono colpevoli di avere aperto le porte al fascismo, di avere firmato una nefanda dichiarazione di guerra, i cui esiti a Napoli furono catastrofici e tuttora sono visibili.A tale proposito, caro dottor Savoia, non so se ricordi quale era, urbanisticamente, l’aspetto della nostra città nel ‘46, e allora quando verrai, se verrai, volgi uno sguardo alla collina del Vomero, a Posillipo, a Mergellina, alla Riviera di Chiaia, a via Marina, a piazza Mercato, e ti salteranno agli occhi gli oltraggi edilizi, gli abusi, gli scempi, che in nome di un partito monarchico, i laurini hanno perpetrato sulla città. Né dimentico le visite del sindaco Lauro a tuo padre Umberto in Portogallo, il quale si faceva ritrarre nell’atto di stringere la mano a dan Achille, e questi pubblicava le foto sul «Roma», quasi a mostrare la legittimità di una sua carica di novello Vicerè. Se tu venissi a Napoli, caro Savoia, per chiedere perdono del male fatto alla nostra città dalla tua famiglia, ti riconoscerei una qualche nobiltà. Ma tu tornerai con l’albagia del tuo rango, sarai ricevuto tra salamelecchi e baciamani al Circolo dell’Unione, e già mi vedo medaglie e nastrini e collari di’ ordini cavallereschi, e croci lucidate al Sidol, e altre chincagliene del genere, messi in bella mostra non tanto per onorare te, sappio, ma per ribadire i privilegi di un potere, che, sia pure storicamente disconosciuto, esercita tuttora una sua negativa influenza. Eppure, quando ti vedrai circondato da sorrisi di dentiere e da battimani difolcloristiche contesse e baronesse, ricordati che ci sono anche tanti napoletani come me; e siamo noi i discendenti di Giambattista Vico, di Vincenzo Cuoco, di Benedetto Croce, del professore Caccioppoli, che le palle non le hanno mai avute sulla corona ma dove di solito si collocano..
Scusami, tra l’altro, caro Savoia, se ti ho chiamato «dottore», ma è questo l’appellativo che a Napoli i gestori di parcheggio abusivo sogliono dare ai clienti cui non sanno che titolo dare.
firmato : Maestro Roberto De Simone
———————————————————————————-
Al principino Emanuele Umberto Reza Ciro René Maria Filiberto di Savoia, (il babbo ha messo la “sepponta”1 anche all’amico del cuore e di affari Reza Pahlavi) dedico questa mia invettiva alla maniera di Shakespeare.
Orbene messere, malgrado il tuo cocchio rifinito di oro zecchino,
malgrado la tua coppia di destrieri d’Arabia,
malgrado la tua giubba di Fiandra ed i tuoi merletti di Arles,
malgrado il tuo sguardo che va oltre noi miseri mortali,
come se fossimo trasparenti
qual ghiaccio di montagna,
malgrado il tuo portamento slanciato
che domina noi poveri botoli rincagnati e tondi
per il cibo sempre uguale,
mentre tu pasteggi
con ostriche e fagiani
e li innaffi con vino regale
ebbene messere,
sappi che
malgrado tutto ciò
ed altro ancora
che il rispetto, non certo per te
ma per chi mi legge,
mi impone di tacere,
è arrivata l’ora che qualcuno
ti dia la lezione che meriti.
Caro messere
ascolta queste mie forbite parole
anche se ti sarà difficile intendere
perché i tuoi avi e precettori fuggirono disperati
dalla tua avita magione
a cagione della tua refrattarietà all’apprendere.
Cerca, orsu, di sforzarti
anche se lo sforzo ti aggrotterà la fronte
ma sappi che così più ristretta sarà la tua calotta cranica
più atta ad ospitar il tuo cervello
che essendo meno nel vuoto
potrà, almeno una volta nella sua pigra vita,
funzionare.
Quel tuo misero cervello tanto simile al frutto di un’ostrica
ormai avvizzito per il non uso.
In conclusione messere
ora che lo sforzo ti rende recettivo
ascolta
ecco cosa ho da dirti:
va ad accoppiarti
in guisa degli abitanti dell’antica Sodoma
ma vedi se puoi
cerca di farlo molto ma molto lontano da noi.
In conclusione: gli unici savoiardi che tollero sono quelli nel Tiramisù!
Nota 1 Sepponta (verbo seppontare): nel suo significato originario, la sepponta è un sostegno, qualcosa che aiuta a stare in piedi, che sostiene. Nell’accezione più comune, indica l’usanza di trasferire al primo nipote maschio il nome del nonno, allo scopo di far sopravvivere il casato o anche imporre il nome di persone che si ritengono importanti.
Fonte:Lettere Magazine
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