lunedì 8 febbraio 2010
LI DISSERO BRIGANTI...ERANO EROI
Di Pino Marino
La conquista del Regno delle Due Sicilie -da parte dei piemontesi- avvenuta con l'appoggio decisivo, della massoneria, della Gran Bretagna e della Francia; provocò -fin dai primi giorni della dittatura di Garibaldi- e poi per gli anni successivi, la guerra di resistenza generalizzata, delle popolazioni del Regno, a favore di Francesco II di Borbone. Decine di migliaia di persone insorsero, armi in pugno, in tutto il territorio continentale (proprio come sessant'anni prima ai tempi delle insorgenze antifrancesi e dell'epopea sanfedista del cardinale Ruffo), scatenando una rivolta insurrezionale che mise in seria difficoltà i garibaldini prima, e soprattutto, l'esercito e il governo piemontese nei primi anni unitari.
Pur autodefinendosi apportatori di libertà e di giustizia, i Piemontesi non concepivano che un popolo potesse battersi, contro di loro, in difesa del proprio paese. Chi ad essi si opponeva non poteva essere che un volgare brigant. E questo termine, con cui si indicavano i delinquenti comuni, fu immediatamente adottato per indicare i patrioti del Sud. La mistificazione fu talmente evidente che, dopo tre anni di “guerra al brigantaggio” , nell’ex-Regno delle Due Sicilie, i brigant aumentavano a dismisura.
Massimo D’Azeglio, nel 1861, si domandava: “come mai a sud del Tronto sono necessari sessanta battaglioni e sembra non bastino: Deve esserci stato qualche errore; e bisogna cangiare atti e principii e sapere dai Napoletani, una volta per tutte, se ci vogliono o no… agli Italiani che, rimanendo italiani, non volessero unirsi a noi, credo non abbiamo diritto di dare delle archibugiate”.
Nel parlamento del neonato Regno d’Italia, a Torino, Il deputato Ferrari, (liberale e milanese di nascita) nel novembre 1862 gridava in aula: "Potete chiamarli briganti, ma combattono sotto la loro bandiera nazionale; potete chiamarli briganti, ma i padri di quei briganti hanno riportato due volte i Borboni sul trono di Napoli.
Persino Nino Bixio, autore dell’efferato eccidio di Bronte, nel ‘63 proclamò, sempre in Parlamento: "Un sistema di sangue è stato stabilito nel Mezzogiorno. Signori, se volete che l’Italia si compia, bisogna farla con la giustizia, e non con l’effusione di sangue". Non vi è un paese, un villaggio, un angolo nel Foggiano, in Puglia o in tutto il Sud, dove non si raccontino storie di Briganti. Se ne parla però come di ladri gentiluomini, ma anche malfattori. Come novelli Robin Hood o come volgari assassini. Ma non per quel che, davvero, essi furono: patrioti. E’ vero. Essi rubavano, o rapivano uomini dietro pagamento di un riscatto. Eppure godevano dell’appoggio incondizionato delle popolazioni, nonostante le malefatte. Come si spiega? I detrattori (incredibilmente ce ne sono ancora molti, anche nostrani, sui quali è preferibile stendere un velo pietoso) motivano il consenso popolare, con il fatto che: “i Briganti rifornivano di viveri la gente”. Un argomentazione, in verità, goffa ed assai debole, se si considera il numero totale dei Briganti e quello della popolazione. Semmai fu vero il contrario. I guerriglieri (usciamo dall’insulto, usando un termine più appropriato) non godevano di finanziamenti e le armi di cui erano dotati provenivano o dalle azioni contro i Piemontesi o da veri e propri “Blitz” negli accampamenti nemici o nelle caserme della “guardia nazionale”: la formazione militare, organizzata nei vari paesi dell’ex-Regno dai traditori liberali, che avevano preso in mano i municipi.
La guardia nazionale, al soldo dei “galantuomini filo-piemontesi”, era composta da abitanti dei paesi -una vera e propria anticipazione degli “Ascari” di Mussoliniana memoria-le truppe Abissine che combattevano nelle fila dell’esercito italiano, contro i propri conterranei.
I guerriglieri si accanirono e furono particolarmente spietati con la guardia nazionale, poiché composta da “spergiuri e traditori del Re e della Patria”.
I Borbone, da sempre, guardavano ai bisogni del popolo. Avevano abolito la feudalità: ”poiché tutti devono essere uguali” ed introdotto gli “Usi civici sui terreni”, affinchè chiunque, godesse di un pezzo di terra. Ferdinando II, all’inizio del suo regno intorno al 1832, aveva ri-censito i terreni: togliendoli a chi non potesse dimostrarne la proprietà. Recuperò migliaia di ettari che destinò in uso civico al popolo, ma, è ovvio, i grandi proprietari, i galantuomini -che quei terreni detenevano- non gradirono; ed attesero il momento buono per liberarsi della dinastia Borbonica. E quando arrivarono i Piemontesi, battezzandosi “liberali”, armarono la guardia nazionale e presero il potere, in nome dei Savoja. Un colpo di mano, preventivamente architettato, con agenti “Cavourriani”, ed in combutta con la Massoneria.
Tutti ricordano i “Carbonari”, pochi sanno che la “Carboneria” è il primo livello della loggia massonica.
Si sa le guerre costano; ed ai guerriglieri servivano soldi, per le armi e per il loro sostentamento. In qualche modo bisognava pur fare e poiché: “in amore ed in guerra tutto è permesso”, se li procuravano ai danni dei sedicenti “liberali”,di quei famosi galantuomini, “spergiuri e traditori del Re e della Patria”. Chi credete fosse l’oggetto dei loro furti e delle estorsioni? Il popolo che li spalleggiava o qualche proprietario rimasto fedele alla Patria?
L’acredine popolare, nei confronti dei galantuomini, sfociò in odio, quando, avendo necessità di denaro, i Savoja, decisero la vendita dei beni catastali e di quelli della chiesa. I signori liberali gestirono le vendite in prima persona (erano sindaci e componevano le giunte) . Si divisero i panni di Cristo! Una vera e propria “carneficina erariale”. In cambio di quattro soldi, nacque allora il latifondo, sicuramente la principale causa del mancato sviluppo, anche attuale, del meridione.
Così il cerchio era chiuso.
Quei terreni, fino ad allora in “uso civico” o in “fitto” (a costo irrisorio, perchè ecclesiastici), acquisiti dai galantuomini, vennero tolti a migliaia di contadini che, restati senza alcun sostentamento, nel bel mezzo di una guerra, di meglio non trovarono che la strada dell’emigrazione verso le Americhe. Comincia qui, e per questo motivo, il grande esodo. L’emigrazione, nel Regno delle Due Sicilie, era fino ad allora fenomeno sconosciuto. Basta guardare le statistiche per rendersene conto.
I galantuomini, avevano , però fatto i conti senza dell’oste, perché se fino ad allora i guerriglieri li tormentavano in quanto traditori, ora erano divenuti gli affamatori del popolo, quelli che avevano tolto il pane alla gente, immiserendola e scacciandola dalla loro casa, il sacco era pieno e l’insofferenza popolare stava per esplodere.
Era l’alba di un bel mattino del 1861. Urbano Camerotta, sergente del disciolto esercito delle Due Sicilie, giungeva in vista di Troja. Grande era in lui la commozione, mancava dalla sua città ormai da troppo tempo. L’invasione sabauda, la sconfitta nella battaglia del Volturno e la caduta di Gaeta –con la fine del Regno- lo avevano visto protagonista. Indossava ancora la giacca blu del suo reparto, il 4° reggimento fanteria “Principessa”, aveva viaggiato di notte per non essere catturato dai piemontesi. La vista della natia collina ed il pensiero che, da lì a poco, avrebbe riabbracciato sua moglie, gli dava grande sollievo.
Raggiunse la sua casa, fra due terre, e bussò alla porta. Non ebbe risposta. Provò ancora, ma niente. Sentendo rumore, si affacciò alla finestra la commara del piano di sopra e, singhiozzando, raccontò ad Urbano di come, Letizia, fosse stata malmenata e ridotta in fin di vita, dai militi della guardia nazionale. Era la moglie di un sottufficiale del Real esercito, ormai divenuto nemico in casa sua… Urbano sobbalzò, non poteva credere a quanto udiva. Non fece in tempo a chiedere altro che, dal fondo della strada, risuonarono degli spari. Erano le guardie nazionali di ronda che, riconosciutolo, lo aveva preso di mira. Il sergente prese a correre e mentre fuggiva, dalla finestra, la commara gli urlò “Caruso!.. Caruso!..” non ne capì subito il significato, ma ben presto lo scoprì. Letizia, era stata prelevata da due guerrigliere del gruppo Caruso di Torremaggiore; che, portatala al loro accampamento, l’avrebbero curata salvandole la vita.
Proprio là, qualche giorno dopo, Urbano la riabbracciò ed iniziò così la sua vita da partigiano borbonico, passando anche con i gruppi Schiavone di S. Agata e con quello ben più ardito e famoso di Carmine Crocco, operante tra Capitanata e Melfitano, composto da oltre 2000 uomini.
Catturato dai piemontesi sarà fucilato a Lucera il 12 gennaio 1863. Gli trovarono in tasca la formula del giuramento che ogni guerrigliero doveva prestare, per entrare nel gruppo e indossare la coccarda rossa con il giglio borbonico, simbolo dei legittimisti :
Noi giuriamo davanti a Dio
e dinanzi al mondo intiero di essere fedeli al nostro
augustissimo e religiosissimo sovrano Francesco II
(che Dio guardi sempre);
e promettiamo di concorrere con tutta la nostra anima
e con tutte le nostre forze a combattere i cani piemontesi,
invasori del nostro sacro suolo e ladri di ogni nostro avere,
per restituire al trono dei suoi avi
il nostro amatissimo e legittimo sovrano Francesco II
Noi giuriamo davanti a Dio
di rivendicare tutti i diritti del nostro Santo Padre Pio IX
e della Santa chiesa e di abbattere il lucifero infernale
Vittorio Emanuele e i suoi complici, rinnegati traditori
della nostra Patria e della nostra religione
Con l’effusione del sangue di ogni combattente,
per la libertà del Regno delle Due Sicilie,
dal Tronto alla Capitanata, dalla Sicilia al Molise,
noi lo promettiamo e lo giuriamo
Il clima in quei giorni, in tutta la Capitanata era infuocato, Nicola Beccia, nella sua “Cronistoria di Troja”, riporta che:” La città fu disseminata di pezzi d’artiglieria in tutte le strade, poiche la popolazione minacciava di insorgere…” in ogni centro si susseguivano manifestazioni in sostegno dei Borbone. Il rito era più o meno identico dappertutto. Il popolo calpestava e bruciava i quadri di Garibaldi e Vittorio Emanuele, rimetteva al loro posto quelli di Francesco II e Maria Sofia, dopodiché, per protesta contro le nuove amministrazioni comunali abusive, dava fuoco agli archivi municipali.
La risposta dello stato unitario-savojardo, a questi fatti, fu la promulgazione della famigerata “Legge Pica” del 20 agosto 1863; con la quale si condannava a morte chiunque, anche solo sulla base di un sospetto. Fu l’inizio di una indiscriminata repressione sanguinaria, che porterà a circa un milione di morti nell’ex-Regno, oltre a 54 paesi rasi al suolo. I piemontesi usavano metodi spicci, ammazzavano contadini spacciandoli per briganti senza troppi problemi. Dopo le fucilazioni, si facevano scattare lugubri foto-ricordo assieme ai cadaveri. Questi, insepolti, venivano distesi nelle strade quale monito. In molti casi gli veniva mozzata la testa ed esposta all’imbocco del paese.
Lo storico Franco Molfese, nel suo monumentale volume “Storia del brigantaggio dopo l’unità” (Feltrinelli) così si esprime: In Capitanata, il Comandante piemontese Mazé de la Roche non ebbe problemi ad incendiare case e pagliai o a fucilare individui per il solo fatto che circolavano fuori dai centri abitati o trasportassero alimenti. Mogli di briganti erano state condannate ai ferri a vita, come manutengole (complici). Fanciulle inferiori ai dodici anni, figlie di briganti, avevano subito condanne di 10 o 15 anni, quando non a morte, dopo il giudizio sommario di tribunali militari, improvvisati alla men peggio in una cascina o sotto un albero.
Fonte: Note di Pino Marino su Facebook
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Di Pino Marino
La conquista del Regno delle Due Sicilie -da parte dei piemontesi- avvenuta con l'appoggio decisivo, della massoneria, della Gran Bretagna e della Francia; provocò -fin dai primi giorni della dittatura di Garibaldi- e poi per gli anni successivi, la guerra di resistenza generalizzata, delle popolazioni del Regno, a favore di Francesco II di Borbone. Decine di migliaia di persone insorsero, armi in pugno, in tutto il territorio continentale (proprio come sessant'anni prima ai tempi delle insorgenze antifrancesi e dell'epopea sanfedista del cardinale Ruffo), scatenando una rivolta insurrezionale che mise in seria difficoltà i garibaldini prima, e soprattutto, l'esercito e il governo piemontese nei primi anni unitari.
Pur autodefinendosi apportatori di libertà e di giustizia, i Piemontesi non concepivano che un popolo potesse battersi, contro di loro, in difesa del proprio paese. Chi ad essi si opponeva non poteva essere che un volgare brigant. E questo termine, con cui si indicavano i delinquenti comuni, fu immediatamente adottato per indicare i patrioti del Sud. La mistificazione fu talmente evidente che, dopo tre anni di “guerra al brigantaggio” , nell’ex-Regno delle Due Sicilie, i brigant aumentavano a dismisura.
Massimo D’Azeglio, nel 1861, si domandava: “come mai a sud del Tronto sono necessari sessanta battaglioni e sembra non bastino: Deve esserci stato qualche errore; e bisogna cangiare atti e principii e sapere dai Napoletani, una volta per tutte, se ci vogliono o no… agli Italiani che, rimanendo italiani, non volessero unirsi a noi, credo non abbiamo diritto di dare delle archibugiate”.
Nel parlamento del neonato Regno d’Italia, a Torino, Il deputato Ferrari, (liberale e milanese di nascita) nel novembre 1862 gridava in aula: "Potete chiamarli briganti, ma combattono sotto la loro bandiera nazionale; potete chiamarli briganti, ma i padri di quei briganti hanno riportato due volte i Borboni sul trono di Napoli.
Persino Nino Bixio, autore dell’efferato eccidio di Bronte, nel ‘63 proclamò, sempre in Parlamento: "Un sistema di sangue è stato stabilito nel Mezzogiorno. Signori, se volete che l’Italia si compia, bisogna farla con la giustizia, e non con l’effusione di sangue". Non vi è un paese, un villaggio, un angolo nel Foggiano, in Puglia o in tutto il Sud, dove non si raccontino storie di Briganti. Se ne parla però come di ladri gentiluomini, ma anche malfattori. Come novelli Robin Hood o come volgari assassini. Ma non per quel che, davvero, essi furono: patrioti. E’ vero. Essi rubavano, o rapivano uomini dietro pagamento di un riscatto. Eppure godevano dell’appoggio incondizionato delle popolazioni, nonostante le malefatte. Come si spiega? I detrattori (incredibilmente ce ne sono ancora molti, anche nostrani, sui quali è preferibile stendere un velo pietoso) motivano il consenso popolare, con il fatto che: “i Briganti rifornivano di viveri la gente”. Un argomentazione, in verità, goffa ed assai debole, se si considera il numero totale dei Briganti e quello della popolazione. Semmai fu vero il contrario. I guerriglieri (usciamo dall’insulto, usando un termine più appropriato) non godevano di finanziamenti e le armi di cui erano dotati provenivano o dalle azioni contro i Piemontesi o da veri e propri “Blitz” negli accampamenti nemici o nelle caserme della “guardia nazionale”: la formazione militare, organizzata nei vari paesi dell’ex-Regno dai traditori liberali, che avevano preso in mano i municipi.
La guardia nazionale, al soldo dei “galantuomini filo-piemontesi”, era composta da abitanti dei paesi -una vera e propria anticipazione degli “Ascari” di Mussoliniana memoria-le truppe Abissine che combattevano nelle fila dell’esercito italiano, contro i propri conterranei.
I guerriglieri si accanirono e furono particolarmente spietati con la guardia nazionale, poiché composta da “spergiuri e traditori del Re e della Patria”.
I Borbone, da sempre, guardavano ai bisogni del popolo. Avevano abolito la feudalità: ”poiché tutti devono essere uguali” ed introdotto gli “Usi civici sui terreni”, affinchè chiunque, godesse di un pezzo di terra. Ferdinando II, all’inizio del suo regno intorno al 1832, aveva ri-censito i terreni: togliendoli a chi non potesse dimostrarne la proprietà. Recuperò migliaia di ettari che destinò in uso civico al popolo, ma, è ovvio, i grandi proprietari, i galantuomini -che quei terreni detenevano- non gradirono; ed attesero il momento buono per liberarsi della dinastia Borbonica. E quando arrivarono i Piemontesi, battezzandosi “liberali”, armarono la guardia nazionale e presero il potere, in nome dei Savoja. Un colpo di mano, preventivamente architettato, con agenti “Cavourriani”, ed in combutta con la Massoneria.
Tutti ricordano i “Carbonari”, pochi sanno che la “Carboneria” è il primo livello della loggia massonica.
Si sa le guerre costano; ed ai guerriglieri servivano soldi, per le armi e per il loro sostentamento. In qualche modo bisognava pur fare e poiché: “in amore ed in guerra tutto è permesso”, se li procuravano ai danni dei sedicenti “liberali”,di quei famosi galantuomini, “spergiuri e traditori del Re e della Patria”. Chi credete fosse l’oggetto dei loro furti e delle estorsioni? Il popolo che li spalleggiava o qualche proprietario rimasto fedele alla Patria?
L’acredine popolare, nei confronti dei galantuomini, sfociò in odio, quando, avendo necessità di denaro, i Savoja, decisero la vendita dei beni catastali e di quelli della chiesa. I signori liberali gestirono le vendite in prima persona (erano sindaci e componevano le giunte) . Si divisero i panni di Cristo! Una vera e propria “carneficina erariale”. In cambio di quattro soldi, nacque allora il latifondo, sicuramente la principale causa del mancato sviluppo, anche attuale, del meridione.
Così il cerchio era chiuso.
Quei terreni, fino ad allora in “uso civico” o in “fitto” (a costo irrisorio, perchè ecclesiastici), acquisiti dai galantuomini, vennero tolti a migliaia di contadini che, restati senza alcun sostentamento, nel bel mezzo di una guerra, di meglio non trovarono che la strada dell’emigrazione verso le Americhe. Comincia qui, e per questo motivo, il grande esodo. L’emigrazione, nel Regno delle Due Sicilie, era fino ad allora fenomeno sconosciuto. Basta guardare le statistiche per rendersene conto.
I galantuomini, avevano , però fatto i conti senza dell’oste, perché se fino ad allora i guerriglieri li tormentavano in quanto traditori, ora erano divenuti gli affamatori del popolo, quelli che avevano tolto il pane alla gente, immiserendola e scacciandola dalla loro casa, il sacco era pieno e l’insofferenza popolare stava per esplodere.
Era l’alba di un bel mattino del 1861. Urbano Camerotta, sergente del disciolto esercito delle Due Sicilie, giungeva in vista di Troja. Grande era in lui la commozione, mancava dalla sua città ormai da troppo tempo. L’invasione sabauda, la sconfitta nella battaglia del Volturno e la caduta di Gaeta –con la fine del Regno- lo avevano visto protagonista. Indossava ancora la giacca blu del suo reparto, il 4° reggimento fanteria “Principessa”, aveva viaggiato di notte per non essere catturato dai piemontesi. La vista della natia collina ed il pensiero che, da lì a poco, avrebbe riabbracciato sua moglie, gli dava grande sollievo.
Raggiunse la sua casa, fra due terre, e bussò alla porta. Non ebbe risposta. Provò ancora, ma niente. Sentendo rumore, si affacciò alla finestra la commara del piano di sopra e, singhiozzando, raccontò ad Urbano di come, Letizia, fosse stata malmenata e ridotta in fin di vita, dai militi della guardia nazionale. Era la moglie di un sottufficiale del Real esercito, ormai divenuto nemico in casa sua… Urbano sobbalzò, non poteva credere a quanto udiva. Non fece in tempo a chiedere altro che, dal fondo della strada, risuonarono degli spari. Erano le guardie nazionali di ronda che, riconosciutolo, lo aveva preso di mira. Il sergente prese a correre e mentre fuggiva, dalla finestra, la commara gli urlò “Caruso!.. Caruso!..” non ne capì subito il significato, ma ben presto lo scoprì. Letizia, era stata prelevata da due guerrigliere del gruppo Caruso di Torremaggiore; che, portatala al loro accampamento, l’avrebbero curata salvandole la vita.
Proprio là, qualche giorno dopo, Urbano la riabbracciò ed iniziò così la sua vita da partigiano borbonico, passando anche con i gruppi Schiavone di S. Agata e con quello ben più ardito e famoso di Carmine Crocco, operante tra Capitanata e Melfitano, composto da oltre 2000 uomini.
Catturato dai piemontesi sarà fucilato a Lucera il 12 gennaio 1863. Gli trovarono in tasca la formula del giuramento che ogni guerrigliero doveva prestare, per entrare nel gruppo e indossare la coccarda rossa con il giglio borbonico, simbolo dei legittimisti :
Noi giuriamo davanti a Dio
e dinanzi al mondo intiero di essere fedeli al nostro
augustissimo e religiosissimo sovrano Francesco II
(che Dio guardi sempre);
e promettiamo di concorrere con tutta la nostra anima
e con tutte le nostre forze a combattere i cani piemontesi,
invasori del nostro sacro suolo e ladri di ogni nostro avere,
per restituire al trono dei suoi avi
il nostro amatissimo e legittimo sovrano Francesco II
Noi giuriamo davanti a Dio
di rivendicare tutti i diritti del nostro Santo Padre Pio IX
e della Santa chiesa e di abbattere il lucifero infernale
Vittorio Emanuele e i suoi complici, rinnegati traditori
della nostra Patria e della nostra religione
Con l’effusione del sangue di ogni combattente,
per la libertà del Regno delle Due Sicilie,
dal Tronto alla Capitanata, dalla Sicilia al Molise,
noi lo promettiamo e lo giuriamo
Il clima in quei giorni, in tutta la Capitanata era infuocato, Nicola Beccia, nella sua “Cronistoria di Troja”, riporta che:” La città fu disseminata di pezzi d’artiglieria in tutte le strade, poiche la popolazione minacciava di insorgere…” in ogni centro si susseguivano manifestazioni in sostegno dei Borbone. Il rito era più o meno identico dappertutto. Il popolo calpestava e bruciava i quadri di Garibaldi e Vittorio Emanuele, rimetteva al loro posto quelli di Francesco II e Maria Sofia, dopodiché, per protesta contro le nuove amministrazioni comunali abusive, dava fuoco agli archivi municipali.
La risposta dello stato unitario-savojardo, a questi fatti, fu la promulgazione della famigerata “Legge Pica” del 20 agosto 1863; con la quale si condannava a morte chiunque, anche solo sulla base di un sospetto. Fu l’inizio di una indiscriminata repressione sanguinaria, che porterà a circa un milione di morti nell’ex-Regno, oltre a 54 paesi rasi al suolo. I piemontesi usavano metodi spicci, ammazzavano contadini spacciandoli per briganti senza troppi problemi. Dopo le fucilazioni, si facevano scattare lugubri foto-ricordo assieme ai cadaveri. Questi, insepolti, venivano distesi nelle strade quale monito. In molti casi gli veniva mozzata la testa ed esposta all’imbocco del paese.
Lo storico Franco Molfese, nel suo monumentale volume “Storia del brigantaggio dopo l’unità” (Feltrinelli) così si esprime: In Capitanata, il Comandante piemontese Mazé de la Roche non ebbe problemi ad incendiare case e pagliai o a fucilare individui per il solo fatto che circolavano fuori dai centri abitati o trasportassero alimenti. Mogli di briganti erano state condannate ai ferri a vita, come manutengole (complici). Fanciulle inferiori ai dodici anni, figlie di briganti, avevano subito condanne di 10 o 15 anni, quando non a morte, dopo il giudizio sommario di tribunali militari, improvvisati alla men peggio in una cascina o sotto un albero.
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