sabato 20 febbraio 2010
Financial Times ed Economist all`assalto della Grecia
Di U.G.
Il “caso finanziario” odierno è il dissesto di bilancio della Grecia.
Da una parte, Oltremanica, gli osservatori della grande finanza si augurano (vedi Financial Times del 16 febbraio) la fuoriuscita di Atene – e in progressione degli altri membri “pigs”(portoghesi, italiani, irlandesi e spagnoli) dalla cosiddetta “eurozona”. In subordine una sottomissione della Grecia ai diktat del Fmi.
Dall’altra, a Bruxelles si tenta invece di convincere Berlino e Parigi di farsi carico di un sostegno finanziario alla Grecia. Con tanti saluti ai principii fondanti dell’unione monetaria che fa perno sull’euro, e cioè i parametri di Maastricht e la dichiarazione di “stabilità” del trattato di Lisbona.
E’ evidente, in ambedue le posizioni, il dichiarato scetticismo sulla possibilità reale di uno “stato di sicurezza” dell’attuale unione monetaria europea privata, fin dalla sua fondazione, volutamente, di paletti di tutela, politici e finanziari. Una fragilità intrinseca che in queste settimane viene accelerata dall’apprezzamento del dollaro e dal declino dell’euro.
Fin qui il rapido sommario di quanto si agita sui mercati monetari atlantici.
Ma tale analisi è appunto sommaria e parziale. Perché non va al fondo del problema generale.
Occorre uno sguardo sul perché dello stato di debolezza attuale dei mercati monetari europei.
E la premessa ravvicinata è una sola: di fronte alla crisi finanziaria del 2008 - è un fatto - il primo presidente inutilmente negro degli Usa non ha affatto usato il bisturi per rivitalizzare i redditi diffusi dei cittadini e la produzione economica in crisi, che sono le basi delle economie nazionali. Obama si è al contrario mosso in favore degli “untori” del crack, salvando con fondi per 787 miliardi di dollari banche e assicurazioni protagoniste del disastro. E lo stesso è stato fatto dall’inglese Brown. I due “piloti” dell’Occidente hanno così permesso bellamente alle due borse più inutili, dannose e devastanti del mondo – Wall Street e la City – di recuperare i profitti perduti speculando ancora di più.
E’ un fatto assodato che all’origine del crack del 2008 vi fosse la manovra speculativa sui fondi e sui mutui finanziari. Banche, assicurazioni e finanziarie d’assalto avevano preferito investire sull’economia virtuale piuttosto che sulla produzione delle aziende “vere”. Scoppiata la bolla, rimpinguate le casse vuote degli enti speculativi con i soldi pubblici Usa e britannici, nulla è dunque cambiato e, anzi, i fondi di sostegno continuano ad essere utilizzati per una finanza allegra non produttiva.
Il contrappasso è la crisi sempre più grave dell’economia reale, delle aziende produttive. Prive di fondi, prive di crediti, si moltiplicano gli stati di crisi, si decurtano gli investimenti, si limitano le spese e si giunge così ad intaccare il nocciolo produttivo, la forza lavoro, che diventa sempre di più un “costo” da tagliare per sopravvivere. Ergo: si contrae il potere di acquisto dei cittadini-lavoratori, si riducono i consumi, e le economie nazionali si avviano verso la recessione.
Anzi, di più: verso la desertificazione industriale completa.
E questo è il primo, gravissimo, anello della crisi. Che va di pari passo con l’aumento esponenziale del debito pubblico.
L’esempio Italia. Nel nostro Paese l’indebitamento è già di per sé fisiologico (una nazione priva com’è di materie prime è costretta a indebitarsi di più di fronte ad ogni aumento dei costi di energia o dei materiali importati). Se a questo indebitamento si coniuga la stagnazione della produzione, la crisi manifatturiera, la crisi delle aziende “reali”, il taglio dei redditi di lavoro, l’aumento delle tutele sociali per i disoccupati o i parzialmente occupati, il debito pubblico aumenta esponenzialmente. Anche perché, dal 1992 in poi, una banda di banksters ha privatizzato e terziarizzato gran parte delle industrie nazionali produttive esistenti, con un ulteriore conseguenza negativa sulle entrate fiscali: è pacifico che le attività terziarie, precarizzate, producano infatti meno risorse fiscali generali.
La morale della storia è che lentamente questo gorgo finanziario ha definanziato gli Stati e strangolato le imprese, sino al punto in cui oggi alcuni paesi – e i casi Islanda, Irlanda, Grecia sono sintomatici - versano in situazioni catastrofiche.
Badate bene, come più volte dimostrato dall’economista Uriel (www.wolfstep.cc), quello greco non è il problema maggiore. In Europa, la Gran Brtetagna è arrivata al 170% del pil di debito, e appaiono attorno al 95% solo perché Londra si rifiuta di contabilizzare le spese di salvataggio delle banche nel debito pubblico e di seguire i criteri contabili comuni nell’Ue. Su scala mondiale, il Giappone rasenta il 250% del pil come debito pubblico, e gli Usa, se consolidati, stanno rasentando il 200% del pil.
E allora, come andiamo ripetendo da più settimane, i cosiddetti pigs o piigs (cioè le “economie deboli” di Portogallo, Italia-Irlanda, Grecia e Spagna) sono un’invenzione della stampa anglosassone, che si sforza di deviare su alcuni paesi dei problemi che nel mondo anglosassone esistono in misura maggiore. Il rischio è che di propaganda e in propaganda, nasca una reazione a catena, con disinvestimenti finanziari ed effetto domino.
Facciamo l’esempio greco. In realtà il deficit ellenico è un problema risolvibile, minore. L’indebitamento pubblico è quasi del tutto interno (il debito, come si diceva una volta, è “in famiglia”, gli usurai e gli speculatori sono fuori dalla porta…). Sarà dunque sufficiente un “atto di buona volontà” dei Paesi guida dell’eurozona, per risolverlo.
Ma nelle scorse settimane, la speculazione finanziaria si è scatenata. Si è avuta una vera e propria corsa all’acquisto di swap per il debito pubblico dei paesi cosiddetti “piigs”. Quello che criminali come Soros e altri vogliono fare è di ottenere la bancarotta di uno di tali paesi, in maniera tale da guadagnare prima dallo swap, e poi, comprando i titoli a costo irrisorio, andare a negoziare le condizioni coi governi falliti.
Un gioco al quadrato come ai tempi dello sme, il sistema monetario europeo, nel 1992. Quando il signor Soros , il “filantropo”, con denaro concessogli a termine dalla Goldman&Sachs (l’ente privato usuraio del quale lo stesso governatore Draghi è stato il direttore per l’Europa), provocò, comprando valuta nazionale italiana a basso prezzo, la fuoriuscita della lira dallo Sme stesso e la svalutazione. Con il corollario del mega-prestito e delle stangate che dal 1993 in poi hanno eroso il reddito nazionale degli italiani tutti.
Il vero pericolo del “caso-Grecia” è dunque l’effetto domino che potrebbe seguire.
Dato per certo il crescente rastrellamento del debito pubblico dei Paesi non anglosassoni ritenuti però dalla grande finanza speculativa internazionale (quella beneficata da Obama e Gordon Brown), principale oggetto delle sue “cure”, non è detto che tale manovra usuraia si fermi ad Atene, anzi. Nel mirino ci sono Madrid, Lisbona, Dublino. E, se la speculazione andrà avanti con il suo gioco duro, anche Roma (un po’ più difesa da un debito italiano “investito” in fondi Usa).
Ora stanno dando l’assalto al primo tassello del domino, la Grecia. Ed è dunque non a caso che gli strumenti mediatici della grande finanza come il Financial Times e l’Economist stiano lanciando i loro “consigli” per un “default” immediato della Grecia che chiedono all’Ue, nei fatti, di “non” sostenere con misure di salvataggio.
Così si accelererebbe il grande sacco tutto e subito.
Fonte:Rinascita
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Di U.G.
Il “caso finanziario” odierno è il dissesto di bilancio della Grecia.
Da una parte, Oltremanica, gli osservatori della grande finanza si augurano (vedi Financial Times del 16 febbraio) la fuoriuscita di Atene – e in progressione degli altri membri “pigs”(portoghesi, italiani, irlandesi e spagnoli) dalla cosiddetta “eurozona”. In subordine una sottomissione della Grecia ai diktat del Fmi.
Dall’altra, a Bruxelles si tenta invece di convincere Berlino e Parigi di farsi carico di un sostegno finanziario alla Grecia. Con tanti saluti ai principii fondanti dell’unione monetaria che fa perno sull’euro, e cioè i parametri di Maastricht e la dichiarazione di “stabilità” del trattato di Lisbona.
E’ evidente, in ambedue le posizioni, il dichiarato scetticismo sulla possibilità reale di uno “stato di sicurezza” dell’attuale unione monetaria europea privata, fin dalla sua fondazione, volutamente, di paletti di tutela, politici e finanziari. Una fragilità intrinseca che in queste settimane viene accelerata dall’apprezzamento del dollaro e dal declino dell’euro.
Fin qui il rapido sommario di quanto si agita sui mercati monetari atlantici.
Ma tale analisi è appunto sommaria e parziale. Perché non va al fondo del problema generale.
Occorre uno sguardo sul perché dello stato di debolezza attuale dei mercati monetari europei.
E la premessa ravvicinata è una sola: di fronte alla crisi finanziaria del 2008 - è un fatto - il primo presidente inutilmente negro degli Usa non ha affatto usato il bisturi per rivitalizzare i redditi diffusi dei cittadini e la produzione economica in crisi, che sono le basi delle economie nazionali. Obama si è al contrario mosso in favore degli “untori” del crack, salvando con fondi per 787 miliardi di dollari banche e assicurazioni protagoniste del disastro. E lo stesso è stato fatto dall’inglese Brown. I due “piloti” dell’Occidente hanno così permesso bellamente alle due borse più inutili, dannose e devastanti del mondo – Wall Street e la City – di recuperare i profitti perduti speculando ancora di più.
E’ un fatto assodato che all’origine del crack del 2008 vi fosse la manovra speculativa sui fondi e sui mutui finanziari. Banche, assicurazioni e finanziarie d’assalto avevano preferito investire sull’economia virtuale piuttosto che sulla produzione delle aziende “vere”. Scoppiata la bolla, rimpinguate le casse vuote degli enti speculativi con i soldi pubblici Usa e britannici, nulla è dunque cambiato e, anzi, i fondi di sostegno continuano ad essere utilizzati per una finanza allegra non produttiva.
Il contrappasso è la crisi sempre più grave dell’economia reale, delle aziende produttive. Prive di fondi, prive di crediti, si moltiplicano gli stati di crisi, si decurtano gli investimenti, si limitano le spese e si giunge così ad intaccare il nocciolo produttivo, la forza lavoro, che diventa sempre di più un “costo” da tagliare per sopravvivere. Ergo: si contrae il potere di acquisto dei cittadini-lavoratori, si riducono i consumi, e le economie nazionali si avviano verso la recessione.
Anzi, di più: verso la desertificazione industriale completa.
E questo è il primo, gravissimo, anello della crisi. Che va di pari passo con l’aumento esponenziale del debito pubblico.
L’esempio Italia. Nel nostro Paese l’indebitamento è già di per sé fisiologico (una nazione priva com’è di materie prime è costretta a indebitarsi di più di fronte ad ogni aumento dei costi di energia o dei materiali importati). Se a questo indebitamento si coniuga la stagnazione della produzione, la crisi manifatturiera, la crisi delle aziende “reali”, il taglio dei redditi di lavoro, l’aumento delle tutele sociali per i disoccupati o i parzialmente occupati, il debito pubblico aumenta esponenzialmente. Anche perché, dal 1992 in poi, una banda di banksters ha privatizzato e terziarizzato gran parte delle industrie nazionali produttive esistenti, con un ulteriore conseguenza negativa sulle entrate fiscali: è pacifico che le attività terziarie, precarizzate, producano infatti meno risorse fiscali generali.
La morale della storia è che lentamente questo gorgo finanziario ha definanziato gli Stati e strangolato le imprese, sino al punto in cui oggi alcuni paesi – e i casi Islanda, Irlanda, Grecia sono sintomatici - versano in situazioni catastrofiche.
Badate bene, come più volte dimostrato dall’economista Uriel (www.wolfstep.cc), quello greco non è il problema maggiore. In Europa, la Gran Brtetagna è arrivata al 170% del pil di debito, e appaiono attorno al 95% solo perché Londra si rifiuta di contabilizzare le spese di salvataggio delle banche nel debito pubblico e di seguire i criteri contabili comuni nell’Ue. Su scala mondiale, il Giappone rasenta il 250% del pil come debito pubblico, e gli Usa, se consolidati, stanno rasentando il 200% del pil.
E allora, come andiamo ripetendo da più settimane, i cosiddetti pigs o piigs (cioè le “economie deboli” di Portogallo, Italia-Irlanda, Grecia e Spagna) sono un’invenzione della stampa anglosassone, che si sforza di deviare su alcuni paesi dei problemi che nel mondo anglosassone esistono in misura maggiore. Il rischio è che di propaganda e in propaganda, nasca una reazione a catena, con disinvestimenti finanziari ed effetto domino.
Facciamo l’esempio greco. In realtà il deficit ellenico è un problema risolvibile, minore. L’indebitamento pubblico è quasi del tutto interno (il debito, come si diceva una volta, è “in famiglia”, gli usurai e gli speculatori sono fuori dalla porta…). Sarà dunque sufficiente un “atto di buona volontà” dei Paesi guida dell’eurozona, per risolverlo.
Ma nelle scorse settimane, la speculazione finanziaria si è scatenata. Si è avuta una vera e propria corsa all’acquisto di swap per il debito pubblico dei paesi cosiddetti “piigs”. Quello che criminali come Soros e altri vogliono fare è di ottenere la bancarotta di uno di tali paesi, in maniera tale da guadagnare prima dallo swap, e poi, comprando i titoli a costo irrisorio, andare a negoziare le condizioni coi governi falliti.
Un gioco al quadrato come ai tempi dello sme, il sistema monetario europeo, nel 1992. Quando il signor Soros , il “filantropo”, con denaro concessogli a termine dalla Goldman&Sachs (l’ente privato usuraio del quale lo stesso governatore Draghi è stato il direttore per l’Europa), provocò, comprando valuta nazionale italiana a basso prezzo, la fuoriuscita della lira dallo Sme stesso e la svalutazione. Con il corollario del mega-prestito e delle stangate che dal 1993 in poi hanno eroso il reddito nazionale degli italiani tutti.
Il vero pericolo del “caso-Grecia” è dunque l’effetto domino che potrebbe seguire.
Dato per certo il crescente rastrellamento del debito pubblico dei Paesi non anglosassoni ritenuti però dalla grande finanza speculativa internazionale (quella beneficata da Obama e Gordon Brown), principale oggetto delle sue “cure”, non è detto che tale manovra usuraia si fermi ad Atene, anzi. Nel mirino ci sono Madrid, Lisbona, Dublino. E, se la speculazione andrà avanti con il suo gioco duro, anche Roma (un po’ più difesa da un debito italiano “investito” in fondi Usa).
Ora stanno dando l’assalto al primo tassello del domino, la Grecia. Ed è dunque non a caso che gli strumenti mediatici della grande finanza come il Financial Times e l’Economist stiano lanciando i loro “consigli” per un “default” immediato della Grecia che chiedono all’Ue, nei fatti, di “non” sostenere con misure di salvataggio.
Così si accelererebbe il grande sacco tutto e subito.
Fonte:Rinascita
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