di Giovanni Durante
La beffa storica dell'Unità. Il caso leghista e la "questione settentrionale". La maionese italiana.
http://temi.repubblica.it/limes/lâitalia-non-conviene-piu/2834?com=2834#scrivicommenti
(un'altra carta pubblicata tra quelle proposte da questo lettore è stata pubblicata su Limes 2/2009 Esiste l'Italia? (dipende da noi), Limes su carta, in edicola dal 3 marzo 2009).
Il quesito posto dagli amici di Limes sulla questione “esiste l’Italia?” è veramente di grande attualità, oggi che il paese vive un momento di forte difficoltà.
Non è quindi da irresponsabili porsi questo domanda ma anzi da cittadini maturi che debbono veramente chiedersi se, in nome di un presunto interesse nazionale, da tempo e da più parti sbandierato, ci sono ancora le motivazioni che rendono vantaggiosa l’unità statale della penisola.
Unità che lo ricordiamo in appena un secolo e mezzo forse ha prodotto più guasti che aspetti positivi, con un sentimento nazionale avvertito in tono decisamente minore rispetto ad altri stati europei, anche con una storia di unità statale più recente della nostra e sicuramente in maniera a volte imbarazzante come palesatosi ad esempio nel caso della passione popolare che accompagna le avventure della nostra nazionale, i cui giocatori però molto spesso disconoscono le strofe dell’inno di Mameli.
La beffa storica dell’unità
D’altronde i recenti studi di coraggiosi storici meridionali stanno smentendo l’impalcatura concettuale che vorrebbe che l’annessione (perché di questo si è trattato e non certo di un unione volontaria sulla base di interessi condivisi) delle regioni centro meridionali della penisola al Piemonte cavouriano nel periodo 1859-1861 sia stata una fortuna come la storiografia ufficiale ci ha fin qui presentato. Ovviamente non sono tra quelli che nutre simpatia per il regime borbonico o per quello papale. Ma l’annessione fu un affare solo per il nord. Basti pensare che nel 1859 il Regno del Piemonte con una popolazione di appena 5 milioni di anime aveva un debito pubblico di 1271 milioni di lire contro i 441 milioni del Regno di Napoli che peraltro aveva 9 milioni di sudditi. Il sud inoltre non era più povero di come certa storiografia lo ha dipinto dato che la percentuale dei poveri (l’1.34% della popolazione) era in linea con quelli degli altri stati pre-unitari, mentre dal censimento del 1861, fatto a unità compiuta, si evince che il sud stesso con il 36.7% della popolazione complessiva italiana aveva nell’industria una forza lavoro pari al 51% del totale con quasi cinquemila fabbrica (quarta flotta mercantile del mondo, industria siderurgica, tessile, cartiera, estrattiva e chimica, conciaria, del corallo, vetraria e alimentare) mentre nel comparto agricolo disponeva del 56.3% dei braccianti agricoli e del 55.8% degli operai agricoli specializzati. E dei 670 milioni di lire di allora che costituivano la riserva aurea italiana, ben 443.2 milioni provenivano dal tesoro del Regno delle Due Sicilie.
Si consideri inoltre che nelle Due Sicilie vi era la più alta percentuale di medici per abitanti in Italia (in tutto 9390 su circa 9 milioni di abitanti; Piemonte, Liguria, Lombardia, Toscana e Romagna messi insieme ne avevano 7087 su 13 milioni di abitanti), il minor tasso di mortalità infantile d'Italia (fino alla fine del 1800 i livelli più elevati si registravano in Lombardia, Piemonte e Emilia Romagna), che nel 1821 una legge escludeva da ogni impiego i genitori che non avessero vaccinato i figli per il vaiolo mentre nel Regno di Sardegna la vaccinazione fu resa obbligatoria solo nel 1859. Non si può dire inoltre che nelle Due Sicilie mancassero gli ospedali (22 nel 1847) e napoletana fu la prima clinica ortopedica d’Italia cosi come napoletano fu sempre quell’atto rivoluzionario nella storia della psichiatria che vide, per la prima volta in Europa, togliere i ceppi agli internati. Il Regno vantava quattro università e il numero degli studenti meridionali era maggiore di quello di tutte le università italiane messe assieme (9 mila su complessivi 16mila) e le case editrici napoletane pubblicavano il 55% di tutti libri editi in Italia, mentre solo il dato dell’alfabetizzazione era il peggiore della penisola. Da non dimenticare infine che l’emigrazione era sconosciuta.
Lo stesso Cavour in una lettera del 14 dicembre 1860 a Vittorio Emanuele II scrisse: “Lo scopo è chiaro e non è suscettibile di discussione. Imporre l’unità alla parte più corrotta e più debole dell’Italia. Sui mezzi non vi è pure gran dubbiezza: la forza morale e se questa non basta la fisica”.
Detto e fatto, perché di fronte alla inevitabile reazione meridionale, si mobilitò l’esercito che diede vita a una repressione incredibile che anni dopo suscitò persino l’indignazione di Gramsci il quale scrisse: “Lo stato italiano è stato una dittatura feroce che ha messo a ferro e fuoco l’Italia meridionale e le isole, squartando, fucilando, seppellendo vivi i contadini poveri che scrittori salariati tentarono di infamare col marchio di briganti."
Il disegno settentrionale fu preciso: l’asse Torino – Milano - Genova doveva avere il monopolio dell’industria italiana. Al Sud fu così assegnato un ruolo prevalentemente agricolo e di fornitore di mano d’opera per l’industria nordica. I fiori all’occhiello dell’economia meridionale, che erano al primo posto al momento dell’unità, nei relativi settori, come l’industria metalmeccanica di Pietrarsa, i cantieri navali (come Castellammare di Stabia, il più grande del Mediterraneo), gli stabilimenti siderurgici di Mongiana o Ferdinandea, l’industria tessile e le cartiere, caddero in abbandono o furono chiusi mentre, contemporaneamente, al Nord, sorsero quasi dal nulla analoghi stabilimenti come l’arsenale di La Spezia o colossi come l’Orlando.
Per questo, quando sento risuonare i proclami di secessione leghista mi metto a sorridere perché se vi è una parte d’Italia che dovrebbe chiedere dei risarcimenti questa è proprio il sud e anche per altre ragioni storiche. A differenza di altre “piccole patrie” europee (Scozia, Catalogna, ecc.) che hanno una storia alle spalle la cosiddetta “Padania” può infatti al limite essere considerata una espressione economica ma non ha un passato statuale a cui riferirsi mentre è proprio il sud Italia ad aver visto la nascita di uno dei primi stati centralizzati d’Europa e cioè quello normanno-svevo.
Il caso leghista e la “questione settentrionale”.
Eppure, tralasciando il passato anche il fenomeno leghista non può essere relegato in secondo piano o trattato con indifferenza. Da quando infatti, in quelle ormai lontane elezioni del 1987 quando la Lega prese il 6.6% dei voti nel collegio Como-Sondrio-Varese eleggendo un senatore e un deputato (tal Umberto bossi) questa forza è diventata un soggetto sempre più presente nella vita politica nazionale alla pari di altre formazioni autonomiste europeee come la catalana CiU (Convergia i Uniò) o come la Volksunie belga.
E la Lega, lo dobbiamo ammettere anche noi meridionali non è la malattia ma la spia, il sintomo del disagio sociale che si respira nella parte settentrionale del paese. L’autonomismo regionale infatti costituisce un problema che lo stato unitario aveva risolto alle sue origine con una netta scelta centralistica e che la Repubblica, a partire dal 1970, temperò con l’istituzione dell’ordinamento regionale. Questa esperienza è stata però sotto molti aspetti sostanziali un evidente fallimento. Alla precisa attribuzione di competenza che la carta costituzionale prevedeva per questi enti, non seguì, infatti, nel loro processo costitutivo, una distinzione funzionale, parimente nitida, tra essi e lo Stato centrale. Nell'ambito di queste competenze le regioni divennero titolari di un potere legislativo, a cui non corrispondeva uguale attribuzione e strumentazione amministrativa e solo alcune di esse presero lentamente a provvedervi. Mancarono di autonomia finanziaria e la loro dotazione procedeva per trasferimento, come quello degli altri enti locali. Molti dei loro indirizzi di spesa facevano capo a leggi ordinarie dello Stato. Nacquero quindi come uno snodo della struttura consociativa del sistema e attraverso di loro la classe politica maturò un'ulteriore sua stratificazione, un livello istituzionale intermedio di distribuzione della spesa pubblica, nonché d'organizzazione corporativa e clientelare. L'elemento unificante era dato dall'appartenenza di tutti al sistema dei partiti nazionali, all'interno dei quali ciascuno si collocava in un'abbastanza ordinata gerarchia di ruoli e di ambiti decisionali. Solo alcune regioni riuscirono a perseguire propri modelli di sviluppo e d'integrazione sociale e produttiva. Per le tre regioni a guida comunista, ad esempio, si parlava di un modello, che venne appunto designato di volta in volta come umbro, toscano, emiliano.
Facevano da riscontro a esso le tre grandi regioni del nord, Piemonte, Lombardia e Veneto, a prevalente guida democristiano - socialista, che per la complessità e modernità del tessuto socio-economico di riferimento tendevano anch'esse a emergere rispetto alle altre, nell'esplicazione del loro ruolo istituzionale. Nel Mezzogiorno l'istituzione delle regioni costituì invece complessivamente un arretramento, essendo venute meno, senza essere state sostituite, alcune presenze amministrative dello Stato centrale, che erano state comunque un livello già acquisito di modernità. Ci fù ad esempio, attraverso l'uso indiscriminato del sistema delle sub-deleghe agli enti territoriali minori, un riavvicinamento di molte decisioni rilevanti alla platea degli interessi particolari a cui queste si riferivano, con un conseguente, inevitabile, complessivo imbarbarimento socio-politico.
Nel 1975, all’indomani della vittoria elettorale amministrativa del PCI, il presidente dell'Emilia-Romagna, Guido Fanti, lanciò la proposta di un'alleanza tra le regioni della valle Padana. Questa idea di una «proto-Padania» nasceva allora però dalla constatazione polemica dell'incapacità dimostrata dal governo centrale di fornire una guida allo sviluppo economico-produttivo e, in quest'ambito, era già anche una critica alla politica meridionalistica così come veniva allora praticata. Era anche un modo per allargare il ruolo di governo del PCI (con le elezioni del 1975, tra l'altro, sia il Piemonte sia la Liguria si erano date una giunta di sinistra) secondo una direttrice riformistica, nel cuore del tessuto economico-produttivo del Paese, ma pur sempre entro la cornice di un disegno politico nazionale quale quello berlingueriano del «compromesso storico». Dietro a ciò emergeva tuttavia un problema di fondo: le regioni italiane procedevano con diversa velocità nel proprio sviluppo economico-produttivo e da ciò traevano una diversa consapevolezza degli oneri, ma anche delle possibilità che potevano derivare dalla loro autonomia. Lo mostravano altri sintomi. Il doroteo Bisaglia, ad esempio, nel 1982 notava come “per lo sviluppo effettivo delle potenzialità del Veneto l’ostacolo principale è la visione centralistica che prevale in Italia. Centralistica e burocratica. Se ciò fosse possibile, direi che il Veneto sarebbe pronto a partecipare a uno stato federale ma l’Italia no, non sarebbe pronta. L'ostacolo è nello squilibrio tra la coesione culturale del Veneto e quella generale. Lo stato ne ha paura”. L’istituzione dell'ordinamento regionale ha così indubbiamente contribuito a riproporre il problema storico dello squilibrio socio-economico tra le varie parti del Paese, nel senso che ciascuna regione ha potuto fare un bilancio delle proprie possibilità e prospettive e confrontarle con quelle delle altre, essendo ormai dotata di un proprio centro istituzionale d'iniziativa.
non a caso a partire dagli anni 90, furono le regioni forti a incominciare ad agitare questo problema, sapendo di non dover dipendere dallo stato centrale nelle loro prospettive di sviluppo. Questa era un'altra delle contraddizioni latenti su cui la classe politica in quegli anni non prese seriamente a ragionare come avrebbe dovuto con il risultato finale che ci troviamo ad affrontare oggi una situazione difficile che mette a seria prova l’utilità stessa di uno stato italiano unitario.
Il quadro attuale: la “maionese italiana”
Il risultato finale è una Italia spaccata non solo nella tradizionale tripartizione nord-centro-sud tanta cara all’ideologia leghista ma anche all’interno dei suoi vari sub-territori (cartina 1).
Tre regioni (Calabria, Campania e Sicilia) sono ormai diventata preda del potere malavitoso i cui tentacoli si estendono ora in direzione di altri territori come la Puglia e il litorale laziale e con forti ramificazioni nel settentrione. A queste regioni si contrappongono quelle che nel gergo politichese sono chiamate il “fortino rosso” (Emilia – Romagna, Umbria – Toscana e Marche) dove si è affermata una tradizionale ricetta fatta di coesione sociale e buongoverno ma che è anche essa oggi messa a dura prova e aggredita da più fronti. Il nord stesso è ormai diviso tra i territori del cosiddetto triangolo industriale (Torino – Genova - Milano) ancora non ripresesi del tutto dalle difficoltà del processo di riconversione economico in atto nell’ultimo quindicennio e il cosiddetto nord-est definito dagli analisti la vera “locomotiva economica d’Italia. A ciò si aggiungono dei territori dove forte e radicata è la tendenza ad una ulteriore autonomia come l’Alto Adige (si rammenti a proposito l’appello lanciato nel 2006 da 113 sindaci altoatesini affinché l’Austria fissasse nella sua costituzione l’impegno ad agire come potenza tutrice dell’autonomia del Sud-Tirolo come pure del suo diritto all’autodeterminazione), la Valle D’Aosta e la Sardegna.
Possibili soluzioni all’interno del contesto europeo.
Cosa fare allora, come aggiustare questa Italiettà? A mio avviso occorre ancora una volta riportare la moderna questione italiana nel contesto geo-politico della più ampia Unione Europea la quale non gode attualmente di buona salute.
La bocciatura del Trattato di Lisbona da parte della piccola Irlanda ripropone una volta di più l’urgenza di ridefinire lo spazio geo-politico dell’Unione quale premessa per un diverso e più funzionale assetto delle stesse istituzioni comunitarie.
Come infatti aveva ben evidenziato Limes stesso (L’Europa è un bluff – vol. 1/2006) “il ritorno della storia e degli egoismi nazionali è un segnale d’allarme per l'Italia, poiché l'erosione della sovranità statale stretta nella tenaglia Unione Europea-regioni/territori, non è uguale per tutti. Colpisce soprattutto gli Stati deboli, Italia in testa. Siamo stati educati per mezzo secolo a credere nel necessario avvento di un'Europa unita che avrebbe sublimato il deficit di legittimazione e efficienza del nostro Stato nazionale. Ci siamo illusi che per i partner comunitari l'Italia fosse un paese naturalmente europeo e che il rango di paese fondatore ci attribuisse automaticamente speciali diritti. Non è più così. Almeno da quando l'Unione Europea ha imboccato il percorso dell'espansione verso nord-est, attratta dal vuoto lasciato dalla ritirata russa. Per la maggior parte dei nuovi membri siamo più un anomalia che una risorsa. E forse lo eravamo anche per alcuni soci fondatori. Ma non potevano lasciarselo fuggire, in tempi di guerra fredda e di stringente solidarietà euro-atlantica. Difatti oggi l'Italia è un paese senza alleati e non siamo ricompresi in nessuna delle rinascenti aggregazioni macroregionali. Anche perché storicamente non ne siamo mai stati parte, se non in tempi preunitari.
E’ istruttivo sotto questo aspetto studiare le carte dei protofederalisti europei come quella della “Nuova Europa” di Bernard Norman (1943), dove il mosaico continentale è interamente composto da tasselli federali - alcuni anche molto attuali - con l'unica eccezione dell’Italia. Quasi che fosse impossibile connettere la penisola a un qualsiasi sottoinsieme europeo”.
Un continente dove oggi si contano 45 stati – più decine di territori che aspirano alla statualità – oltre che centinaia di regioni, laender, comunità autonome con ambizioni politiche e fiscali spesso smodate e quindi, tutte insieme, difficilmente riconducibili a un comune denominatore europeo. Occorre pertanto ridurre la complessità dello spazio geo-politico europeo aggregando stati e territori intorno a interessi, culture e progetti comuni come peraltro la stessa Unione Europea sta facendo nella predisposizioni di alcuni progetti come INTERREG e altri.
Così ad esempio è immaginabile uno “macroregione baltica” che comprenda gli attuali stati dell’Estonia, della Lettonia, della Lituania, della Finlandia, della Svezia, della Danimarca, i voivodati polacchi di Warminsko-Mazurskie, Pomorskie e Zachodnio-Pomorskie, e i laender tedeschi del Meklemburg-Vorpommern e dello Schlewig-Holstein (e forse in futuro anche gli oblast russi di Kaliningrad e di San Pietroburgo) oppure una “macroregione alpina” formata dai territori degli attuali stati di Austria, Svizzera, Slovenia, i laender tedeschi della Baviera e del Baden Wuttemberg, le regini francesi della Paca (Provence-alpes-cote d’azur), del Rhone-alpes e della Franche Comte e quelle del settentrione italiano.
Questo macro-aggregazioni regionali ridurrebbero la complessità dello spazio geo-politico europeo ad una decina di soggetti istituzionali (poi liberi di confederarsi tra loro in una UE rinnovata) e sarbberro più vicine alla tante piccole “heimat” locali facendo diminuire il rischio, oggi altissimo, di veder sostituirsi al centralismo degli stati nazionali l’egoismo delle piccole patrie.
In una siffatta cornice istituzionale pan-europea, lo stato italiano così come oggi appare sulle carte geografiche non avrebbe più ragione di essere ma i suoi territori si fonderebbero paritariamente con quelli di altri stati europei secondo affinità e vocazione:
A) le attuali regioni delle marche, dell’Abruzzo, del Molise, della Puglia e le province di Perugia e di Potenza più i territori ionici della Calabria e della Sicilia, si unirebbero a quelli degli attuali stati balcanici della Croazia, del Montenegro, dell’Albania, della Macedonia, della Grecia e forse del Kosovo-Serbia e della Bosnia quando questi saranno più stabilizzati – nella “macroregione europea del Levante” in virtù delle comuni vicende storiche e dai rapporti interetnici (la Magna Grecia, la dominazione bizantina, le minoranze ellenofone e albanesi in Calabria e croate in Molise) e gli interessi economici che si possono sviluppare lungo corridoi quali quello Bar-Bar- Belgrado con diramazioni collaterali come la Belgrado-Salonicco).
B) Le attuali regioni della Toscana, del Lazio (fatta eccezione per la provincia di Rieti), della Campania, della Sardegna, le provincia di Terni e di Potenza, i territori tirrenici della Calabria e gran parte della Sicilia, si unirebbero a quelli di attuali regioni francesi come la Corsica o la Linguadoca-Rossiglione o spagnole come la Catalogna, l’Aragona, la comunità valenciana e le Baleari nella “macroregione europea del Mediterraneo occidentale” cementata dalla storia (la dominazione spagnola plurisecolare nelle isole e nel sud Italia oltre chè nel piccolo stato dei Presidi in Toscana o l’influenza francese) e dagli interessi geo-economici.
C) le attuali regioni della Valle D’Aosta, del Piemonte, della Liguria, della Lombardia, del Trentino Alto Adige, dell’Emilia Romagna, del Veneto, e del Friuli – Venezia Giulia nella sopra prefigurata “macroregione europea alpina” oppure in caso di una diversa direzione geo-politica attuata dai territori di questa regione (con L’Austria che guarda più a riallacciare i rapporti con lo spazio geo-politico del suo ex-impero e la Svizzera e le regioni dello spazio alpino francese e tedesche tese più a proiettarsi verso l’Europa centrale cioè verso una prefigurata “macroregione europea transrenana”) con una possibile ripartizione in due distinti ambiti – Triveneto da un lato e Piemonte, Lombardia, Valle d’Aosta, Liguria e Emilia Romagna dall’altro.
Questo è uno degli articoli selezionati tra quelli ricevuti in seguito alla richiesta fatta in questi mesi ai lettori di limesonline nell'ambito dell'iniziativa Esiste l'Italia? e Disegna l'Italia di inviarci dei loro contributi.
Fonte: Limes Online
Segnalazione ASDS
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lunedì 4 gennaio 2010
L’Italia non conviene più
di Giovanni Durante
La beffa storica dell'Unità. Il caso leghista e la "questione settentrionale". La maionese italiana.
http://temi.repubblica.it/limes/lâitalia-non-conviene-piu/2834?com=2834#scrivicommenti
(un'altra carta pubblicata tra quelle proposte da questo lettore è stata pubblicata su Limes 2/2009 Esiste l'Italia? (dipende da noi), Limes su carta, in edicola dal 3 marzo 2009).
Il quesito posto dagli amici di Limes sulla questione “esiste l’Italia?” è veramente di grande attualità, oggi che il paese vive un momento di forte difficoltà.
Non è quindi da irresponsabili porsi questo domanda ma anzi da cittadini maturi che debbono veramente chiedersi se, in nome di un presunto interesse nazionale, da tempo e da più parti sbandierato, ci sono ancora le motivazioni che rendono vantaggiosa l’unità statale della penisola.
Unità che lo ricordiamo in appena un secolo e mezzo forse ha prodotto più guasti che aspetti positivi, con un sentimento nazionale avvertito in tono decisamente minore rispetto ad altri stati europei, anche con una storia di unità statale più recente della nostra e sicuramente in maniera a volte imbarazzante come palesatosi ad esempio nel caso della passione popolare che accompagna le avventure della nostra nazionale, i cui giocatori però molto spesso disconoscono le strofe dell’inno di Mameli.
La beffa storica dell’unità
D’altronde i recenti studi di coraggiosi storici meridionali stanno smentendo l’impalcatura concettuale che vorrebbe che l’annessione (perché di questo si è trattato e non certo di un unione volontaria sulla base di interessi condivisi) delle regioni centro meridionali della penisola al Piemonte cavouriano nel periodo 1859-1861 sia stata una fortuna come la storiografia ufficiale ci ha fin qui presentato. Ovviamente non sono tra quelli che nutre simpatia per il regime borbonico o per quello papale. Ma l’annessione fu un affare solo per il nord. Basti pensare che nel 1859 il Regno del Piemonte con una popolazione di appena 5 milioni di anime aveva un debito pubblico di 1271 milioni di lire contro i 441 milioni del Regno di Napoli che peraltro aveva 9 milioni di sudditi. Il sud inoltre non era più povero di come certa storiografia lo ha dipinto dato che la percentuale dei poveri (l’1.34% della popolazione) era in linea con quelli degli altri stati pre-unitari, mentre dal censimento del 1861, fatto a unità compiuta, si evince che il sud stesso con il 36.7% della popolazione complessiva italiana aveva nell’industria una forza lavoro pari al 51% del totale con quasi cinquemila fabbrica (quarta flotta mercantile del mondo, industria siderurgica, tessile, cartiera, estrattiva e chimica, conciaria, del corallo, vetraria e alimentare) mentre nel comparto agricolo disponeva del 56.3% dei braccianti agricoli e del 55.8% degli operai agricoli specializzati. E dei 670 milioni di lire di allora che costituivano la riserva aurea italiana, ben 443.2 milioni provenivano dal tesoro del Regno delle Due Sicilie.
Si consideri inoltre che nelle Due Sicilie vi era la più alta percentuale di medici per abitanti in Italia (in tutto 9390 su circa 9 milioni di abitanti; Piemonte, Liguria, Lombardia, Toscana e Romagna messi insieme ne avevano 7087 su 13 milioni di abitanti), il minor tasso di mortalità infantile d'Italia (fino alla fine del 1800 i livelli più elevati si registravano in Lombardia, Piemonte e Emilia Romagna), che nel 1821 una legge escludeva da ogni impiego i genitori che non avessero vaccinato i figli per il vaiolo mentre nel Regno di Sardegna la vaccinazione fu resa obbligatoria solo nel 1859. Non si può dire inoltre che nelle Due Sicilie mancassero gli ospedali (22 nel 1847) e napoletana fu la prima clinica ortopedica d’Italia cosi come napoletano fu sempre quell’atto rivoluzionario nella storia della psichiatria che vide, per la prima volta in Europa, togliere i ceppi agli internati. Il Regno vantava quattro università e il numero degli studenti meridionali era maggiore di quello di tutte le università italiane messe assieme (9 mila su complessivi 16mila) e le case editrici napoletane pubblicavano il 55% di tutti libri editi in Italia, mentre solo il dato dell’alfabetizzazione era il peggiore della penisola. Da non dimenticare infine che l’emigrazione era sconosciuta.
Lo stesso Cavour in una lettera del 14 dicembre 1860 a Vittorio Emanuele II scrisse: “Lo scopo è chiaro e non è suscettibile di discussione. Imporre l’unità alla parte più corrotta e più debole dell’Italia. Sui mezzi non vi è pure gran dubbiezza: la forza morale e se questa non basta la fisica”.
Detto e fatto, perché di fronte alla inevitabile reazione meridionale, si mobilitò l’esercito che diede vita a una repressione incredibile che anni dopo suscitò persino l’indignazione di Gramsci il quale scrisse: “Lo stato italiano è stato una dittatura feroce che ha messo a ferro e fuoco l’Italia meridionale e le isole, squartando, fucilando, seppellendo vivi i contadini poveri che scrittori salariati tentarono di infamare col marchio di briganti."
Il disegno settentrionale fu preciso: l’asse Torino – Milano - Genova doveva avere il monopolio dell’industria italiana. Al Sud fu così assegnato un ruolo prevalentemente agricolo e di fornitore di mano d’opera per l’industria nordica. I fiori all’occhiello dell’economia meridionale, che erano al primo posto al momento dell’unità, nei relativi settori, come l’industria metalmeccanica di Pietrarsa, i cantieri navali (come Castellammare di Stabia, il più grande del Mediterraneo), gli stabilimenti siderurgici di Mongiana o Ferdinandea, l’industria tessile e le cartiere, caddero in abbandono o furono chiusi mentre, contemporaneamente, al Nord, sorsero quasi dal nulla analoghi stabilimenti come l’arsenale di La Spezia o colossi come l’Orlando.
Per questo, quando sento risuonare i proclami di secessione leghista mi metto a sorridere perché se vi è una parte d’Italia che dovrebbe chiedere dei risarcimenti questa è proprio il sud e anche per altre ragioni storiche. A differenza di altre “piccole patrie” europee (Scozia, Catalogna, ecc.) che hanno una storia alle spalle la cosiddetta “Padania” può infatti al limite essere considerata una espressione economica ma non ha un passato statuale a cui riferirsi mentre è proprio il sud Italia ad aver visto la nascita di uno dei primi stati centralizzati d’Europa e cioè quello normanno-svevo.
Il caso leghista e la “questione settentrionale”.
Eppure, tralasciando il passato anche il fenomeno leghista non può essere relegato in secondo piano o trattato con indifferenza. Da quando infatti, in quelle ormai lontane elezioni del 1987 quando la Lega prese il 6.6% dei voti nel collegio Como-Sondrio-Varese eleggendo un senatore e un deputato (tal Umberto bossi) questa forza è diventata un soggetto sempre più presente nella vita politica nazionale alla pari di altre formazioni autonomiste europeee come la catalana CiU (Convergia i Uniò) o come la Volksunie belga.
E la Lega, lo dobbiamo ammettere anche noi meridionali non è la malattia ma la spia, il sintomo del disagio sociale che si respira nella parte settentrionale del paese. L’autonomismo regionale infatti costituisce un problema che lo stato unitario aveva risolto alle sue origine con una netta scelta centralistica e che la Repubblica, a partire dal 1970, temperò con l’istituzione dell’ordinamento regionale. Questa esperienza è stata però sotto molti aspetti sostanziali un evidente fallimento. Alla precisa attribuzione di competenza che la carta costituzionale prevedeva per questi enti, non seguì, infatti, nel loro processo costitutivo, una distinzione funzionale, parimente nitida, tra essi e lo Stato centrale. Nell'ambito di queste competenze le regioni divennero titolari di un potere legislativo, a cui non corrispondeva uguale attribuzione e strumentazione amministrativa e solo alcune di esse presero lentamente a provvedervi. Mancarono di autonomia finanziaria e la loro dotazione procedeva per trasferimento, come quello degli altri enti locali. Molti dei loro indirizzi di spesa facevano capo a leggi ordinarie dello Stato. Nacquero quindi come uno snodo della struttura consociativa del sistema e attraverso di loro la classe politica maturò un'ulteriore sua stratificazione, un livello istituzionale intermedio di distribuzione della spesa pubblica, nonché d'organizzazione corporativa e clientelare. L'elemento unificante era dato dall'appartenenza di tutti al sistema dei partiti nazionali, all'interno dei quali ciascuno si collocava in un'abbastanza ordinata gerarchia di ruoli e di ambiti decisionali. Solo alcune regioni riuscirono a perseguire propri modelli di sviluppo e d'integrazione sociale e produttiva. Per le tre regioni a guida comunista, ad esempio, si parlava di un modello, che venne appunto designato di volta in volta come umbro, toscano, emiliano.
Facevano da riscontro a esso le tre grandi regioni del nord, Piemonte, Lombardia e Veneto, a prevalente guida democristiano - socialista, che per la complessità e modernità del tessuto socio-economico di riferimento tendevano anch'esse a emergere rispetto alle altre, nell'esplicazione del loro ruolo istituzionale. Nel Mezzogiorno l'istituzione delle regioni costituì invece complessivamente un arretramento, essendo venute meno, senza essere state sostituite, alcune presenze amministrative dello Stato centrale, che erano state comunque un livello già acquisito di modernità. Ci fù ad esempio, attraverso l'uso indiscriminato del sistema delle sub-deleghe agli enti territoriali minori, un riavvicinamento di molte decisioni rilevanti alla platea degli interessi particolari a cui queste si riferivano, con un conseguente, inevitabile, complessivo imbarbarimento socio-politico.
Nel 1975, all’indomani della vittoria elettorale amministrativa del PCI, il presidente dell'Emilia-Romagna, Guido Fanti, lanciò la proposta di un'alleanza tra le regioni della valle Padana. Questa idea di una «proto-Padania» nasceva allora però dalla constatazione polemica dell'incapacità dimostrata dal governo centrale di fornire una guida allo sviluppo economico-produttivo e, in quest'ambito, era già anche una critica alla politica meridionalistica così come veniva allora praticata. Era anche un modo per allargare il ruolo di governo del PCI (con le elezioni del 1975, tra l'altro, sia il Piemonte sia la Liguria si erano date una giunta di sinistra) secondo una direttrice riformistica, nel cuore del tessuto economico-produttivo del Paese, ma pur sempre entro la cornice di un disegno politico nazionale quale quello berlingueriano del «compromesso storico». Dietro a ciò emergeva tuttavia un problema di fondo: le regioni italiane procedevano con diversa velocità nel proprio sviluppo economico-produttivo e da ciò traevano una diversa consapevolezza degli oneri, ma anche delle possibilità che potevano derivare dalla loro autonomia. Lo mostravano altri sintomi. Il doroteo Bisaglia, ad esempio, nel 1982 notava come “per lo sviluppo effettivo delle potenzialità del Veneto l’ostacolo principale è la visione centralistica che prevale in Italia. Centralistica e burocratica. Se ciò fosse possibile, direi che il Veneto sarebbe pronto a partecipare a uno stato federale ma l’Italia no, non sarebbe pronta. L'ostacolo è nello squilibrio tra la coesione culturale del Veneto e quella generale. Lo stato ne ha paura”. L’istituzione dell'ordinamento regionale ha così indubbiamente contribuito a riproporre il problema storico dello squilibrio socio-economico tra le varie parti del Paese, nel senso che ciascuna regione ha potuto fare un bilancio delle proprie possibilità e prospettive e confrontarle con quelle delle altre, essendo ormai dotata di un proprio centro istituzionale d'iniziativa.
non a caso a partire dagli anni 90, furono le regioni forti a incominciare ad agitare questo problema, sapendo di non dover dipendere dallo stato centrale nelle loro prospettive di sviluppo. Questa era un'altra delle contraddizioni latenti su cui la classe politica in quegli anni non prese seriamente a ragionare come avrebbe dovuto con il risultato finale che ci troviamo ad affrontare oggi una situazione difficile che mette a seria prova l’utilità stessa di uno stato italiano unitario.
Il quadro attuale: la “maionese italiana”
Il risultato finale è una Italia spaccata non solo nella tradizionale tripartizione nord-centro-sud tanta cara all’ideologia leghista ma anche all’interno dei suoi vari sub-territori (cartina 1).
Tre regioni (Calabria, Campania e Sicilia) sono ormai diventata preda del potere malavitoso i cui tentacoli si estendono ora in direzione di altri territori come la Puglia e il litorale laziale e con forti ramificazioni nel settentrione. A queste regioni si contrappongono quelle che nel gergo politichese sono chiamate il “fortino rosso” (Emilia – Romagna, Umbria – Toscana e Marche) dove si è affermata una tradizionale ricetta fatta di coesione sociale e buongoverno ma che è anche essa oggi messa a dura prova e aggredita da più fronti. Il nord stesso è ormai diviso tra i territori del cosiddetto triangolo industriale (Torino – Genova - Milano) ancora non ripresesi del tutto dalle difficoltà del processo di riconversione economico in atto nell’ultimo quindicennio e il cosiddetto nord-est definito dagli analisti la vera “locomotiva economica d’Italia. A ciò si aggiungono dei territori dove forte e radicata è la tendenza ad una ulteriore autonomia come l’Alto Adige (si rammenti a proposito l’appello lanciato nel 2006 da 113 sindaci altoatesini affinché l’Austria fissasse nella sua costituzione l’impegno ad agire come potenza tutrice dell’autonomia del Sud-Tirolo come pure del suo diritto all’autodeterminazione), la Valle D’Aosta e la Sardegna.
Possibili soluzioni all’interno del contesto europeo.
Cosa fare allora, come aggiustare questa Italiettà? A mio avviso occorre ancora una volta riportare la moderna questione italiana nel contesto geo-politico della più ampia Unione Europea la quale non gode attualmente di buona salute.
La bocciatura del Trattato di Lisbona da parte della piccola Irlanda ripropone una volta di più l’urgenza di ridefinire lo spazio geo-politico dell’Unione quale premessa per un diverso e più funzionale assetto delle stesse istituzioni comunitarie.
Come infatti aveva ben evidenziato Limes stesso (L’Europa è un bluff – vol. 1/2006) “il ritorno della storia e degli egoismi nazionali è un segnale d’allarme per l'Italia, poiché l'erosione della sovranità statale stretta nella tenaglia Unione Europea-regioni/territori, non è uguale per tutti. Colpisce soprattutto gli Stati deboli, Italia in testa. Siamo stati educati per mezzo secolo a credere nel necessario avvento di un'Europa unita che avrebbe sublimato il deficit di legittimazione e efficienza del nostro Stato nazionale. Ci siamo illusi che per i partner comunitari l'Italia fosse un paese naturalmente europeo e che il rango di paese fondatore ci attribuisse automaticamente speciali diritti. Non è più così. Almeno da quando l'Unione Europea ha imboccato il percorso dell'espansione verso nord-est, attratta dal vuoto lasciato dalla ritirata russa. Per la maggior parte dei nuovi membri siamo più un anomalia che una risorsa. E forse lo eravamo anche per alcuni soci fondatori. Ma non potevano lasciarselo fuggire, in tempi di guerra fredda e di stringente solidarietà euro-atlantica. Difatti oggi l'Italia è un paese senza alleati e non siamo ricompresi in nessuna delle rinascenti aggregazioni macroregionali. Anche perché storicamente non ne siamo mai stati parte, se non in tempi preunitari.
E’ istruttivo sotto questo aspetto studiare le carte dei protofederalisti europei come quella della “Nuova Europa” di Bernard Norman (1943), dove il mosaico continentale è interamente composto da tasselli federali - alcuni anche molto attuali - con l'unica eccezione dell’Italia. Quasi che fosse impossibile connettere la penisola a un qualsiasi sottoinsieme europeo”.
Un continente dove oggi si contano 45 stati – più decine di territori che aspirano alla statualità – oltre che centinaia di regioni, laender, comunità autonome con ambizioni politiche e fiscali spesso smodate e quindi, tutte insieme, difficilmente riconducibili a un comune denominatore europeo. Occorre pertanto ridurre la complessità dello spazio geo-politico europeo aggregando stati e territori intorno a interessi, culture e progetti comuni come peraltro la stessa Unione Europea sta facendo nella predisposizioni di alcuni progetti come INTERREG e altri.
Così ad esempio è immaginabile uno “macroregione baltica” che comprenda gli attuali stati dell’Estonia, della Lettonia, della Lituania, della Finlandia, della Svezia, della Danimarca, i voivodati polacchi di Warminsko-Mazurskie, Pomorskie e Zachodnio-Pomorskie, e i laender tedeschi del Meklemburg-Vorpommern e dello Schlewig-Holstein (e forse in futuro anche gli oblast russi di Kaliningrad e di San Pietroburgo) oppure una “macroregione alpina” formata dai territori degli attuali stati di Austria, Svizzera, Slovenia, i laender tedeschi della Baviera e del Baden Wuttemberg, le regini francesi della Paca (Provence-alpes-cote d’azur), del Rhone-alpes e della Franche Comte e quelle del settentrione italiano.
Questo macro-aggregazioni regionali ridurrebbero la complessità dello spazio geo-politico europeo ad una decina di soggetti istituzionali (poi liberi di confederarsi tra loro in una UE rinnovata) e sarbberro più vicine alla tante piccole “heimat” locali facendo diminuire il rischio, oggi altissimo, di veder sostituirsi al centralismo degli stati nazionali l’egoismo delle piccole patrie.
In una siffatta cornice istituzionale pan-europea, lo stato italiano così come oggi appare sulle carte geografiche non avrebbe più ragione di essere ma i suoi territori si fonderebbero paritariamente con quelli di altri stati europei secondo affinità e vocazione:
A) le attuali regioni delle marche, dell’Abruzzo, del Molise, della Puglia e le province di Perugia e di Potenza più i territori ionici della Calabria e della Sicilia, si unirebbero a quelli degli attuali stati balcanici della Croazia, del Montenegro, dell’Albania, della Macedonia, della Grecia e forse del Kosovo-Serbia e della Bosnia quando questi saranno più stabilizzati – nella “macroregione europea del Levante” in virtù delle comuni vicende storiche e dai rapporti interetnici (la Magna Grecia, la dominazione bizantina, le minoranze ellenofone e albanesi in Calabria e croate in Molise) e gli interessi economici che si possono sviluppare lungo corridoi quali quello Bar-Bar- Belgrado con diramazioni collaterali come la Belgrado-Salonicco).
B) Le attuali regioni della Toscana, del Lazio (fatta eccezione per la provincia di Rieti), della Campania, della Sardegna, le provincia di Terni e di Potenza, i territori tirrenici della Calabria e gran parte della Sicilia, si unirebbero a quelli di attuali regioni francesi come la Corsica o la Linguadoca-Rossiglione o spagnole come la Catalogna, l’Aragona, la comunità valenciana e le Baleari nella “macroregione europea del Mediterraneo occidentale” cementata dalla storia (la dominazione spagnola plurisecolare nelle isole e nel sud Italia oltre chè nel piccolo stato dei Presidi in Toscana o l’influenza francese) e dagli interessi geo-economici.
C) le attuali regioni della Valle D’Aosta, del Piemonte, della Liguria, della Lombardia, del Trentino Alto Adige, dell’Emilia Romagna, del Veneto, e del Friuli – Venezia Giulia nella sopra prefigurata “macroregione europea alpina” oppure in caso di una diversa direzione geo-politica attuata dai territori di questa regione (con L’Austria che guarda più a riallacciare i rapporti con lo spazio geo-politico del suo ex-impero e la Svizzera e le regioni dello spazio alpino francese e tedesche tese più a proiettarsi verso l’Europa centrale cioè verso una prefigurata “macroregione europea transrenana”) con una possibile ripartizione in due distinti ambiti – Triveneto da un lato e Piemonte, Lombardia, Valle d’Aosta, Liguria e Emilia Romagna dall’altro.
Questo è uno degli articoli selezionati tra quelli ricevuti in seguito alla richiesta fatta in questi mesi ai lettori di limesonline nell'ambito dell'iniziativa Esiste l'Italia? e Disegna l'Italia di inviarci dei loro contributi.
Fonte: Limes Online
Segnalazione ASDS
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La beffa storica dell'Unità. Il caso leghista e la "questione settentrionale". La maionese italiana.
http://temi.repubblica.it/limes/lâitalia-non-conviene-piu/2834?com=2834#scrivicommenti
(un'altra carta pubblicata tra quelle proposte da questo lettore è stata pubblicata su Limes 2/2009 Esiste l'Italia? (dipende da noi), Limes su carta, in edicola dal 3 marzo 2009).
Il quesito posto dagli amici di Limes sulla questione “esiste l’Italia?” è veramente di grande attualità, oggi che il paese vive un momento di forte difficoltà.
Non è quindi da irresponsabili porsi questo domanda ma anzi da cittadini maturi che debbono veramente chiedersi se, in nome di un presunto interesse nazionale, da tempo e da più parti sbandierato, ci sono ancora le motivazioni che rendono vantaggiosa l’unità statale della penisola.
Unità che lo ricordiamo in appena un secolo e mezzo forse ha prodotto più guasti che aspetti positivi, con un sentimento nazionale avvertito in tono decisamente minore rispetto ad altri stati europei, anche con una storia di unità statale più recente della nostra e sicuramente in maniera a volte imbarazzante come palesatosi ad esempio nel caso della passione popolare che accompagna le avventure della nostra nazionale, i cui giocatori però molto spesso disconoscono le strofe dell’inno di Mameli.
La beffa storica dell’unità
D’altronde i recenti studi di coraggiosi storici meridionali stanno smentendo l’impalcatura concettuale che vorrebbe che l’annessione (perché di questo si è trattato e non certo di un unione volontaria sulla base di interessi condivisi) delle regioni centro meridionali della penisola al Piemonte cavouriano nel periodo 1859-1861 sia stata una fortuna come la storiografia ufficiale ci ha fin qui presentato. Ovviamente non sono tra quelli che nutre simpatia per il regime borbonico o per quello papale. Ma l’annessione fu un affare solo per il nord. Basti pensare che nel 1859 il Regno del Piemonte con una popolazione di appena 5 milioni di anime aveva un debito pubblico di 1271 milioni di lire contro i 441 milioni del Regno di Napoli che peraltro aveva 9 milioni di sudditi. Il sud inoltre non era più povero di come certa storiografia lo ha dipinto dato che la percentuale dei poveri (l’1.34% della popolazione) era in linea con quelli degli altri stati pre-unitari, mentre dal censimento del 1861, fatto a unità compiuta, si evince che il sud stesso con il 36.7% della popolazione complessiva italiana aveva nell’industria una forza lavoro pari al 51% del totale con quasi cinquemila fabbrica (quarta flotta mercantile del mondo, industria siderurgica, tessile, cartiera, estrattiva e chimica, conciaria, del corallo, vetraria e alimentare) mentre nel comparto agricolo disponeva del 56.3% dei braccianti agricoli e del 55.8% degli operai agricoli specializzati. E dei 670 milioni di lire di allora che costituivano la riserva aurea italiana, ben 443.2 milioni provenivano dal tesoro del Regno delle Due Sicilie.
Si consideri inoltre che nelle Due Sicilie vi era la più alta percentuale di medici per abitanti in Italia (in tutto 9390 su circa 9 milioni di abitanti; Piemonte, Liguria, Lombardia, Toscana e Romagna messi insieme ne avevano 7087 su 13 milioni di abitanti), il minor tasso di mortalità infantile d'Italia (fino alla fine del 1800 i livelli più elevati si registravano in Lombardia, Piemonte e Emilia Romagna), che nel 1821 una legge escludeva da ogni impiego i genitori che non avessero vaccinato i figli per il vaiolo mentre nel Regno di Sardegna la vaccinazione fu resa obbligatoria solo nel 1859. Non si può dire inoltre che nelle Due Sicilie mancassero gli ospedali (22 nel 1847) e napoletana fu la prima clinica ortopedica d’Italia cosi come napoletano fu sempre quell’atto rivoluzionario nella storia della psichiatria che vide, per la prima volta in Europa, togliere i ceppi agli internati. Il Regno vantava quattro università e il numero degli studenti meridionali era maggiore di quello di tutte le università italiane messe assieme (9 mila su complessivi 16mila) e le case editrici napoletane pubblicavano il 55% di tutti libri editi in Italia, mentre solo il dato dell’alfabetizzazione era il peggiore della penisola. Da non dimenticare infine che l’emigrazione era sconosciuta.
Lo stesso Cavour in una lettera del 14 dicembre 1860 a Vittorio Emanuele II scrisse: “Lo scopo è chiaro e non è suscettibile di discussione. Imporre l’unità alla parte più corrotta e più debole dell’Italia. Sui mezzi non vi è pure gran dubbiezza: la forza morale e se questa non basta la fisica”.
Detto e fatto, perché di fronte alla inevitabile reazione meridionale, si mobilitò l’esercito che diede vita a una repressione incredibile che anni dopo suscitò persino l’indignazione di Gramsci il quale scrisse: “Lo stato italiano è stato una dittatura feroce che ha messo a ferro e fuoco l’Italia meridionale e le isole, squartando, fucilando, seppellendo vivi i contadini poveri che scrittori salariati tentarono di infamare col marchio di briganti."
Il disegno settentrionale fu preciso: l’asse Torino – Milano - Genova doveva avere il monopolio dell’industria italiana. Al Sud fu così assegnato un ruolo prevalentemente agricolo e di fornitore di mano d’opera per l’industria nordica. I fiori all’occhiello dell’economia meridionale, che erano al primo posto al momento dell’unità, nei relativi settori, come l’industria metalmeccanica di Pietrarsa, i cantieri navali (come Castellammare di Stabia, il più grande del Mediterraneo), gli stabilimenti siderurgici di Mongiana o Ferdinandea, l’industria tessile e le cartiere, caddero in abbandono o furono chiusi mentre, contemporaneamente, al Nord, sorsero quasi dal nulla analoghi stabilimenti come l’arsenale di La Spezia o colossi come l’Orlando.
Per questo, quando sento risuonare i proclami di secessione leghista mi metto a sorridere perché se vi è una parte d’Italia che dovrebbe chiedere dei risarcimenti questa è proprio il sud e anche per altre ragioni storiche. A differenza di altre “piccole patrie” europee (Scozia, Catalogna, ecc.) che hanno una storia alle spalle la cosiddetta “Padania” può infatti al limite essere considerata una espressione economica ma non ha un passato statuale a cui riferirsi mentre è proprio il sud Italia ad aver visto la nascita di uno dei primi stati centralizzati d’Europa e cioè quello normanno-svevo.
Il caso leghista e la “questione settentrionale”.
Eppure, tralasciando il passato anche il fenomeno leghista non può essere relegato in secondo piano o trattato con indifferenza. Da quando infatti, in quelle ormai lontane elezioni del 1987 quando la Lega prese il 6.6% dei voti nel collegio Como-Sondrio-Varese eleggendo un senatore e un deputato (tal Umberto bossi) questa forza è diventata un soggetto sempre più presente nella vita politica nazionale alla pari di altre formazioni autonomiste europeee come la catalana CiU (Convergia i Uniò) o come la Volksunie belga.
E la Lega, lo dobbiamo ammettere anche noi meridionali non è la malattia ma la spia, il sintomo del disagio sociale che si respira nella parte settentrionale del paese. L’autonomismo regionale infatti costituisce un problema che lo stato unitario aveva risolto alle sue origine con una netta scelta centralistica e che la Repubblica, a partire dal 1970, temperò con l’istituzione dell’ordinamento regionale. Questa esperienza è stata però sotto molti aspetti sostanziali un evidente fallimento. Alla precisa attribuzione di competenza che la carta costituzionale prevedeva per questi enti, non seguì, infatti, nel loro processo costitutivo, una distinzione funzionale, parimente nitida, tra essi e lo Stato centrale. Nell'ambito di queste competenze le regioni divennero titolari di un potere legislativo, a cui non corrispondeva uguale attribuzione e strumentazione amministrativa e solo alcune di esse presero lentamente a provvedervi. Mancarono di autonomia finanziaria e la loro dotazione procedeva per trasferimento, come quello degli altri enti locali. Molti dei loro indirizzi di spesa facevano capo a leggi ordinarie dello Stato. Nacquero quindi come uno snodo della struttura consociativa del sistema e attraverso di loro la classe politica maturò un'ulteriore sua stratificazione, un livello istituzionale intermedio di distribuzione della spesa pubblica, nonché d'organizzazione corporativa e clientelare. L'elemento unificante era dato dall'appartenenza di tutti al sistema dei partiti nazionali, all'interno dei quali ciascuno si collocava in un'abbastanza ordinata gerarchia di ruoli e di ambiti decisionali. Solo alcune regioni riuscirono a perseguire propri modelli di sviluppo e d'integrazione sociale e produttiva. Per le tre regioni a guida comunista, ad esempio, si parlava di un modello, che venne appunto designato di volta in volta come umbro, toscano, emiliano.
Facevano da riscontro a esso le tre grandi regioni del nord, Piemonte, Lombardia e Veneto, a prevalente guida democristiano - socialista, che per la complessità e modernità del tessuto socio-economico di riferimento tendevano anch'esse a emergere rispetto alle altre, nell'esplicazione del loro ruolo istituzionale. Nel Mezzogiorno l'istituzione delle regioni costituì invece complessivamente un arretramento, essendo venute meno, senza essere state sostituite, alcune presenze amministrative dello Stato centrale, che erano state comunque un livello già acquisito di modernità. Ci fù ad esempio, attraverso l'uso indiscriminato del sistema delle sub-deleghe agli enti territoriali minori, un riavvicinamento di molte decisioni rilevanti alla platea degli interessi particolari a cui queste si riferivano, con un conseguente, inevitabile, complessivo imbarbarimento socio-politico.
Nel 1975, all’indomani della vittoria elettorale amministrativa del PCI, il presidente dell'Emilia-Romagna, Guido Fanti, lanciò la proposta di un'alleanza tra le regioni della valle Padana. Questa idea di una «proto-Padania» nasceva allora però dalla constatazione polemica dell'incapacità dimostrata dal governo centrale di fornire una guida allo sviluppo economico-produttivo e, in quest'ambito, era già anche una critica alla politica meridionalistica così come veniva allora praticata. Era anche un modo per allargare il ruolo di governo del PCI (con le elezioni del 1975, tra l'altro, sia il Piemonte sia la Liguria si erano date una giunta di sinistra) secondo una direttrice riformistica, nel cuore del tessuto economico-produttivo del Paese, ma pur sempre entro la cornice di un disegno politico nazionale quale quello berlingueriano del «compromesso storico». Dietro a ciò emergeva tuttavia un problema di fondo: le regioni italiane procedevano con diversa velocità nel proprio sviluppo economico-produttivo e da ciò traevano una diversa consapevolezza degli oneri, ma anche delle possibilità che potevano derivare dalla loro autonomia. Lo mostravano altri sintomi. Il doroteo Bisaglia, ad esempio, nel 1982 notava come “per lo sviluppo effettivo delle potenzialità del Veneto l’ostacolo principale è la visione centralistica che prevale in Italia. Centralistica e burocratica. Se ciò fosse possibile, direi che il Veneto sarebbe pronto a partecipare a uno stato federale ma l’Italia no, non sarebbe pronta. L'ostacolo è nello squilibrio tra la coesione culturale del Veneto e quella generale. Lo stato ne ha paura”. L’istituzione dell'ordinamento regionale ha così indubbiamente contribuito a riproporre il problema storico dello squilibrio socio-economico tra le varie parti del Paese, nel senso che ciascuna regione ha potuto fare un bilancio delle proprie possibilità e prospettive e confrontarle con quelle delle altre, essendo ormai dotata di un proprio centro istituzionale d'iniziativa.
non a caso a partire dagli anni 90, furono le regioni forti a incominciare ad agitare questo problema, sapendo di non dover dipendere dallo stato centrale nelle loro prospettive di sviluppo. Questa era un'altra delle contraddizioni latenti su cui la classe politica in quegli anni non prese seriamente a ragionare come avrebbe dovuto con il risultato finale che ci troviamo ad affrontare oggi una situazione difficile che mette a seria prova l’utilità stessa di uno stato italiano unitario.
Il quadro attuale: la “maionese italiana”
Il risultato finale è una Italia spaccata non solo nella tradizionale tripartizione nord-centro-sud tanta cara all’ideologia leghista ma anche all’interno dei suoi vari sub-territori (cartina 1).
Tre regioni (Calabria, Campania e Sicilia) sono ormai diventata preda del potere malavitoso i cui tentacoli si estendono ora in direzione di altri territori come la Puglia e il litorale laziale e con forti ramificazioni nel settentrione. A queste regioni si contrappongono quelle che nel gergo politichese sono chiamate il “fortino rosso” (Emilia – Romagna, Umbria – Toscana e Marche) dove si è affermata una tradizionale ricetta fatta di coesione sociale e buongoverno ma che è anche essa oggi messa a dura prova e aggredita da più fronti. Il nord stesso è ormai diviso tra i territori del cosiddetto triangolo industriale (Torino – Genova - Milano) ancora non ripresesi del tutto dalle difficoltà del processo di riconversione economico in atto nell’ultimo quindicennio e il cosiddetto nord-est definito dagli analisti la vera “locomotiva economica d’Italia. A ciò si aggiungono dei territori dove forte e radicata è la tendenza ad una ulteriore autonomia come l’Alto Adige (si rammenti a proposito l’appello lanciato nel 2006 da 113 sindaci altoatesini affinché l’Austria fissasse nella sua costituzione l’impegno ad agire come potenza tutrice dell’autonomia del Sud-Tirolo come pure del suo diritto all’autodeterminazione), la Valle D’Aosta e la Sardegna.
Possibili soluzioni all’interno del contesto europeo.
Cosa fare allora, come aggiustare questa Italiettà? A mio avviso occorre ancora una volta riportare la moderna questione italiana nel contesto geo-politico della più ampia Unione Europea la quale non gode attualmente di buona salute.
La bocciatura del Trattato di Lisbona da parte della piccola Irlanda ripropone una volta di più l’urgenza di ridefinire lo spazio geo-politico dell’Unione quale premessa per un diverso e più funzionale assetto delle stesse istituzioni comunitarie.
Come infatti aveva ben evidenziato Limes stesso (L’Europa è un bluff – vol. 1/2006) “il ritorno della storia e degli egoismi nazionali è un segnale d’allarme per l'Italia, poiché l'erosione della sovranità statale stretta nella tenaglia Unione Europea-regioni/territori, non è uguale per tutti. Colpisce soprattutto gli Stati deboli, Italia in testa. Siamo stati educati per mezzo secolo a credere nel necessario avvento di un'Europa unita che avrebbe sublimato il deficit di legittimazione e efficienza del nostro Stato nazionale. Ci siamo illusi che per i partner comunitari l'Italia fosse un paese naturalmente europeo e che il rango di paese fondatore ci attribuisse automaticamente speciali diritti. Non è più così. Almeno da quando l'Unione Europea ha imboccato il percorso dell'espansione verso nord-est, attratta dal vuoto lasciato dalla ritirata russa. Per la maggior parte dei nuovi membri siamo più un anomalia che una risorsa. E forse lo eravamo anche per alcuni soci fondatori. Ma non potevano lasciarselo fuggire, in tempi di guerra fredda e di stringente solidarietà euro-atlantica. Difatti oggi l'Italia è un paese senza alleati e non siamo ricompresi in nessuna delle rinascenti aggregazioni macroregionali. Anche perché storicamente non ne siamo mai stati parte, se non in tempi preunitari.
E’ istruttivo sotto questo aspetto studiare le carte dei protofederalisti europei come quella della “Nuova Europa” di Bernard Norman (1943), dove il mosaico continentale è interamente composto da tasselli federali - alcuni anche molto attuali - con l'unica eccezione dell’Italia. Quasi che fosse impossibile connettere la penisola a un qualsiasi sottoinsieme europeo”.
Un continente dove oggi si contano 45 stati – più decine di territori che aspirano alla statualità – oltre che centinaia di regioni, laender, comunità autonome con ambizioni politiche e fiscali spesso smodate e quindi, tutte insieme, difficilmente riconducibili a un comune denominatore europeo. Occorre pertanto ridurre la complessità dello spazio geo-politico europeo aggregando stati e territori intorno a interessi, culture e progetti comuni come peraltro la stessa Unione Europea sta facendo nella predisposizioni di alcuni progetti come INTERREG e altri.
Così ad esempio è immaginabile uno “macroregione baltica” che comprenda gli attuali stati dell’Estonia, della Lettonia, della Lituania, della Finlandia, della Svezia, della Danimarca, i voivodati polacchi di Warminsko-Mazurskie, Pomorskie e Zachodnio-Pomorskie, e i laender tedeschi del Meklemburg-Vorpommern e dello Schlewig-Holstein (e forse in futuro anche gli oblast russi di Kaliningrad e di San Pietroburgo) oppure una “macroregione alpina” formata dai territori degli attuali stati di Austria, Svizzera, Slovenia, i laender tedeschi della Baviera e del Baden Wuttemberg, le regini francesi della Paca (Provence-alpes-cote d’azur), del Rhone-alpes e della Franche Comte e quelle del settentrione italiano.
Questo macro-aggregazioni regionali ridurrebbero la complessità dello spazio geo-politico europeo ad una decina di soggetti istituzionali (poi liberi di confederarsi tra loro in una UE rinnovata) e sarbberro più vicine alla tante piccole “heimat” locali facendo diminuire il rischio, oggi altissimo, di veder sostituirsi al centralismo degli stati nazionali l’egoismo delle piccole patrie.
In una siffatta cornice istituzionale pan-europea, lo stato italiano così come oggi appare sulle carte geografiche non avrebbe più ragione di essere ma i suoi territori si fonderebbero paritariamente con quelli di altri stati europei secondo affinità e vocazione:
A) le attuali regioni delle marche, dell’Abruzzo, del Molise, della Puglia e le province di Perugia e di Potenza più i territori ionici della Calabria e della Sicilia, si unirebbero a quelli degli attuali stati balcanici della Croazia, del Montenegro, dell’Albania, della Macedonia, della Grecia e forse del Kosovo-Serbia e della Bosnia quando questi saranno più stabilizzati – nella “macroregione europea del Levante” in virtù delle comuni vicende storiche e dai rapporti interetnici (la Magna Grecia, la dominazione bizantina, le minoranze ellenofone e albanesi in Calabria e croate in Molise) e gli interessi economici che si possono sviluppare lungo corridoi quali quello Bar-Bar- Belgrado con diramazioni collaterali come la Belgrado-Salonicco).
B) Le attuali regioni della Toscana, del Lazio (fatta eccezione per la provincia di Rieti), della Campania, della Sardegna, le provincia di Terni e di Potenza, i territori tirrenici della Calabria e gran parte della Sicilia, si unirebbero a quelli di attuali regioni francesi come la Corsica o la Linguadoca-Rossiglione o spagnole come la Catalogna, l’Aragona, la comunità valenciana e le Baleari nella “macroregione europea del Mediterraneo occidentale” cementata dalla storia (la dominazione spagnola plurisecolare nelle isole e nel sud Italia oltre chè nel piccolo stato dei Presidi in Toscana o l’influenza francese) e dagli interessi geo-economici.
C) le attuali regioni della Valle D’Aosta, del Piemonte, della Liguria, della Lombardia, del Trentino Alto Adige, dell’Emilia Romagna, del Veneto, e del Friuli – Venezia Giulia nella sopra prefigurata “macroregione europea alpina” oppure in caso di una diversa direzione geo-politica attuata dai territori di questa regione (con L’Austria che guarda più a riallacciare i rapporti con lo spazio geo-politico del suo ex-impero e la Svizzera e le regioni dello spazio alpino francese e tedesche tese più a proiettarsi verso l’Europa centrale cioè verso una prefigurata “macroregione europea transrenana”) con una possibile ripartizione in due distinti ambiti – Triveneto da un lato e Piemonte, Lombardia, Valle d’Aosta, Liguria e Emilia Romagna dall’altro.
Questo è uno degli articoli selezionati tra quelli ricevuti in seguito alla richiesta fatta in questi mesi ai lettori di limesonline nell'ambito dell'iniziativa Esiste l'Italia? e Disegna l'Italia di inviarci dei loro contributi.
Fonte: Limes Online
Segnalazione ASDS
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