di Marisa Ingrosso
BARI - I meridionali non ci stanno. Non vogliono che crani e scheletri dei Briganti, rimangano ammassati nelle viscere del neonato Museo di Antropologia Criminale «Cesare Lombroso» dell’Università di Torino. E, men che meno, gradiscono che vengano esposti al pubblico. Così all’urlo di «chiediamo rispetto e pace per i resti dei patrioti del Sud», stanno raccogliendo adesioni su Facebook per organizzare una grande manifestazione di protesta. Dovrebbe tenersi il prossimo 8 maggio, a Torino, e le adesioni sono già centinaia. «Tutto ha avuto inizio un paio di mesi fa - spiega Antonio Pagano, direttore della rivista “Due Sicilie” - quando la Gazzetta del Mezzogiorno ha svelato che quella che è forse la più grande “fossa comune” di Briganti meridionali si trova a Torino, nel nuovo Museo Lombroso». «Secondo me - dice Pagano - è una cosa, se non scandalosa, almeno incredibile che siamo nel 2010 e ancora c’è questo “spirito piemontese”, con tutte le sue brutture e cattiverie. È ancora lì come allora, nel 1850, quando il Sud fu conquistato (e non liberato, come riporta la Storia ufficiale)». «In quegli anni - spiega il meridionalista - sono state fatte tante mistificazioni per dare un’immagine negativa del Sud. E Lombroso, che non era uno scienziato, era utile perché screditava il Sud. Era uno che si piccava di essere un medico. Ma fu assoldato dai Piemontesi per dimostrare che i Meridionali erano persone delinquenti per nascita, per natura». In realtà, è vero che - all’indomani dell’Unità d’Italia e per anni - medici carcerari e militari hanno spedito a Cesare Lombroso il corpo o almeno il cranio dei Briganti, perché potesse studiarli. Ed è vero anche che il controverso pioniere della criminologa li misurava e li sezionava, per cercare di dimostrare la sua bislacca teoria del «delinquente per natura». Ma, in verità, teoria e studi non avevano nel «mirino» soltanto i Briganti meridionali, bensì ogni forma di devianza. Lombroso, infatti, era convinto che esistesse un nesso tra la conformazione di un essere umano e la sua propensione a delinquere. Una teoria che oggi sappiamo essere totalmente infondata ma che, alla fine del 1800, sembrava tanto plausibile da convincere l’Italia Unita a contribuire alle ricerche dello «scienziato» veronese. Oggi, soltanto l’1% di quei reperti è stata identificata ed è esposta nel neonato Museo (inaugurato lo scorso 27 novembre). Per tutti gli altri, invece, non c’è un archivio. Non c’è memoria. Non si sa più a chi appartengono. Ciò che rimane dei Briganti è affastellato assieme alle spoglie di criminali e malati di mente, in una sorta di «fossa comune» allestita a fini scientifici. Una situazione considerata «irrispettosa» e «incomprensibile» da chi aderisce al gruppo di Facebook e chiede la restituzione e la dignitosa sepoltura d’ogni spoglia. Viceversa, parlando col professor Silvano Montaldo, che è il curatore del «catalogo Museo Lombroso», oltreché professore associato di Storia sociale del XIX secolo all’Università di Torino, «incomprensibili» sono le richieste dei meridionali.
«Non capisco il motivo di questa protesta - dice Montaldo - Qui non c’è spettacolarizzazione, perchè resti umani sono presenti in tutti i musei scientifici di anatomia ed esiste un preciso protocollo per l’esposizione di essi (che richiede una speciale conservazione, molto accurata)». «Poi - continua - i resti, non sono facilmente identificabili in quanto briganti o altro. Sono conservati in armadi ma non abbiamo la possibilità di indentificarli e soltanto se li identifichiamo si potrebbe porre il problema di una eventuale restituzione. Però, ripeto, non è possibile identificarli. Quindi non è neanche possibile porre il problema. Infine, Lombroso non inizia e non finisce col Brigantaggio. Secondo me c’è un pregiudizio di questi gruppi di Facebook nei confronti di questa iniziativa».
Fonte: La Gazzetta del Mezzogiorno
.
Nessun commento:
Posta un commento