sabato 19 dicembre 2009
Il grande assente che ha beffato il Sud
di Lino Patruno
Fatta l’Italia, si dovevano fare gli italiani. Anzi si doveva fare lo Stato. Questo il grande assente in 150 anni di unità. Lo patisce ancora il Sud. E specie in un Paese incollato alla peggio, col voto di pochi e la forza verso i molti. E che appena nato ebbe figli e figliastri: tutte le attenzioni per il Nord, l’avanzo per il Sud. La famiglia andava fatta, non si discute. Soprattutto perché nasceva con un ritardo verso l’Europa che persiste perché la storia non fa salti. E soprattutto perché il rischio che l’Italia fosse solo un’espressione geografica, come sentenziava Metternich, esisteva. Un Paese percorso da tre mezze guerre civili, e ancora oggi più capace del «tutti contro tutti» che della solidarietà e, diciamolo, dello sciovinismo dei grandi popoli. Un Paese cui il patriottismo reticente impedisce di mostrare un unico orgoglioso volto. La prima grande frattura nel 1799, quando l’Italia non ancora esisteva, con la Repubblica Partenopea e gli Alberi della Libertà. Uno scontro le cui passioni rosseggiano ancora oggi, e si capisce. Era lo scontro tra la Fede e la Ragione, tra la Chiesa e i Giacobini figli dell’Illuminismo, nemici che tali restano nonostante gli storici sforzi di tolleranza. E scontro al Sud, con i Sanfedisti del cardinale Ruffo che ripristinarono la situazione ma senza pacificazione fra chi la considerava un’occasione persa di modernità e chi un pericolo evitato.
Seconda frattura l’unificazione che fu sùbito divisione. E armata per giunta, visto che, come a sorpresa ha detto lo stesso ministro Tremonti, Napoli da un giorno all’altro passò da grande capitale europea a prefettura sabauda. E con cinque anni di brutale esercito di occupazione, tanto per intenderci sui presunti entusiastici plebisciti di adesione al nascente Paese. Terza frattura il ventennio fascista che spezzò la costruzione di una democrazia, fino al dopo 8 settembre 1943 quando la resa dei conti fra la Resistenza più ideologica e i residui del regime macchiarono l’Italia del sangue dei vincitori e dei vinti. Ferita ancora aperta, e altra pacificazione mancata.
Occorreva uno Stato forte e autorevole in questa latente dis-unità d’Italia che vede confrontarsi estremismi ormai superati altrove. Occorreva una macchina dello Stato talmente efficiente e rispettata da eliminare il dualismo fondamentale, il peccato originale su cui lo stesso Stato era cresciuto. Invece il dualismo economico, civile, sociale è rimasto, complici anche le Regioni che hanno contribuito allo sbrindellamento. E invece che lo Stato, è stato lo statalismo, cioè la sua degenerazione ad intervenire. Eliminando ogni criterio di merito, di competenza, di mercato a favore dell’appartenenza politica, della prepotenza dei partiti, della mediazione dell’onorevole o dell’assessore o del capo ripartizione anche per ogni diritto più elementare.
E il patto nazionale col quale si volle affrontare la Questione del ritardato sviluppo meridionale, fu un capolavoro dello statalismo invece che dello Stato. Un patto scellerato comodo per tutte le forze politiche, sia chiaro. E un comune interesse non allo sviluppo ma alla spartizione. E in base al quale i soldi della Cassa del Mezzogiorno arrivavano al Sud perché i ras locali li distribuissero più dove serviva per ottenere voti che dove effettivamente servivano. E perché poi fossero consumati in gran parte per i prodotti dell’industria del Nord, o per gli appalti che il Nord si vedeva assegnati. Una «pentola bucata»: quanto si dava al Sud tornava in gran parte al Nord.
Ovvio che al Sud non crebbe allora una schiatta di imprenditori, ma di consumatori poi delusi allorché il flusso cessò. Avvenne quando il Nord, di fronte alla globalizzazione e alla crescente concorrenza internazionale, quei soldi li volle tutti per sé: un dritto, Bossi. E al posto di aziende in grado di affrontare anch’esse il mercato prevalsero al Sud quelle capaci di lavorare solo coi soldi pubblici. E una classe politico-amministrativa più attrezzata a richiedere fondi allo statalismo e a distribuirli che a fornire servizi per far marciare da sé l’economia. E ovvio che ogni altro finanziamento rischi di perpetuare questo sistema (criminalità compresa in alcune regioni). E di non far fare un passo in avanti al Sud.
Ora ci vorrebbe un nuovo patto nazionale, naturalmente di altro legname. Qualcosa che, nella consueta mancanza dello Stato, convenga sia al Nord che al Sud. Nonostante le intemperanze, il Nord sa di non poter andare da solo. E che siccome il prossimo boom del mondo si avrà nel Mediterraneo e in Africa (la nuova Cina), il Nord per arrivarci ha bisogno di un Sud competitivo e funzionante. È lo Stato che deve favorire questo patto, proprio lo Stato che in 150 anni non lo ha fatto se non con lo statalismo, cioè il peggio di se stesso e con la complicità del peggior Sud. L’alternativa è una divisione mai sanata, come certe malattie croniche senza possibilità di guarigione. Come è molto più probabile che avvenga.
Fonte:Gazzetta del Mezzogiorno
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di Lino Patruno
Fatta l’Italia, si dovevano fare gli italiani. Anzi si doveva fare lo Stato. Questo il grande assente in 150 anni di unità. Lo patisce ancora il Sud. E specie in un Paese incollato alla peggio, col voto di pochi e la forza verso i molti. E che appena nato ebbe figli e figliastri: tutte le attenzioni per il Nord, l’avanzo per il Sud. La famiglia andava fatta, non si discute. Soprattutto perché nasceva con un ritardo verso l’Europa che persiste perché la storia non fa salti. E soprattutto perché il rischio che l’Italia fosse solo un’espressione geografica, come sentenziava Metternich, esisteva. Un Paese percorso da tre mezze guerre civili, e ancora oggi più capace del «tutti contro tutti» che della solidarietà e, diciamolo, dello sciovinismo dei grandi popoli. Un Paese cui il patriottismo reticente impedisce di mostrare un unico orgoglioso volto. La prima grande frattura nel 1799, quando l’Italia non ancora esisteva, con la Repubblica Partenopea e gli Alberi della Libertà. Uno scontro le cui passioni rosseggiano ancora oggi, e si capisce. Era lo scontro tra la Fede e la Ragione, tra la Chiesa e i Giacobini figli dell’Illuminismo, nemici che tali restano nonostante gli storici sforzi di tolleranza. E scontro al Sud, con i Sanfedisti del cardinale Ruffo che ripristinarono la situazione ma senza pacificazione fra chi la considerava un’occasione persa di modernità e chi un pericolo evitato.
Seconda frattura l’unificazione che fu sùbito divisione. E armata per giunta, visto che, come a sorpresa ha detto lo stesso ministro Tremonti, Napoli da un giorno all’altro passò da grande capitale europea a prefettura sabauda. E con cinque anni di brutale esercito di occupazione, tanto per intenderci sui presunti entusiastici plebisciti di adesione al nascente Paese. Terza frattura il ventennio fascista che spezzò la costruzione di una democrazia, fino al dopo 8 settembre 1943 quando la resa dei conti fra la Resistenza più ideologica e i residui del regime macchiarono l’Italia del sangue dei vincitori e dei vinti. Ferita ancora aperta, e altra pacificazione mancata.
Occorreva uno Stato forte e autorevole in questa latente dis-unità d’Italia che vede confrontarsi estremismi ormai superati altrove. Occorreva una macchina dello Stato talmente efficiente e rispettata da eliminare il dualismo fondamentale, il peccato originale su cui lo stesso Stato era cresciuto. Invece il dualismo economico, civile, sociale è rimasto, complici anche le Regioni che hanno contribuito allo sbrindellamento. E invece che lo Stato, è stato lo statalismo, cioè la sua degenerazione ad intervenire. Eliminando ogni criterio di merito, di competenza, di mercato a favore dell’appartenenza politica, della prepotenza dei partiti, della mediazione dell’onorevole o dell’assessore o del capo ripartizione anche per ogni diritto più elementare.
E il patto nazionale col quale si volle affrontare la Questione del ritardato sviluppo meridionale, fu un capolavoro dello statalismo invece che dello Stato. Un patto scellerato comodo per tutte le forze politiche, sia chiaro. E un comune interesse non allo sviluppo ma alla spartizione. E in base al quale i soldi della Cassa del Mezzogiorno arrivavano al Sud perché i ras locali li distribuissero più dove serviva per ottenere voti che dove effettivamente servivano. E perché poi fossero consumati in gran parte per i prodotti dell’industria del Nord, o per gli appalti che il Nord si vedeva assegnati. Una «pentola bucata»: quanto si dava al Sud tornava in gran parte al Nord.
Ovvio che al Sud non crebbe allora una schiatta di imprenditori, ma di consumatori poi delusi allorché il flusso cessò. Avvenne quando il Nord, di fronte alla globalizzazione e alla crescente concorrenza internazionale, quei soldi li volle tutti per sé: un dritto, Bossi. E al posto di aziende in grado di affrontare anch’esse il mercato prevalsero al Sud quelle capaci di lavorare solo coi soldi pubblici. E una classe politico-amministrativa più attrezzata a richiedere fondi allo statalismo e a distribuirli che a fornire servizi per far marciare da sé l’economia. E ovvio che ogni altro finanziamento rischi di perpetuare questo sistema (criminalità compresa in alcune regioni). E di non far fare un passo in avanti al Sud.
Ora ci vorrebbe un nuovo patto nazionale, naturalmente di altro legname. Qualcosa che, nella consueta mancanza dello Stato, convenga sia al Nord che al Sud. Nonostante le intemperanze, il Nord sa di non poter andare da solo. E che siccome il prossimo boom del mondo si avrà nel Mediterraneo e in Africa (la nuova Cina), il Nord per arrivarci ha bisogno di un Sud competitivo e funzionante. È lo Stato che deve favorire questo patto, proprio lo Stato che in 150 anni non lo ha fatto se non con lo statalismo, cioè il peggio di se stesso e con la complicità del peggior Sud. L’alternativa è una divisione mai sanata, come certe malattie croniche senza possibilità di guarigione. Come è molto più probabile che avvenga.
Fonte:Gazzetta del Mezzogiorno
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3 commenti:
E' da tempo che Lino Patruno sta dando un taglio diverso alla lettura dei fatti risorgimentali e stroci che riguardano il rapporto Nord-Sud attraverso i suoi articoli.
Ritengo l'analisi fatta in questo articolo, razionale e capace di fotografare una realtà sotto gli occhi di tutti.
Ciononostante, sento di dover dissentire quando Patruno parla di "nuovo patto nazionale".
Non ci può essere alcun nuovo patto nazionale perchè sarebbe peggiore dei vecchi.
La realtà è che siamo nazioni diverse con interessi che confliggono e, la sopravvivenza di una parte, ammette, necessariamente, la morte dell'altra, ampiamento dimostrato dagli ultimi 149 anni di unità ( si fa per dire).
Sono anni che si sottolinea la nuova frontiera dello sviluppo che prederà corpo nel Mediterraneo e nell'Africa. Ecco perchè, a quell'appuntamento,lo STATO delle Due Sicilie dovrà arrivarci LIBERO e INDIPENDENTE. Se così non fosse, perderemmo l'ultima possibilità di riscatto sociale, economico e culturale a vantaggio del Nord, dei banchieri padani, degli industriali padani, quelli che privatizzano gli utili e socializzano le perdite.
Dunque, nessun "nuovo patto nazionale" ma, semplicemente, INDIPENDENZA!!!
Interessante la tua analisi e condivisibile in gran parte, così come la risposta data a Patruno da parte di Antonio Pagano che ho da poco postato in evidenza e che è convergente con le opinioni da te espresse
Qualsiasi analisi e considerazione deve sottostare ad un dato di fatto. Nel 1860 eravamo una nazione consolidata da secoli, il maledetto invasore italiano violò le leggi internazionali. DEVE ESSERE BRUCIATO IL TRICOLORE ED INNALZALA LA LEGITIMA BANDIERA GIGLIATA, solo allora potremo ascoltare argomentazioni italiote. Viva il SUD INDIPENDENTE - Massimo
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