lunedì 28 dicembre 2009

Dopo Cavour puntualizzazioni su Mazzini e Garibaldi....



Dopo quello di ieri, riguardante Cavour, un nuovo interessante intervento di Ubaldo Sterlicchio in risposta ad un post sul blog Frz'40 s dal titolo "E chi è mai stato questo Cavour?" :


Di Ubaldo Sterlicchio


Spett.le Direzione,
nell’accogliere il Vostro esplicito invito a parlare di Garibaldi e di Mazzini, reputo doverosa una premessa.
Innanzitutto, gli eventi che si svolsero nel Mezzogiorno d’Italia negli anni 1860-61 devono meglio definirsi: «Invasione del Regno delle Due Sicilie» ed il “risorgimento” italiano, sotto tale aspetto, fu un grandissimo crimine. Esso fu tale per le finalità che si prefiggeva (asservire i popoli d’Italia alla politica accentratrice del Piemonte), per le modalità con cui fu realizzato (guerre d’aggressione, bombardamenti spietati, crudeli massacri, leggi speciali, tribunali militari, fucilazioni senza processo, saccheggi e ruberie, plebisciti truffaldini) e per i loschi individui che ne furono gli artefici (falsamente presentatici come grandi uomini, personaggi eroici, senza macchia e senza paura).
Pertanto, non c’è proprio niente da festeggiare in occasione del 150esimo anniversario della brutale annessione “manu militari” dei territori della penisola italiana al misero e fallimentare Piemonte dell’epoca. Si trattò di una unificazione malfatta che divise ancor più l’Italia.
Quello che Voi chiamate “risorgimento” è un qualcosa che, a noi meridionali, non appartiene, perché a “risorgere” fu solo il Piemonte dell’epoca, i cui governanti, rubando in casa d’altri, ne evitarono la bancarotta.
In particolare, il divario Nord-Sud iniziò proprio nel 1860, anno dell’invasione del Mezzogiorno d’Italia ed aumentò, anno dopo anno, fino al dramma attuale. Prima di allora, non vi erano grandi differenze nel reddito pro-capite e nel PIL, anzi, la situazione economica del Regno meridionale era assolutamente favorevole al decollo verso grandi prospettive. Vi ricordo che il Regno delle Due Sicilie, già dal 1856, era la terza potenza industriale d’Europa.
La rovina del ricco, prospero e pacifico Reame cominciò in quel maledetto anno 1860, allorquando, con l’arrivo di Garibaldi e dei suoi compagni di merenda, il nostro antico Stato perse la propria indipendenza, fu saccheggiato, devastato e ridotto al rango di semplice “colonia” tosco-padana! Il suo Popolo fu massacrato ad opera dei “fratelli d’Italia” (lasciando sul campo 1 milione di morti, ammazzati in battaglie campali, con la repressione dell’insorgenza popolare – bollata dispregiativamente con il termine di “brigantaggio” – con le indiscriminate fucilazioni in massa, nonché nei campi di sterminio), ridotto alla fame e, quindi, costretto ad emigrare (non meno di 26 milioni di meridionali, dal momento della conquista piemontese ad oggi, hanno dovuto abbandonare la propria patria).
Fu allora che nacque la c.d. “Questione Meridionale”.
Per noi meridionali, quindi, festeggiare il risorgimento e celebrare i suoi artefici (Garibaldi, Cavour, Vittorio Emanuele II & compari di merende), è come se gli Ebrei festeggiassero l’Olocausto, osannando Hitler ed i criminali nazisti che li hanno sterminati!
Questo risorgimento (non nostro!), per noi meridionali, è stato solamente portatore di lutti e di miserie.
Non è cosa onesta, quindi, dimenticare, ma occorre far conoscere a tutti gli italiani la Verità – anche se scomoda – per togliere la cappa di menzogna che grava ancora sugli eventi che portarono alla conquista del Sud. E la Verità deve essere conosciuta appieno soprattutto dai giovani, smettendola di raccontare loro la solita favoletta risorgimentale, secondo la quale il Sud era “arretrato” e che Garibaldi & company sono venuti a “liberarci” dalla tirannide borbonica. Ingannare i nostri ragazzi (come lo siamo stati noi adulti quando eravamo studenti!) con queste colossali fandonie è altamente diseducativo.
Parliamo ora di Garibaldi.
Giuseppe Garibaldi tutto era, tranne che un eroe. Era innanzitutto un avventuriero e mercenario, con tanto di “patente da corsaro”, dedito ad atti di pirateria; in Sud America non combatté per la libertà delle popolazioni del Rio de la Plata, ma per favorire gli interessi commerciali inglesi: assaliva le navi non britanniche e le depredava; i suoi marinai si abbandonavano a razzie, stupri e violenze d’ogni sorta. L’indignazione dei popoli dell’America del Sud, viva ancora al giorno d’oggi, è racchiusa in un emblematico articolo apparso su Il Pais (un quotidiano argentino che, giornalmente, vende 300.000 copie circa), alla pagina 6 del numero pubblicato il 27 luglio 1995, in occasione della visita in Argentina del Presidente italiano Oscar Luigi Scalfaro: «Il presidente d’Italia è stato nostro illustre visitante… Disgraziatamente, in un momento della sua visita, il presidente italiano si è riferito alla presenza di Garibaldi nel Rio della Plata, in un momento molto speciale della storia delle nazioni di questa parte del mondo. E, senza animo di riaprire vecchie polemiche e aspre discussioni, diciamo al dottor Scalfaro che il suo compatriota (Garibaldi) non ha lottato per la libertà di queste nazioni come (Scalfaro) afferma. Piuttosto il contrario».
E’ stato anche un mercante di schiavi cinesi dall’estremo oriente in Cile: il suo armatore Pietro Denegri diceva che glieli potava «tutti grassi e in buona salute».
Commissionò l’assassinio di Manuel Duarte de Aguiar, suo rivale in amore, perché legittimo marito di Anita; con qualche rimorso postumo, il “generalissimo” nelle sue memorie sentenziò al riguardo: «Se vi fu colpa, io l’ebbi intiera, e… vi fu colpa!».
La spedizione dei mille e la conseguente invasione del Regno delle Due Sicilie fu, a pieno titolo, un gravissimo atto di pirateria internazionale, in quanto perpetrato nel totale dispregio di ogni più elementare norma di Diritto Internazionale, prima fra tutte, quella che garantisce l’autodeterminazione dei popoli. Fece saccheggiare tutto quanto trovava sulla sua strada: banche, musei, regge, chiese, arsenali ed anche casse private di molti cittadini, appropriandosi e distribuendo ai suoi amici ricchezze d’ogni genere. Ce lo testimonia, addirittura, lo stesso Vittorio Emanuele II, il quale, dopo l’incontro di Teano, così scrisse al Cavour: «…come avrete visto, ho liquidato rapidamente la sgradevolissima faccenda Garibaldi, sebbene, siatene certo, questo personaggio non è affatto docile, né così onesto come lo si dipinge e come voi stesso ritenete. Il suo talento militare è molto modesto, come prova l’affare di Capua, e il male immenso che è stato commesso qui, ad esempio l’infame furto di tutto il danaro dell’erario, è da attribuirsi interamente a lui che s’è circondato di canaglie, ne ha eseguito i cattivi consigli e ha piombato questo infelice paese in una situazione spaventosa».
Lo sbarco a Marsala del 1860 fu, quindi, l’inizio di quella disastrosa campagna che portò alla fine del Regno delle Due Sicilie: le popolazioni del Sud furono aggredite da una banda irregolare, guidata da un capo irregolare, di nazionalità estranea al regno stesso e che nessuno aveva chiamato, all’infuori di alcuni oppositori al regime legalmente e legittimamente vigente, ideologicamente impegnati e per tale qualità entrati e usati in un gioco politico internazionale non favorevole alle Due Sicilie.
La tanto celebrata vittoria di Calatafimi non fu conseguita sul campo, bensì fu letteralmente “comprata” da Giuseppe Garibaldi, il quale aveva già provveduto a corrompere il generale borbonico Francesco Landi. Costui, infatti, non mandò i necessari rinforzi alle poche compagnie di soldati napoletani che si erano battuti coraggiosamente e che avevano addirittura sottratto ai garibaldini la loro bandiera: tale cimelio è tuttora in possesso dei discendenti dei Borbone di Napoli. L’invio di un solo battaglione di riserva avrebbe consentito di massacrare tutte le camicie rosse, Garibaldi compreso. Questo non trascurabile particolare spiega anche l’ostentata sicurezza con la quale il nizzardo affermò: «Bixio, qui si fa l’Italia o si muore!», in quanto il c.d. eroe dei due mondi era ben sicuro di… non morire! Ed a proposito del Landi, lo storico Giacinto de’ Sivo così scrisse: «Che fuggisse per codardia non è da credere, ché la zuffa lontana da lui potea finire vittoriosa, sol ch’avesse mandato un altro battaglione. Traditore il gridò concorde la fama, traditore affermavanlo a voce molti garibaldini stessi. Seguita la catastrofe del regno, ei si moriva improvviso in marzo 61; e fu notorio, e anche stampato il perché, ch’io ho verificato vero. Mandò al banco di Napoli a cambiare una polizza di 14.000 ducati, ma trovatasi essere di 14 ducati, e alterata e falsa nella cifra, costretto a parlare confessò averla dal Garibaldi; Landi, per dolore tocco d’apoplessia, lo stesso giorno morì».
Garibaldi fu il mandante dell’eccidio di Bronte, dove fece fucilare, per mano di Nino Bixio, i contadini che avevano osato “usurpare” le terre (da lui stesso promesse a quei disgraziati) che erano di proprietà degli inglesi. L’eccidio di Bronte è stato narrato, con dovizia di particolari, dal garibaldino Cesare Abba, nel suo libro Da Quarto al Volturno; consultatelo!
L’arrivo di Garibaldi nel Sud d’Italia costituisce, inoltre, il vero spartiacque nell’evoluzione e nella storia della Mafia e della Camorra: le organizzazioni criminali meridionali – grazie a lui che, nel 1860, si avvalse della loro “preziosa” collaborazione – entrarono a pieno titolo nella vita sociale, economica e politica dello Stato, mutando la loro caratteristica: da parassitarie (vivevano ai margini della società civile ed erano efficacemente combattute dai Borbone), diventarono imprenditoriali e politiche.
In merito, poi, ai famigerati “mille”, Francesco Guglianetti, segretario generale agli interni del governo sabaudo scrisse di aver saputo «da persona autorevole che parecchi, partiti miserabili, sono ritornati colla camicia rossa e colle tasche piene di biglietti di mille lire» e Garibaldi stesso, il giorno 5 dicembre 1861, in pieno Parlamento a Torino, definì gli stessi “mille”: «Tutti generalmente di origine pessima e per lo più ladra; e, tranne poche eccezioni, con radici genealogiche nel letamaio della violenza e del delitto».
Il massone Pietro Borrelli, firmandosi con lo pseudonimo di Flaminio, nell’ottobre 1882, sulla rivista tedesca Deutsche Rundschau, scrisse: «Non si deve lasciar credere in Europa che l’unità italiana, per realizzarsi, avea bisogno d’una nullità intellettuale come Garibaldi. Gli iniziati sanno che tutta la rivoluzione in Sicilia fu fatta da Cavour, i cui emissari militari, vestiti da merciaiuoli girovaghi, percorrevano l’isola e compravano a prezzo d’oro le persone più influenti». Questa testimonianza è preziosa e significativa, anche alla luce del fatto che lo stesso Garibaldi era un massone: la sua carriera di “frammassone” iniziò nel 1844, a Montevideo, laddove ne ricevette l’iniziazione e culminò nel 1862, a Torino, con il raggiungimento del 33° grado (il più elevato!).
In conclusione, Garibaldi è stato uno dei più acerrimi nemici del Sud e del suo popolo ed i meridionali stanno ancora pagando per gli immensi guasti dal medesimo provocati.
In un momento di verosimile rimorso, nel 1868, il nizzardo così scrisse all’attrice Adelaide Cairoli: «Gli oltraggi subiti dalle popolazioni meridionali sono incommensurabili. Sono convinto di non aver fatto male, nonostante ciò, non rifarei oggi la via dell’Italia meridionale, temendo di essere preso a sassate, essendosi colà cagionato solo squallore e suscitato solo odio». Ed infine, deluso e disgustato da quelli che erano stati i risultati dell’unità d’Italia, nel 1880, così disse: «Tutt’altra Italia io sognavo nella mia vita, non questa miserabile all’interno e umiliata all’estero ed in preda alla parte peggiore della nazione».
Evviva la sincerità!
Passiamo a Mazzini.
Giuseppe Mazzini aveva in comune con Garibaldi una condanna morte in contumacia, come “nemico della Patria e dello Stato”, inflitta loro dal governo piemontese, che li aveva dichiarati entrambi “banditi di primo catalogo”; questa condanna non è mai stata revocata!
Dopo i moti carbonari del 1831, andò in esilio a Marsiglia. Qui costituì una nuova associazione terroristica che avrebbe sostituito la Carboneria: la Giovine Italia, riservata a chi non avesse superato i quarant’anni di età. Ogni adepto assumeva un nome di battaglia e pronunciava questo giuramento: «Io, cittadino italiano, davanti a Dio… giuro di consacrarmi tutto e sempre con tutte le mie potenze morali e fisiche alla Patria ed alla sua rigenerazione… di spegnere (cioè: di ammazzare) col braccio ed infamar con la voce i tiranni e la tirannide politica, civile, morale cittadina, straniera… di cercare per ogni via che gli uomini della Giovine Italia ottengano la direzione delle cose pubbliche (il solito vizietto della caccia alle poltrone!), di non rivelare per seduzioni o tormenti l’esistenza, lo scopo della Federazione, e di distruggere (cioè: sempre ammazzare), potendo, il rivelatore…».
Questi macabri intenti erano formulati in nome del popolo, di quel popolo che Mazzini, con la vita ritirata che conduceva, non conosceva e non conobbe mai!
Mazzini prese nome di battaglia di Filippo Strozzi, ma i suoi compagni lo chiamavano Pippo.
Il motto della Giovine Italia era “pensiero e azione”: per pensiero si deve intendere la propaganda mazziniana, per azione l’insurrezione armata.
A Marsiglia andava in giro travestito, qualche volta anche da donna.
Un giorno conobbe la pasionaria milanese Giuditta Sidoli, vedova di un rivoluzionario reggiano condannato a morte per i moti del 1821 e madre di quattro figli. Pippo e Giuditta fecero una scappatella a Ginevra, da dove la pasionaria tornò con un bambino in braccio, il figlio di Mazzini. I due affidarono il piccolo all’amico Demostene Ollivier, che se ne prese cura come un figlio suo; poi Giuditta scomparve dalla vita di Mazzini. E quell’ipocrita ebbe perfino il coraggio di scrivere un libro sui Doveri dell’uomo!
In realtà, il nostro personaggio, aduso a restare… “prudentemente” dietro le quinte e ben badando a non esporsi mai in prima persona, fu solamente un grandissimo vigliacco; comunque, la sua “carriera” di cospiratore, tanto in “pensiero”, quanto in “azione”, fu caratterizzata da un continuo susseguirsi di insuccessi.
Nel 1833, la polizia piemontese riuscì a scoprire una vasta attività cospiratoria mazziniana nei bassi gradi dell’esercito, soprattutto fra i sottufficiali: a Genova fu scoperto il gruppo dei fratelli Ruffini (Agostino, Giovanni e Jacopo). Come al solito, questi cospiratori, in gran parte “eroi da operetta”, una volta arrestati, “cantarono”. Jacopo, arrestato, si era suicidato, convinto di essere stato denunciato dai suoi stessi compagni; Agostino era fuggito con la madre a Marsiglia da Mazzini, per averne conforto; ma Pippo aveva altro per la testa… Tutti gli perdonarono la sua sbandata passionale, ma non Agostino Ruffini che, da allora, divenne apertamente ostile al suo vecchio idolo.
Nel dicembre 1833, Mazzini in persona consegnò un pugnale, un passaporto e mille franchi all’esule parmense Antonio Gallenga, che si era offerto di compiere un attentato alla vita del re Carlo Alberto a Torino. Il mazziniano Gallenga, però, non mantenne la promessa e fu poi fatto… prefetto e senatore del Regno.
Per rincuorare gli indecisi, abbattuti per tutti i tradimenti e gli arresti avvenuti, dal pensiero, Mazzini decise di passare all’azione. Pensò che la scintilla dovesse essere accesa al Sud. Prese contatti con i suoi confratelli terroristi degli Stati napoletano e pontificio. Ne prese anche con Sciabolone, un brigante che terrorizzava l’Abruzzo. Poi ebbe l’idea di una spedizione in Savoia con un corpo di volontari reclutati fra gli esuli. Il comando fu affidato al “generale” Gerolamo Ramorino, avventuriero, giocatore e donnaiolo, che andava a combattere anche per sfuggire ai suoi creditori. Mazzini, a Ginevra, gli consegnò 40 mila franchi, con l’impegno di arruolare mille “volontari”; ma Ramorino andò a giocarsi i soldi a Parigi. Mazzini, testardo, fissò l’azione per la notte del 1° febbraio 1834; Ramorino si presentò, invece che con i mille uomini, con altri due generali (sic!), un aiutante ed un medico, rifiutandosi di attraversare il confine e dichiarando l’impresa irrealizzabile.
Le loro speranze erano riposte sui marinai di Genova: ma sul luogo ed all’ora fissata per l’insurrezione, si trovarono in due soli (“si trovarono” per modo di dire, perché in realtà “si persero”, non solo d’animo, ma anche di vista), già identificati e braccati dalla polizia. Uno dei due era Garibaldi che, condannato a morte, come già detto, si rifugiò in Francia, da dove emigrò in America Latina, ivi mettendo il braccio a disposizione di vari dittatorelli di quei paesi e vivendo come un bandito.
Mazzini, invece di riconoscere il suo fallimento, scrisse al suo amico Rosales: “Il popolo e i capi-popolo hanno mancato. Che Dio fulmini loro e me prima!”
Dopo il fallimento della spedizione in Savoia, Mazzini sembrava un uomo finito. A Berna fondò la Giovine Europa, il cui programma era quello della Giovine Italia ampliato a tutto il continente. Fondò anche una Giovine Svizzera: e questo la dice lunga sul suo “patriottismo”… esclusivamente italiano. Ma subito dopo piombò in una profonda crisi depressiva, che lo condusse sull’orlo della follia. Espulso dalla Svizzera, arrivò a Londra, tradizionale covo di tutti i rivoluzionari senza-patria.
Quando cercò di riprendere l’attività cospiratoria, si accorse di aver ispirato molti imitatori, che però ne contestavano l’autorità. Era il caso di Nicola Fabrizi, che con la sua Legione Italica rivendicava a sé la qualifica di capo, e dei fratelli Bandiera, che nel 1844 sbarcarono a Crotone con la presunzione di accendervi la rivolta. Attilio ed Emilio Bandiera, con sette dei loro compagni, caddero sotto il plotone di esecuzione; gli altri furono graziati ed avviati all’ergastolo. Non erano stati mandati da Mazzini, ma queste imprese rientravano nei metodi di lotta insurrezionale che egli aveva predicato e praticato.
Nel 1848, Mazzini elogiò gli assassini del comandante austriaco dell’arsenale di Venezia, Giovanni Marinovich e del conte Pellegrino Rossi, uno dei migliori amici del papa Pio IX, ministro degli Interni pontificio, a Roma.
Nella notte fra il 24 ed il 25 novembre 1848, i rivoluzionari costrinsero Pio IX a fuggire da Roma ed a rifugiarsi a Gaeta, sotto la protezione del Re di Napoli, Ferdinando II. Goffredo Mameli mandò un messaggio a Mazzini: “Roma! Repubblica! Venite!” Il terrorista accorse, entrando a far parte del famoso triunvirato (Giuseppe Mazzini, Carlo Armellini, Aurelio Saffi), che nel marzo 1849 aveva sostituito quello costituito da Carlo Armellini, Mattia Montecchi ed Aurelio Saliceti.
S’installò in una stanza del Quirinale, assegnandosi uno stipendio di trentadue lire al mese.
Tutti i decreti della Repubblica Romana venivano intestati col motto della Giovine Italia: “Dio (un Dio tutto suo!…) e Popolo”. Dichiarò guerra alla Chiesa ed alla proprietà, propugnando l’espropriazione di tutti i beni ecclesiastici. Nel frattempo, assassinii politici venivano commessi in pieno giorno da gruppi mazziniani con nomi significativi: Lega infernale, Compagnia infernale, Lega di sangue.
A Senigallia fu assassinato l’arcivescovo, che si era rifiutato di celebrare il Te Deum per la repubblica. Il popolo chiamava questi settari mazziniani dal pugnale facile: “ammazzarelli”.
Nell’aprile del 1849, la Francia inviava un corpo di spedizione, comandato dal generale Nicholas Charles Oudinot, che sbarcava a Civitavecchia. Nel frattempo a Roma arrivavano rinforzi, fra cui il romagnolo Callimaco Zambianchi, liberato dalla galera dove si trovava incolpato di nove omicidi: gli uomini ai suoi ordini fucilarono almeno quaranta preti e monaci sospettati di cospirare contro il governo! Nel giro di due mesi, Roma veniva strappata ai rivoluzionari. Garibaldi si salvò con una rocambolesca fuga in Tunisia, dove trovò una nave per New York; Mazzini se ne tornò in Inghilterra, passando per Marsiglia.
Mazzini giocò ancora alla rivoluzione, naturalmente sulla pelle degli altri (fedele alla sua già ben collaudata tecnica dell’”armiamoci e partite”): nel febbraio 1853 fece scoppiare l’insurrezione antiaustriaca dei “Barabba”, gli operai di Milano. Gli avevano assicurato che tremila uomini erano pronti ad impugnare le armi, ma solo alcune centinaia di questi poveracci assaltarono le caserme, lasciando sul selciato una sessantina di austriaci tra morti e feriti. Qualche giorno dopo, gli insorti catturati furono impiccati: ancora sangue… rigorosamente altrui!
Mazzini sciolse la sua organizzazione di Londra ed annunciò la nascita di un nuovo partito, il Partito d’Azione (i cui discendenti, nel corso della seconda guerra mondiale, invocavano i bombardamenti anglo-americani sulle città italiane, per demoralizzare la popolazione ed affrettare la caduta di quel regime fascista che, poi, nella sua ultima versione della Repubblica Sociale, si richiamava espressamente proprio alla figura di Giuseppe Mazzini!).
Nel 1857, dopo vari tentativi insurrezionali, fu la volta di Carlo Pisacane; espatriato per sfuggire al marito della sua amante, Enrichetta di Lorenzo, nel 1847 si era arruolato nella Legione Straniera, impegnata nella conquista coloniale dell’Algeria. Congedatosi, si ritirò con Enrichetta in Ticino, dove divenne “consigliere militare” di Mazzini, col quale redigeva vasti piani di operazioni per un esercito che… non esisteva!
Nel maggio 1857, Mazzini gli mise a disposizione dei fondi, con cui Pisacane, nel giugno successivo, organizzò la “spedizione di Sapri”, conclusasi, dopo la liberazione di 323 delinquenti detenuti nell’isola di Ponza (di cui solamente una dozzina aveva subito condanne per motivi politici), con l’uccisione o la cattura di tutti i rivoluzionari.
Da quell’ultimo fallimento in poi, Mazzini sopravvisse a se stesso, rassegnandosi a cedere l’iniziativa a quell’altro “galantuomo” di Cavour.
Giuseppe Mazzini fu il primo “tangentista” dell’Italia unita. Infatti, appena fatta l’”unità d’Italia”, egli cercò di mettere le mani sulla ricchissima torta dell’affare delle Ferrovie Meridionali, del valore potenziale di un miliardo e mezzo di lire oro dell’epoca (circa 75 miliardi di euro). Le risorse finanziarie, già reperite dal governo napoletano per la parte necessaria a coprire l’avvio dell’opera, erano state “sbancate” da Garibaldi e dilapidate in mille rivoli, fra cui pensioni a presunti “perseguitati” politici; c’erano pronti i progetti esecutivi realizzati attraverso un concorso, a bando internazionale, vinto dalla famiglia di imprenditori francesi Talabot. Garibaldi, ignorando i vincitori della gara internazionale, affidò al banchiere Pietro Augusto Adami – che l’aveva sollecitato esibendo le sue benemerenze di “finanziatore della spedizione dei Mille” – l’incarico di realizzare le Ferrovie del Sud. Anche un altro banchiere, Adriano Lemmi (Gran Maestro della massoneria italiana dell’epoca), peraltro cognato dell’Adami, aspirava al medesimo incarico; quest’ultimo, a sua volta, aveva finanziato la spedizione di Carlo Pisacane e, quindi, passava… all’incasso di questa “cambiale”, munito di “lettera di raccomandazione” autografa dell’”Apostolo puro”, tutto casa, massoneria e giovine Italia, Giuseppe Mazzini; latore ne era lo stesso Lemmi, destinatario era Francesco Crispi, plenipotenziario per la Sicilia. Il fondatore della Giovine Italia così scriveva: «Fratello, il portatore Adriano Lemmi, è nostro buonissimo amico, da vent’anni, e fece sacrifici considerevoli per la Causa. Ei viene a trattar cosa importante concernente la concessione fatta recentemente per le vie ferrate all’Adami. Uditelo, vi prego; spiegherà egli ogni cosa. Io soltanto vi dico che dove altri farebbe suo prò d’ogni frutto d’impresa, egli mira a fondare la Cassa del partito, non la sua. Vogliatemi bene».
Per non scontentare nessuno, il duo Garibaldi-Crispi assegnò l’affare delle Ferrovie del Sud metà a Lemmi e metà all’Adami, ma i due, successivamente, furono costretti a rinunciare all’incarico per difficoltà tecnico-finanziarie… (sic!). L’operazione assunse aspetti decisamente squallidi e vide, poi, coinvolti il ministro delle Finanze Pietro Bastogi e gran parte dei parlamentari, che si spartirono la “torta”.
La Commissione parlamentare d’inchiesta, istituita per indagare su questo “scandalo delle Ferrovie”, propose ed ottenne l’archiviazione del caso. Si trattò del primo “scandalo insabbiato”, come si rivelerà poi nella migliore tradizione dell’Italia “unita”, tanto monarchica che repubblicana; ma la grande commedia italica (peraltro attualissima, in quanto la stessa tangentopoli degli anni Novanta del XX secolo, a questo punto, non dovrebbe destare alcuna meraviglia!) dei corrotti e dei corruttori, di Faust che vende l’anima per una mazzetta, era appena iniziata. Su il sipario!
“L’Italia è fatta, ora bisogna fare gli Italiani”, sosteneva Massimo d’Azeglio; ma, contrariamente a quanto questi credesse, gli Italiani (non così diversi dagli Italiani di oggi) erano già da allora belli e fatti!
Infatti, uno sguardo d’insieme che, non limitandosi alla sola “questione meridionale”, esamini complessivamente l’attuale situazione italiana, pone in evidenza un inquietante parallelismo tra le vicende legate alla nascita dello Stato unitario e quelle che hanno inquinato la vita dell’Italia democratica del nostro tempo. Ed è solo comprendendo, al di là della retorica scolastica, come è nata male l’Italia di Vittorio Emanuele II e di Cavour, di Mazzini e di Garibaldi, che possiamo sperare di capire anche che cosa non funziona nell’Italia di oggi.
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Dopo quello di ieri, riguardante Cavour, un nuovo interessante intervento di Ubaldo Sterlicchio in risposta ad un post sul blog Frz'40 s dal titolo "E chi è mai stato questo Cavour?" :


Di Ubaldo Sterlicchio


Spett.le Direzione,
nell’accogliere il Vostro esplicito invito a parlare di Garibaldi e di Mazzini, reputo doverosa una premessa.
Innanzitutto, gli eventi che si svolsero nel Mezzogiorno d’Italia negli anni 1860-61 devono meglio definirsi: «Invasione del Regno delle Due Sicilie» ed il “risorgimento” italiano, sotto tale aspetto, fu un grandissimo crimine. Esso fu tale per le finalità che si prefiggeva (asservire i popoli d’Italia alla politica accentratrice del Piemonte), per le modalità con cui fu realizzato (guerre d’aggressione, bombardamenti spietati, crudeli massacri, leggi speciali, tribunali militari, fucilazioni senza processo, saccheggi e ruberie, plebisciti truffaldini) e per i loschi individui che ne furono gli artefici (falsamente presentatici come grandi uomini, personaggi eroici, senza macchia e senza paura).
Pertanto, non c’è proprio niente da festeggiare in occasione del 150esimo anniversario della brutale annessione “manu militari” dei territori della penisola italiana al misero e fallimentare Piemonte dell’epoca. Si trattò di una unificazione malfatta che divise ancor più l’Italia.
Quello che Voi chiamate “risorgimento” è un qualcosa che, a noi meridionali, non appartiene, perché a “risorgere” fu solo il Piemonte dell’epoca, i cui governanti, rubando in casa d’altri, ne evitarono la bancarotta.
In particolare, il divario Nord-Sud iniziò proprio nel 1860, anno dell’invasione del Mezzogiorno d’Italia ed aumentò, anno dopo anno, fino al dramma attuale. Prima di allora, non vi erano grandi differenze nel reddito pro-capite e nel PIL, anzi, la situazione economica del Regno meridionale era assolutamente favorevole al decollo verso grandi prospettive. Vi ricordo che il Regno delle Due Sicilie, già dal 1856, era la terza potenza industriale d’Europa.
La rovina del ricco, prospero e pacifico Reame cominciò in quel maledetto anno 1860, allorquando, con l’arrivo di Garibaldi e dei suoi compagni di merenda, il nostro antico Stato perse la propria indipendenza, fu saccheggiato, devastato e ridotto al rango di semplice “colonia” tosco-padana! Il suo Popolo fu massacrato ad opera dei “fratelli d’Italia” (lasciando sul campo 1 milione di morti, ammazzati in battaglie campali, con la repressione dell’insorgenza popolare – bollata dispregiativamente con il termine di “brigantaggio” – con le indiscriminate fucilazioni in massa, nonché nei campi di sterminio), ridotto alla fame e, quindi, costretto ad emigrare (non meno di 26 milioni di meridionali, dal momento della conquista piemontese ad oggi, hanno dovuto abbandonare la propria patria).
Fu allora che nacque la c.d. “Questione Meridionale”.
Per noi meridionali, quindi, festeggiare il risorgimento e celebrare i suoi artefici (Garibaldi, Cavour, Vittorio Emanuele II & compari di merende), è come se gli Ebrei festeggiassero l’Olocausto, osannando Hitler ed i criminali nazisti che li hanno sterminati!
Questo risorgimento (non nostro!), per noi meridionali, è stato solamente portatore di lutti e di miserie.
Non è cosa onesta, quindi, dimenticare, ma occorre far conoscere a tutti gli italiani la Verità – anche se scomoda – per togliere la cappa di menzogna che grava ancora sugli eventi che portarono alla conquista del Sud. E la Verità deve essere conosciuta appieno soprattutto dai giovani, smettendola di raccontare loro la solita favoletta risorgimentale, secondo la quale il Sud era “arretrato” e che Garibaldi & company sono venuti a “liberarci” dalla tirannide borbonica. Ingannare i nostri ragazzi (come lo siamo stati noi adulti quando eravamo studenti!) con queste colossali fandonie è altamente diseducativo.
Parliamo ora di Garibaldi.
Giuseppe Garibaldi tutto era, tranne che un eroe. Era innanzitutto un avventuriero e mercenario, con tanto di “patente da corsaro”, dedito ad atti di pirateria; in Sud America non combatté per la libertà delle popolazioni del Rio de la Plata, ma per favorire gli interessi commerciali inglesi: assaliva le navi non britanniche e le depredava; i suoi marinai si abbandonavano a razzie, stupri e violenze d’ogni sorta. L’indignazione dei popoli dell’America del Sud, viva ancora al giorno d’oggi, è racchiusa in un emblematico articolo apparso su Il Pais (un quotidiano argentino che, giornalmente, vende 300.000 copie circa), alla pagina 6 del numero pubblicato il 27 luglio 1995, in occasione della visita in Argentina del Presidente italiano Oscar Luigi Scalfaro: «Il presidente d’Italia è stato nostro illustre visitante… Disgraziatamente, in un momento della sua visita, il presidente italiano si è riferito alla presenza di Garibaldi nel Rio della Plata, in un momento molto speciale della storia delle nazioni di questa parte del mondo. E, senza animo di riaprire vecchie polemiche e aspre discussioni, diciamo al dottor Scalfaro che il suo compatriota (Garibaldi) non ha lottato per la libertà di queste nazioni come (Scalfaro) afferma. Piuttosto il contrario».
E’ stato anche un mercante di schiavi cinesi dall’estremo oriente in Cile: il suo armatore Pietro Denegri diceva che glieli potava «tutti grassi e in buona salute».
Commissionò l’assassinio di Manuel Duarte de Aguiar, suo rivale in amore, perché legittimo marito di Anita; con qualche rimorso postumo, il “generalissimo” nelle sue memorie sentenziò al riguardo: «Se vi fu colpa, io l’ebbi intiera, e… vi fu colpa!».
La spedizione dei mille e la conseguente invasione del Regno delle Due Sicilie fu, a pieno titolo, un gravissimo atto di pirateria internazionale, in quanto perpetrato nel totale dispregio di ogni più elementare norma di Diritto Internazionale, prima fra tutte, quella che garantisce l’autodeterminazione dei popoli. Fece saccheggiare tutto quanto trovava sulla sua strada: banche, musei, regge, chiese, arsenali ed anche casse private di molti cittadini, appropriandosi e distribuendo ai suoi amici ricchezze d’ogni genere. Ce lo testimonia, addirittura, lo stesso Vittorio Emanuele II, il quale, dopo l’incontro di Teano, così scrisse al Cavour: «…come avrete visto, ho liquidato rapidamente la sgradevolissima faccenda Garibaldi, sebbene, siatene certo, questo personaggio non è affatto docile, né così onesto come lo si dipinge e come voi stesso ritenete. Il suo talento militare è molto modesto, come prova l’affare di Capua, e il male immenso che è stato commesso qui, ad esempio l’infame furto di tutto il danaro dell’erario, è da attribuirsi interamente a lui che s’è circondato di canaglie, ne ha eseguito i cattivi consigli e ha piombato questo infelice paese in una situazione spaventosa».
Lo sbarco a Marsala del 1860 fu, quindi, l’inizio di quella disastrosa campagna che portò alla fine del Regno delle Due Sicilie: le popolazioni del Sud furono aggredite da una banda irregolare, guidata da un capo irregolare, di nazionalità estranea al regno stesso e che nessuno aveva chiamato, all’infuori di alcuni oppositori al regime legalmente e legittimamente vigente, ideologicamente impegnati e per tale qualità entrati e usati in un gioco politico internazionale non favorevole alle Due Sicilie.
La tanto celebrata vittoria di Calatafimi non fu conseguita sul campo, bensì fu letteralmente “comprata” da Giuseppe Garibaldi, il quale aveva già provveduto a corrompere il generale borbonico Francesco Landi. Costui, infatti, non mandò i necessari rinforzi alle poche compagnie di soldati napoletani che si erano battuti coraggiosamente e che avevano addirittura sottratto ai garibaldini la loro bandiera: tale cimelio è tuttora in possesso dei discendenti dei Borbone di Napoli. L’invio di un solo battaglione di riserva avrebbe consentito di massacrare tutte le camicie rosse, Garibaldi compreso. Questo non trascurabile particolare spiega anche l’ostentata sicurezza con la quale il nizzardo affermò: «Bixio, qui si fa l’Italia o si muore!», in quanto il c.d. eroe dei due mondi era ben sicuro di… non morire! Ed a proposito del Landi, lo storico Giacinto de’ Sivo così scrisse: «Che fuggisse per codardia non è da credere, ché la zuffa lontana da lui potea finire vittoriosa, sol ch’avesse mandato un altro battaglione. Traditore il gridò concorde la fama, traditore affermavanlo a voce molti garibaldini stessi. Seguita la catastrofe del regno, ei si moriva improvviso in marzo 61; e fu notorio, e anche stampato il perché, ch’io ho verificato vero. Mandò al banco di Napoli a cambiare una polizza di 14.000 ducati, ma trovatasi essere di 14 ducati, e alterata e falsa nella cifra, costretto a parlare confessò averla dal Garibaldi; Landi, per dolore tocco d’apoplessia, lo stesso giorno morì».
Garibaldi fu il mandante dell’eccidio di Bronte, dove fece fucilare, per mano di Nino Bixio, i contadini che avevano osato “usurpare” le terre (da lui stesso promesse a quei disgraziati) che erano di proprietà degli inglesi. L’eccidio di Bronte è stato narrato, con dovizia di particolari, dal garibaldino Cesare Abba, nel suo libro Da Quarto al Volturno; consultatelo!
L’arrivo di Garibaldi nel Sud d’Italia costituisce, inoltre, il vero spartiacque nell’evoluzione e nella storia della Mafia e della Camorra: le organizzazioni criminali meridionali – grazie a lui che, nel 1860, si avvalse della loro “preziosa” collaborazione – entrarono a pieno titolo nella vita sociale, economica e politica dello Stato, mutando la loro caratteristica: da parassitarie (vivevano ai margini della società civile ed erano efficacemente combattute dai Borbone), diventarono imprenditoriali e politiche.
In merito, poi, ai famigerati “mille”, Francesco Guglianetti, segretario generale agli interni del governo sabaudo scrisse di aver saputo «da persona autorevole che parecchi, partiti miserabili, sono ritornati colla camicia rossa e colle tasche piene di biglietti di mille lire» e Garibaldi stesso, il giorno 5 dicembre 1861, in pieno Parlamento a Torino, definì gli stessi “mille”: «Tutti generalmente di origine pessima e per lo più ladra; e, tranne poche eccezioni, con radici genealogiche nel letamaio della violenza e del delitto».
Il massone Pietro Borrelli, firmandosi con lo pseudonimo di Flaminio, nell’ottobre 1882, sulla rivista tedesca Deutsche Rundschau, scrisse: «Non si deve lasciar credere in Europa che l’unità italiana, per realizzarsi, avea bisogno d’una nullità intellettuale come Garibaldi. Gli iniziati sanno che tutta la rivoluzione in Sicilia fu fatta da Cavour, i cui emissari militari, vestiti da merciaiuoli girovaghi, percorrevano l’isola e compravano a prezzo d’oro le persone più influenti». Questa testimonianza è preziosa e significativa, anche alla luce del fatto che lo stesso Garibaldi era un massone: la sua carriera di “frammassone” iniziò nel 1844, a Montevideo, laddove ne ricevette l’iniziazione e culminò nel 1862, a Torino, con il raggiungimento del 33° grado (il più elevato!).
In conclusione, Garibaldi è stato uno dei più acerrimi nemici del Sud e del suo popolo ed i meridionali stanno ancora pagando per gli immensi guasti dal medesimo provocati.
In un momento di verosimile rimorso, nel 1868, il nizzardo così scrisse all’attrice Adelaide Cairoli: «Gli oltraggi subiti dalle popolazioni meridionali sono incommensurabili. Sono convinto di non aver fatto male, nonostante ciò, non rifarei oggi la via dell’Italia meridionale, temendo di essere preso a sassate, essendosi colà cagionato solo squallore e suscitato solo odio». Ed infine, deluso e disgustato da quelli che erano stati i risultati dell’unità d’Italia, nel 1880, così disse: «Tutt’altra Italia io sognavo nella mia vita, non questa miserabile all’interno e umiliata all’estero ed in preda alla parte peggiore della nazione».
Evviva la sincerità!
Passiamo a Mazzini.
Giuseppe Mazzini aveva in comune con Garibaldi una condanna morte in contumacia, come “nemico della Patria e dello Stato”, inflitta loro dal governo piemontese, che li aveva dichiarati entrambi “banditi di primo catalogo”; questa condanna non è mai stata revocata!
Dopo i moti carbonari del 1831, andò in esilio a Marsiglia. Qui costituì una nuova associazione terroristica che avrebbe sostituito la Carboneria: la Giovine Italia, riservata a chi non avesse superato i quarant’anni di età. Ogni adepto assumeva un nome di battaglia e pronunciava questo giuramento: «Io, cittadino italiano, davanti a Dio… giuro di consacrarmi tutto e sempre con tutte le mie potenze morali e fisiche alla Patria ed alla sua rigenerazione… di spegnere (cioè: di ammazzare) col braccio ed infamar con la voce i tiranni e la tirannide politica, civile, morale cittadina, straniera… di cercare per ogni via che gli uomini della Giovine Italia ottengano la direzione delle cose pubbliche (il solito vizietto della caccia alle poltrone!), di non rivelare per seduzioni o tormenti l’esistenza, lo scopo della Federazione, e di distruggere (cioè: sempre ammazzare), potendo, il rivelatore…».
Questi macabri intenti erano formulati in nome del popolo, di quel popolo che Mazzini, con la vita ritirata che conduceva, non conosceva e non conobbe mai!
Mazzini prese nome di battaglia di Filippo Strozzi, ma i suoi compagni lo chiamavano Pippo.
Il motto della Giovine Italia era “pensiero e azione”: per pensiero si deve intendere la propaganda mazziniana, per azione l’insurrezione armata.
A Marsiglia andava in giro travestito, qualche volta anche da donna.
Un giorno conobbe la pasionaria milanese Giuditta Sidoli, vedova di un rivoluzionario reggiano condannato a morte per i moti del 1821 e madre di quattro figli. Pippo e Giuditta fecero una scappatella a Ginevra, da dove la pasionaria tornò con un bambino in braccio, il figlio di Mazzini. I due affidarono il piccolo all’amico Demostene Ollivier, che se ne prese cura come un figlio suo; poi Giuditta scomparve dalla vita di Mazzini. E quell’ipocrita ebbe perfino il coraggio di scrivere un libro sui Doveri dell’uomo!
In realtà, il nostro personaggio, aduso a restare… “prudentemente” dietro le quinte e ben badando a non esporsi mai in prima persona, fu solamente un grandissimo vigliacco; comunque, la sua “carriera” di cospiratore, tanto in “pensiero”, quanto in “azione”, fu caratterizzata da un continuo susseguirsi di insuccessi.
Nel 1833, la polizia piemontese riuscì a scoprire una vasta attività cospiratoria mazziniana nei bassi gradi dell’esercito, soprattutto fra i sottufficiali: a Genova fu scoperto il gruppo dei fratelli Ruffini (Agostino, Giovanni e Jacopo). Come al solito, questi cospiratori, in gran parte “eroi da operetta”, una volta arrestati, “cantarono”. Jacopo, arrestato, si era suicidato, convinto di essere stato denunciato dai suoi stessi compagni; Agostino era fuggito con la madre a Marsiglia da Mazzini, per averne conforto; ma Pippo aveva altro per la testa… Tutti gli perdonarono la sua sbandata passionale, ma non Agostino Ruffini che, da allora, divenne apertamente ostile al suo vecchio idolo.
Nel dicembre 1833, Mazzini in persona consegnò un pugnale, un passaporto e mille franchi all’esule parmense Antonio Gallenga, che si era offerto di compiere un attentato alla vita del re Carlo Alberto a Torino. Il mazziniano Gallenga, però, non mantenne la promessa e fu poi fatto… prefetto e senatore del Regno.
Per rincuorare gli indecisi, abbattuti per tutti i tradimenti e gli arresti avvenuti, dal pensiero, Mazzini decise di passare all’azione. Pensò che la scintilla dovesse essere accesa al Sud. Prese contatti con i suoi confratelli terroristi degli Stati napoletano e pontificio. Ne prese anche con Sciabolone, un brigante che terrorizzava l’Abruzzo. Poi ebbe l’idea di una spedizione in Savoia con un corpo di volontari reclutati fra gli esuli. Il comando fu affidato al “generale” Gerolamo Ramorino, avventuriero, giocatore e donnaiolo, che andava a combattere anche per sfuggire ai suoi creditori. Mazzini, a Ginevra, gli consegnò 40 mila franchi, con l’impegno di arruolare mille “volontari”; ma Ramorino andò a giocarsi i soldi a Parigi. Mazzini, testardo, fissò l’azione per la notte del 1° febbraio 1834; Ramorino si presentò, invece che con i mille uomini, con altri due generali (sic!), un aiutante ed un medico, rifiutandosi di attraversare il confine e dichiarando l’impresa irrealizzabile.
Le loro speranze erano riposte sui marinai di Genova: ma sul luogo ed all’ora fissata per l’insurrezione, si trovarono in due soli (“si trovarono” per modo di dire, perché in realtà “si persero”, non solo d’animo, ma anche di vista), già identificati e braccati dalla polizia. Uno dei due era Garibaldi che, condannato a morte, come già detto, si rifugiò in Francia, da dove emigrò in America Latina, ivi mettendo il braccio a disposizione di vari dittatorelli di quei paesi e vivendo come un bandito.
Mazzini, invece di riconoscere il suo fallimento, scrisse al suo amico Rosales: “Il popolo e i capi-popolo hanno mancato. Che Dio fulmini loro e me prima!”
Dopo il fallimento della spedizione in Savoia, Mazzini sembrava un uomo finito. A Berna fondò la Giovine Europa, il cui programma era quello della Giovine Italia ampliato a tutto il continente. Fondò anche una Giovine Svizzera: e questo la dice lunga sul suo “patriottismo”… esclusivamente italiano. Ma subito dopo piombò in una profonda crisi depressiva, che lo condusse sull’orlo della follia. Espulso dalla Svizzera, arrivò a Londra, tradizionale covo di tutti i rivoluzionari senza-patria.
Quando cercò di riprendere l’attività cospiratoria, si accorse di aver ispirato molti imitatori, che però ne contestavano l’autorità. Era il caso di Nicola Fabrizi, che con la sua Legione Italica rivendicava a sé la qualifica di capo, e dei fratelli Bandiera, che nel 1844 sbarcarono a Crotone con la presunzione di accendervi la rivolta. Attilio ed Emilio Bandiera, con sette dei loro compagni, caddero sotto il plotone di esecuzione; gli altri furono graziati ed avviati all’ergastolo. Non erano stati mandati da Mazzini, ma queste imprese rientravano nei metodi di lotta insurrezionale che egli aveva predicato e praticato.
Nel 1848, Mazzini elogiò gli assassini del comandante austriaco dell’arsenale di Venezia, Giovanni Marinovich e del conte Pellegrino Rossi, uno dei migliori amici del papa Pio IX, ministro degli Interni pontificio, a Roma.
Nella notte fra il 24 ed il 25 novembre 1848, i rivoluzionari costrinsero Pio IX a fuggire da Roma ed a rifugiarsi a Gaeta, sotto la protezione del Re di Napoli, Ferdinando II. Goffredo Mameli mandò un messaggio a Mazzini: “Roma! Repubblica! Venite!” Il terrorista accorse, entrando a far parte del famoso triunvirato (Giuseppe Mazzini, Carlo Armellini, Aurelio Saffi), che nel marzo 1849 aveva sostituito quello costituito da Carlo Armellini, Mattia Montecchi ed Aurelio Saliceti.
S’installò in una stanza del Quirinale, assegnandosi uno stipendio di trentadue lire al mese.
Tutti i decreti della Repubblica Romana venivano intestati col motto della Giovine Italia: “Dio (un Dio tutto suo!…) e Popolo”. Dichiarò guerra alla Chiesa ed alla proprietà, propugnando l’espropriazione di tutti i beni ecclesiastici. Nel frattempo, assassinii politici venivano commessi in pieno giorno da gruppi mazziniani con nomi significativi: Lega infernale, Compagnia infernale, Lega di sangue.
A Senigallia fu assassinato l’arcivescovo, che si era rifiutato di celebrare il Te Deum per la repubblica. Il popolo chiamava questi settari mazziniani dal pugnale facile: “ammazzarelli”.
Nell’aprile del 1849, la Francia inviava un corpo di spedizione, comandato dal generale Nicholas Charles Oudinot, che sbarcava a Civitavecchia. Nel frattempo a Roma arrivavano rinforzi, fra cui il romagnolo Callimaco Zambianchi, liberato dalla galera dove si trovava incolpato di nove omicidi: gli uomini ai suoi ordini fucilarono almeno quaranta preti e monaci sospettati di cospirare contro il governo! Nel giro di due mesi, Roma veniva strappata ai rivoluzionari. Garibaldi si salvò con una rocambolesca fuga in Tunisia, dove trovò una nave per New York; Mazzini se ne tornò in Inghilterra, passando per Marsiglia.
Mazzini giocò ancora alla rivoluzione, naturalmente sulla pelle degli altri (fedele alla sua già ben collaudata tecnica dell’”armiamoci e partite”): nel febbraio 1853 fece scoppiare l’insurrezione antiaustriaca dei “Barabba”, gli operai di Milano. Gli avevano assicurato che tremila uomini erano pronti ad impugnare le armi, ma solo alcune centinaia di questi poveracci assaltarono le caserme, lasciando sul selciato una sessantina di austriaci tra morti e feriti. Qualche giorno dopo, gli insorti catturati furono impiccati: ancora sangue… rigorosamente altrui!
Mazzini sciolse la sua organizzazione di Londra ed annunciò la nascita di un nuovo partito, il Partito d’Azione (i cui discendenti, nel corso della seconda guerra mondiale, invocavano i bombardamenti anglo-americani sulle città italiane, per demoralizzare la popolazione ed affrettare la caduta di quel regime fascista che, poi, nella sua ultima versione della Repubblica Sociale, si richiamava espressamente proprio alla figura di Giuseppe Mazzini!).
Nel 1857, dopo vari tentativi insurrezionali, fu la volta di Carlo Pisacane; espatriato per sfuggire al marito della sua amante, Enrichetta di Lorenzo, nel 1847 si era arruolato nella Legione Straniera, impegnata nella conquista coloniale dell’Algeria. Congedatosi, si ritirò con Enrichetta in Ticino, dove divenne “consigliere militare” di Mazzini, col quale redigeva vasti piani di operazioni per un esercito che… non esisteva!
Nel maggio 1857, Mazzini gli mise a disposizione dei fondi, con cui Pisacane, nel giugno successivo, organizzò la “spedizione di Sapri”, conclusasi, dopo la liberazione di 323 delinquenti detenuti nell’isola di Ponza (di cui solamente una dozzina aveva subito condanne per motivi politici), con l’uccisione o la cattura di tutti i rivoluzionari.
Da quell’ultimo fallimento in poi, Mazzini sopravvisse a se stesso, rassegnandosi a cedere l’iniziativa a quell’altro “galantuomo” di Cavour.
Giuseppe Mazzini fu il primo “tangentista” dell’Italia unita. Infatti, appena fatta l’”unità d’Italia”, egli cercò di mettere le mani sulla ricchissima torta dell’affare delle Ferrovie Meridionali, del valore potenziale di un miliardo e mezzo di lire oro dell’epoca (circa 75 miliardi di euro). Le risorse finanziarie, già reperite dal governo napoletano per la parte necessaria a coprire l’avvio dell’opera, erano state “sbancate” da Garibaldi e dilapidate in mille rivoli, fra cui pensioni a presunti “perseguitati” politici; c’erano pronti i progetti esecutivi realizzati attraverso un concorso, a bando internazionale, vinto dalla famiglia di imprenditori francesi Talabot. Garibaldi, ignorando i vincitori della gara internazionale, affidò al banchiere Pietro Augusto Adami – che l’aveva sollecitato esibendo le sue benemerenze di “finanziatore della spedizione dei Mille” – l’incarico di realizzare le Ferrovie del Sud. Anche un altro banchiere, Adriano Lemmi (Gran Maestro della massoneria italiana dell’epoca), peraltro cognato dell’Adami, aspirava al medesimo incarico; quest’ultimo, a sua volta, aveva finanziato la spedizione di Carlo Pisacane e, quindi, passava… all’incasso di questa “cambiale”, munito di “lettera di raccomandazione” autografa dell’”Apostolo puro”, tutto casa, massoneria e giovine Italia, Giuseppe Mazzini; latore ne era lo stesso Lemmi, destinatario era Francesco Crispi, plenipotenziario per la Sicilia. Il fondatore della Giovine Italia così scriveva: «Fratello, il portatore Adriano Lemmi, è nostro buonissimo amico, da vent’anni, e fece sacrifici considerevoli per la Causa. Ei viene a trattar cosa importante concernente la concessione fatta recentemente per le vie ferrate all’Adami. Uditelo, vi prego; spiegherà egli ogni cosa. Io soltanto vi dico che dove altri farebbe suo prò d’ogni frutto d’impresa, egli mira a fondare la Cassa del partito, non la sua. Vogliatemi bene».
Per non scontentare nessuno, il duo Garibaldi-Crispi assegnò l’affare delle Ferrovie del Sud metà a Lemmi e metà all’Adami, ma i due, successivamente, furono costretti a rinunciare all’incarico per difficoltà tecnico-finanziarie… (sic!). L’operazione assunse aspetti decisamente squallidi e vide, poi, coinvolti il ministro delle Finanze Pietro Bastogi e gran parte dei parlamentari, che si spartirono la “torta”.
La Commissione parlamentare d’inchiesta, istituita per indagare su questo “scandalo delle Ferrovie”, propose ed ottenne l’archiviazione del caso. Si trattò del primo “scandalo insabbiato”, come si rivelerà poi nella migliore tradizione dell’Italia “unita”, tanto monarchica che repubblicana; ma la grande commedia italica (peraltro attualissima, in quanto la stessa tangentopoli degli anni Novanta del XX secolo, a questo punto, non dovrebbe destare alcuna meraviglia!) dei corrotti e dei corruttori, di Faust che vende l’anima per una mazzetta, era appena iniziata. Su il sipario!
“L’Italia è fatta, ora bisogna fare gli Italiani”, sosteneva Massimo d’Azeglio; ma, contrariamente a quanto questi credesse, gli Italiani (non così diversi dagli Italiani di oggi) erano già da allora belli e fatti!
Infatti, uno sguardo d’insieme che, non limitandosi alla sola “questione meridionale”, esamini complessivamente l’attuale situazione italiana, pone in evidenza un inquietante parallelismo tra le vicende legate alla nascita dello Stato unitario e quelle che hanno inquinato la vita dell’Italia democratica del nostro tempo. Ed è solo comprendendo, al di là della retorica scolastica, come è nata male l’Italia di Vittorio Emanuele II e di Cavour, di Mazzini e di Garibaldi, che possiamo sperare di capire anche che cosa non funziona nell’Italia di oggi.

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