Di
Luca Pistolesi
Dopo sei giorni di negoziato, non si sblocca la trattativa tra Stati industrializzati e in via di sviluppo alla Conferenza di Copenhagen sui cambiamenti climatici.
Cina, India, Brasile e Sud Africa e Sudan, a capo del G77 dei Paesi in via di sviluppo, hanno proposto come condizione imprescindibile il
prolungamento degli effetti del trattato di Kyoto, che vincolava i Paesi industrializzati a tagli significativi. Secondo il cartello guidato dalla Cina, i tagli alle emissioni proposti dall’Europa e ancor più dagli Stati Uniti non sono sufficienti: si dovrebbe arrivare almeno al taglio del 40% sui livelli del 1990 entro il 2020 per i Paesi industrializzati.
Cifra alla quale farà fatica ad arrivare persino l’Europa, che fino ad ora, per bocca anche del Presidente della Repubblica Francese Nicolas Sarkozy, si è impegnata in una pur encomiabile riduzione dei gas del 20% se non sarà raggiunto un accordo globale e del 30% se invece anche i Paesi in via di sviluppo decidessero di fare la loro parte. In realtà, la Cina, insieme con gli altri stati in via di sviluppo, ha rispedito al mittente la bozza di accordo proposta dal Primo ministro danese Rasmussen, e rifiuta ancora di parlare in termini assoluti di taglio delle emissioni proprio, mentre non disdegna di fare gli stessi discorsi sui gas prodotti in occidente.
Sul fronte degli aiuti ai paesi poveri, registriamo ancora la buona volontà europea, che ha già messo sul piatto un piano di aiuti finanziari da 2,4 miliardi di euro all’anno per tre anni, venendo incontro anche in questo caso alle richieste cinesi. Il problema è che la Cina è impegnata, soprattutto, a incalzare gli Stati Uniti: è sulle mosse di questi due colossi che si gioca la partita finale del vertice. Dunque, il momento decisivo della conferenza non potrà che essere il giorno dell’arrivo di Barack Obama a Copenhagen.
Fonte:Reportonline
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Di
Luca Pistolesi
Dopo sei giorni di negoziato, non si sblocca la trattativa tra Stati industrializzati e in via di sviluppo alla Conferenza di Copenhagen sui cambiamenti climatici.
Cina, India, Brasile e Sud Africa e Sudan, a capo del G77 dei Paesi in via di sviluppo, hanno proposto come condizione imprescindibile il
prolungamento degli effetti del trattato di Kyoto, che vincolava i Paesi industrializzati a tagli significativi. Secondo il cartello guidato dalla Cina, i tagli alle emissioni proposti dall’Europa e ancor più dagli Stati Uniti non sono sufficienti: si dovrebbe arrivare almeno al taglio del 40% sui livelli del 1990 entro il 2020 per i Paesi industrializzati.
Cifra alla quale farà fatica ad arrivare persino l’Europa, che fino ad ora, per bocca anche del Presidente della Repubblica Francese Nicolas Sarkozy, si è impegnata in una pur encomiabile riduzione dei gas del 20% se non sarà raggiunto un accordo globale e del 30% se invece anche i Paesi in via di sviluppo decidessero di fare la loro parte. In realtà, la Cina, insieme con gli altri stati in via di sviluppo, ha rispedito al mittente la bozza di accordo proposta dal Primo ministro danese Rasmussen, e rifiuta ancora di parlare in termini assoluti di taglio delle emissioni proprio, mentre non disdegna di fare gli stessi discorsi sui gas prodotti in occidente.
Sul fronte degli aiuti ai paesi poveri, registriamo ancora la buona volontà europea, che ha già messo sul piatto un piano di aiuti finanziari da 2,4 miliardi di euro all’anno per tre anni, venendo incontro anche in questo caso alle richieste cinesi. Il problema è che la Cina è impegnata, soprattutto, a incalzare gli Stati Uniti: è sulle mosse di questi due colossi che si gioca la partita finale del vertice. Dunque, il momento decisivo della conferenza non potrà che essere il giorno dell’arrivo di Barack Obama a Copenhagen.
Fonte:Reportonline
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