Di Mimmo Sammartino
POTENZA - Meno male che il «lavoro nero» c'è. Parrebbe uno sberleffo, invece il serissimo e autorevole Ufficio studi della Cgia di Mestre dice sul serio. E formula questa affermazione con particolare riferimento al Mezzogiorno e a realtà proprio come la Basilicata. Ma non era sinonimo di sfruttamento, intrecci criminali e via dicendo? Non solo e non sempre, per la Cgia di Mestre.
D’altronde, la domanda che gli studiosi dell’organismo si sono posti è sensata: come fa, ad esempio, una regione come la Basilicata a reggere l'urto di una crisi durissima, qual è quella che ci è caduta addosso? Come fa a non esplodere mentre continua a spopolarsi, a vedere invecchiare la media dei propri abitanti? Come può non sbriciolare il proprio tessuto sociale quando le povertà crescono (un lucano su quattro rientra in questa famigerata fascia), quando le fabbriche chiudono a spron battente (in un anno saranno superate 4 milioni e 200 mila ore di cassa integrazione guadagni ordinaria e due milioni e 200 mila ore fra cassa straordinaria e quella in straordinaria in deroga)?
Il prodotto interno lordo intanto, calcola la Cgia, è in deciso calo. E in Basilicata (meno 7 per cento) è peggio che altrove: dal meno 5,5 per cento di Puglia, Sardegna e Calabria al meno 5 per cento di Campania e Sicilia. In uno scenario, quello meridionale nel suo complesso, di senza lavoro che oscilla intorno al 12-13 per cento e con una disoccupazione giovanile, in particolare, che raggiunge punte del 35-40 per cento.
Eppure, nonostante questo e contro ogni logica, il bubbone non scoppia. Da che cosa dipende questa capacità di resistenza? Certo, in alcune aree del Mezzogiorno, pur stringendo la cinghia, a tante carenze e necessità sopperiscono le famiglie. Talvolta i poveri pensionati (quelli al minimo rientrano ormai abbondantemente dentro l'area di povertà) passano qualche soldo ai nipoti che non riescono a trovare uno straccio di occupazione. E poi, sostiene il segretario della Cgia, Giuseppe Bortolussi, c'è il sommerso. Il tanto vituperato sommerso. Esso, secondo la Cgia, nei fatti ha finito con il costituire «un vero e proprio ammortizzatore sociale».
Il numero di lavoratori irregolari presenti in Italia, sostiene la Cgia di Mestre, ha ormai quasi raggiunto la soglia dei tre milioni di unità. Quasi la metà di loro (il 44,6 per cento per l'esattezza) è concentrata nel Mezzogiorno. E c'è anche un cospicuo valore aggiunto prodotto dal «lavoro nero»: ammonta a circa 92,6 miliardi di euro. Di questa cifra la Calabria (con un primato italiano) produce il 14,9 per cento, la Sicilia il 12,7, la Campania il 12,2. Poi ci sono Basilicata e Sardegna con un buon 11,7 per cento. La Lombardia, stavolta in coda, produce soltanto il 4,9 per cento del valore aggiunto realizzato con il lavoro nero. Dati che, avverte la Cgia di Mestre, si riferiscono al 2006 (ma sono gli ultimi disponibili). Con l'acutizzarsi della crisi il fenomeno non ha potuto che accentuarsi ulteriormente.
Naturalmente, precisa Bortolussi, «non si intende esaltare il “lavoro nero”, spesso legato a doppio filo con forme inaccettabili di sfruttamento, precarietà e insicurezza nei luoghi di lavoro. Tuttavia, quando queste forme di irregolarità non sono legate ad attività svolte dalle organizzazioni criminali, costituiscono, in momenti difficili, una protezione per molti lavoratori. Per questo non vanno demonizzate».
Fonte:La Gazzetta del Mezzogiorno
Segnalazione:ASDS
martedì 22 dicembre 2009
Cgia Mestre: il Sud non "implode" grazie al lavoro nero
Di Mimmo Sammartino
POTENZA - Meno male che il «lavoro nero» c'è. Parrebbe uno sberleffo, invece il serissimo e autorevole Ufficio studi della Cgia di Mestre dice sul serio. E formula questa affermazione con particolare riferimento al Mezzogiorno e a realtà proprio come la Basilicata. Ma non era sinonimo di sfruttamento, intrecci criminali e via dicendo? Non solo e non sempre, per la Cgia di Mestre.
D’altronde, la domanda che gli studiosi dell’organismo si sono posti è sensata: come fa, ad esempio, una regione come la Basilicata a reggere l'urto di una crisi durissima, qual è quella che ci è caduta addosso? Come fa a non esplodere mentre continua a spopolarsi, a vedere invecchiare la media dei propri abitanti? Come può non sbriciolare il proprio tessuto sociale quando le povertà crescono (un lucano su quattro rientra in questa famigerata fascia), quando le fabbriche chiudono a spron battente (in un anno saranno superate 4 milioni e 200 mila ore di cassa integrazione guadagni ordinaria e due milioni e 200 mila ore fra cassa straordinaria e quella in straordinaria in deroga)?
Il prodotto interno lordo intanto, calcola la Cgia, è in deciso calo. E in Basilicata (meno 7 per cento) è peggio che altrove: dal meno 5,5 per cento di Puglia, Sardegna e Calabria al meno 5 per cento di Campania e Sicilia. In uno scenario, quello meridionale nel suo complesso, di senza lavoro che oscilla intorno al 12-13 per cento e con una disoccupazione giovanile, in particolare, che raggiunge punte del 35-40 per cento.
Eppure, nonostante questo e contro ogni logica, il bubbone non scoppia. Da che cosa dipende questa capacità di resistenza? Certo, in alcune aree del Mezzogiorno, pur stringendo la cinghia, a tante carenze e necessità sopperiscono le famiglie. Talvolta i poveri pensionati (quelli al minimo rientrano ormai abbondantemente dentro l'area di povertà) passano qualche soldo ai nipoti che non riescono a trovare uno straccio di occupazione. E poi, sostiene il segretario della Cgia, Giuseppe Bortolussi, c'è il sommerso. Il tanto vituperato sommerso. Esso, secondo la Cgia, nei fatti ha finito con il costituire «un vero e proprio ammortizzatore sociale».
Il numero di lavoratori irregolari presenti in Italia, sostiene la Cgia di Mestre, ha ormai quasi raggiunto la soglia dei tre milioni di unità. Quasi la metà di loro (il 44,6 per cento per l'esattezza) è concentrata nel Mezzogiorno. E c'è anche un cospicuo valore aggiunto prodotto dal «lavoro nero»: ammonta a circa 92,6 miliardi di euro. Di questa cifra la Calabria (con un primato italiano) produce il 14,9 per cento, la Sicilia il 12,7, la Campania il 12,2. Poi ci sono Basilicata e Sardegna con un buon 11,7 per cento. La Lombardia, stavolta in coda, produce soltanto il 4,9 per cento del valore aggiunto realizzato con il lavoro nero. Dati che, avverte la Cgia di Mestre, si riferiscono al 2006 (ma sono gli ultimi disponibili). Con l'acutizzarsi della crisi il fenomeno non ha potuto che accentuarsi ulteriormente.
Naturalmente, precisa Bortolussi, «non si intende esaltare il “lavoro nero”, spesso legato a doppio filo con forme inaccettabili di sfruttamento, precarietà e insicurezza nei luoghi di lavoro. Tuttavia, quando queste forme di irregolarità non sono legate ad attività svolte dalle organizzazioni criminali, costituiscono, in momenti difficili, una protezione per molti lavoratori. Per questo non vanno demonizzate».
Fonte:La Gazzetta del Mezzogiorno
Segnalazione:ASDS
Leggi tutto »
POTENZA - Meno male che il «lavoro nero» c'è. Parrebbe uno sberleffo, invece il serissimo e autorevole Ufficio studi della Cgia di Mestre dice sul serio. E formula questa affermazione con particolare riferimento al Mezzogiorno e a realtà proprio come la Basilicata. Ma non era sinonimo di sfruttamento, intrecci criminali e via dicendo? Non solo e non sempre, per la Cgia di Mestre.
D’altronde, la domanda che gli studiosi dell’organismo si sono posti è sensata: come fa, ad esempio, una regione come la Basilicata a reggere l'urto di una crisi durissima, qual è quella che ci è caduta addosso? Come fa a non esplodere mentre continua a spopolarsi, a vedere invecchiare la media dei propri abitanti? Come può non sbriciolare il proprio tessuto sociale quando le povertà crescono (un lucano su quattro rientra in questa famigerata fascia), quando le fabbriche chiudono a spron battente (in un anno saranno superate 4 milioni e 200 mila ore di cassa integrazione guadagni ordinaria e due milioni e 200 mila ore fra cassa straordinaria e quella in straordinaria in deroga)?
Il prodotto interno lordo intanto, calcola la Cgia, è in deciso calo. E in Basilicata (meno 7 per cento) è peggio che altrove: dal meno 5,5 per cento di Puglia, Sardegna e Calabria al meno 5 per cento di Campania e Sicilia. In uno scenario, quello meridionale nel suo complesso, di senza lavoro che oscilla intorno al 12-13 per cento e con una disoccupazione giovanile, in particolare, che raggiunge punte del 35-40 per cento.
Eppure, nonostante questo e contro ogni logica, il bubbone non scoppia. Da che cosa dipende questa capacità di resistenza? Certo, in alcune aree del Mezzogiorno, pur stringendo la cinghia, a tante carenze e necessità sopperiscono le famiglie. Talvolta i poveri pensionati (quelli al minimo rientrano ormai abbondantemente dentro l'area di povertà) passano qualche soldo ai nipoti che non riescono a trovare uno straccio di occupazione. E poi, sostiene il segretario della Cgia, Giuseppe Bortolussi, c'è il sommerso. Il tanto vituperato sommerso. Esso, secondo la Cgia, nei fatti ha finito con il costituire «un vero e proprio ammortizzatore sociale».
Il numero di lavoratori irregolari presenti in Italia, sostiene la Cgia di Mestre, ha ormai quasi raggiunto la soglia dei tre milioni di unità. Quasi la metà di loro (il 44,6 per cento per l'esattezza) è concentrata nel Mezzogiorno. E c'è anche un cospicuo valore aggiunto prodotto dal «lavoro nero»: ammonta a circa 92,6 miliardi di euro. Di questa cifra la Calabria (con un primato italiano) produce il 14,9 per cento, la Sicilia il 12,7, la Campania il 12,2. Poi ci sono Basilicata e Sardegna con un buon 11,7 per cento. La Lombardia, stavolta in coda, produce soltanto il 4,9 per cento del valore aggiunto realizzato con il lavoro nero. Dati che, avverte la Cgia di Mestre, si riferiscono al 2006 (ma sono gli ultimi disponibili). Con l'acutizzarsi della crisi il fenomeno non ha potuto che accentuarsi ulteriormente.
Naturalmente, precisa Bortolussi, «non si intende esaltare il “lavoro nero”, spesso legato a doppio filo con forme inaccettabili di sfruttamento, precarietà e insicurezza nei luoghi di lavoro. Tuttavia, quando queste forme di irregolarità non sono legate ad attività svolte dalle organizzazioni criminali, costituiscono, in momenti difficili, una protezione per molti lavoratori. Per questo non vanno demonizzate».
Fonte:La Gazzetta del Mezzogiorno
Segnalazione:ASDS
Iscriviti a:
Commenti sul post (Atom)
Nessun commento:
Posta un commento