Di Giuseppe Scianò.
- Palermo - Nell’atrio di Palazzo Comitini, sede dell’amministrazione provinciale di Palermo, una sola lapide, collocata dopo mezzo secolo, ricorda i nomi delle ventiquattro vittime, in maggioranza molto giovani, della strage avvenuta a Palermo, nella centralissima via Maqueda, il 19 ottobre 1944. Troppo poco per Palermo. Troppo poco per la Sicilia. Troppo poco per quelle povere care vittime che con la loro morte hanno testimoniato e testimoniano, fra l’altro, quali fossero i metodi della polizia dell’epoca in una Sicilia che, in quel 1944, restituita dagli Alleati al Governo e all’Amministrazione italiana, reclamava il diritto dell’autodecisione e a un plebiscito sotto controllo internazionale per la sua Indipendenza.
Metodi durissimi, coloniali, per la Sicilia e i Siciliani. Soprattutto se si considera che i militari della Divisione Sabauda, con funzione di polizia, per il servizio di ordine pubblico erano dotati di mitra e di bombe a mano. Sì, perché il Popolo Siciliano era il nemico da tenere sotto controllo, con ogni mezzo. Se così non fosse stato non avrebbe avuto luogo quella strage, a conclusione di una manifestazione pacifica iniziata da una manifestazione spontanea contro il carovita dopo che uno sciopero ufficiale dei dipendenti comunali era stato revocato. Una manifestazione che, strada facendo, si sarebbe trasformata in un corteo enorme arricchito di tante altre motivazioni. Ma un corteo di gente civile, disarmata, che andava a dialogare con le autorità del momento presso il Palazzo Comitini, appunto, allora sede della prefettura.
È utile ricordare che, in quell’ottobre del 1944, tutti i partiti italiani (di destra, di centro e di sinistra), intanto ricostituitisi e riconosciuti dal Comitato di Liberazione Nazionale, erano rappresentati nel Governo italiano capeggiato da Ivanoe Bonomi. E che il maggiore partito in Sicilia, seppur non rappresentato nel Governo, era il Movimento Indipendentista Siciliano (Mis) che vantava il più ampio consenso e il più alto numero di iscritti e che, soprattutto, rappresentava meglio e più direttamente i bisogni di pane, di lavoro, di giustizia, di libertà e di progresso del
Popolo Siciliano. In quel triste giorno, però, i dirigenti indipendentisti erano assenti da Palermo perché partecipavano al loro primo congresso che si svolgeva a Taormina.
Il Popolo Siciliano (e in particolare i cittadini di Palermo, città semidistrutta dai bombardamenti) era al colmo della disperazione e del malcontento, anche perché letteralmente stremato dalle sofferenze della guerra e afflitto da vent’anni di regime fascista nonché da oltre sessant’anni di governi “unitari, centralismi e filonordisti” che ne avevano mortificato ogni aspetto della vita politica e ne avevano massacrato l’economia. Se questa non fosse stata la reale situazione dell’epoca, anche dal punto di vista delle responsabilità politiche, non si spiegherebbe la ostinata avversione di forze politiche e di istituzioni a ogni valutazione storico-politica di quei fatti, a ogni lapide o monumento in memoria di quella tragica giornata di sangue innocente.
Ai 24 morti bisogna, lo ricordiamo, aggiungere gli oltre 150 feriti più o meno gravemente. Non è un caso che l’unica lapide esistente (dopo tante richieste) sia quella collocata all’interno di Palazzo Comitini soltanto nel 1994, ossia dopo cinquant’anni, grazie alla disponibilità del presidente della provincia Francesco Musotto. E questo la dice lunga sull’intera vicenda, i cui termini si vogliono oggi ulteriormente ingarbugliare inventando magari altri soggetti a cui attribuire la responsabilità di quei fatti.
Ma a chi attribuire il silenzio dei libri scolastici, il silenzio della toponomastica cittadina, il silenzio di tanti decenni? A chi attribuire la mancata collocazione di una lapide sul luogo dell’eccidio? E non dimentichiamolo. I fatti sono fatti! Riteniamo che il miglior modo per onorare le vittime della strage di via Maqueda sia quello di lottare ancor di più per il recupero della verità, di tutta la verità. Ivi compreso quel “pezzo” prezioso di “memoria storica” del Popolo Siciliano. E rivendichiamo altresì il diritto alla giustizia. In questa come in altre circostanze. Anche per smantellare le tanti ignobili “congiure del silenzio” e, peggio, le congiure delle manipolazioni dei fatti delle prove, diventate ricorrenti su tutte le grandi e tragiche vicende della Sicilia, in Sicilia.
- Palermo - Nell’atrio di Palazzo Comitini, sede dell’amministrazione provinciale di Palermo, una sola lapide, collocata dopo mezzo secolo, ricorda i nomi delle ventiquattro vittime, in maggioranza molto giovani, della strage avvenuta a Palermo, nella centralissima via Maqueda, il 19 ottobre 1944. Troppo poco per Palermo. Troppo poco per la Sicilia. Troppo poco per quelle povere care vittime che con la loro morte hanno testimoniato e testimoniano, fra l’altro, quali fossero i metodi della polizia dell’epoca in una Sicilia che, in quel 1944, restituita dagli Alleati al Governo e all’Amministrazione italiana, reclamava il diritto dell’autodecisione e a un plebiscito sotto controllo internazionale per la sua Indipendenza.
Metodi durissimi, coloniali, per la Sicilia e i Siciliani. Soprattutto se si considera che i militari della Divisione Sabauda, con funzione di polizia, per il servizio di ordine pubblico erano dotati di mitra e di bombe a mano. Sì, perché il Popolo Siciliano era il nemico da tenere sotto controllo, con ogni mezzo. Se così non fosse stato non avrebbe avuto luogo quella strage, a conclusione di una manifestazione pacifica iniziata da una manifestazione spontanea contro il carovita dopo che uno sciopero ufficiale dei dipendenti comunali era stato revocato. Una manifestazione che, strada facendo, si sarebbe trasformata in un corteo enorme arricchito di tante altre motivazioni. Ma un corteo di gente civile, disarmata, che andava a dialogare con le autorità del momento presso il Palazzo Comitini, appunto, allora sede della prefettura.
È utile ricordare che, in quell’ottobre del 1944, tutti i partiti italiani (di destra, di centro e di sinistra), intanto ricostituitisi e riconosciuti dal Comitato di Liberazione Nazionale, erano rappresentati nel Governo italiano capeggiato da Ivanoe Bonomi. E che il maggiore partito in Sicilia, seppur non rappresentato nel Governo, era il Movimento Indipendentista Siciliano (Mis) che vantava il più ampio consenso e il più alto numero di iscritti e che, soprattutto, rappresentava meglio e più direttamente i bisogni di pane, di lavoro, di giustizia, di libertà e di progresso del
Popolo Siciliano. In quel triste giorno, però, i dirigenti indipendentisti erano assenti da Palermo perché partecipavano al loro primo congresso che si svolgeva a Taormina.
Il Popolo Siciliano (e in particolare i cittadini di Palermo, città semidistrutta dai bombardamenti) era al colmo della disperazione e del malcontento, anche perché letteralmente stremato dalle sofferenze della guerra e afflitto da vent’anni di regime fascista nonché da oltre sessant’anni di governi “unitari, centralismi e filonordisti” che ne avevano mortificato ogni aspetto della vita politica e ne avevano massacrato l’economia. Se questa non fosse stata la reale situazione dell’epoca, anche dal punto di vista delle responsabilità politiche, non si spiegherebbe la ostinata avversione di forze politiche e di istituzioni a ogni valutazione storico-politica di quei fatti, a ogni lapide o monumento in memoria di quella tragica giornata di sangue innocente.
Ai 24 morti bisogna, lo ricordiamo, aggiungere gli oltre 150 feriti più o meno gravemente. Non è un caso che l’unica lapide esistente (dopo tante richieste) sia quella collocata all’interno di Palazzo Comitini soltanto nel 1994, ossia dopo cinquant’anni, grazie alla disponibilità del presidente della provincia Francesco Musotto. E questo la dice lunga sull’intera vicenda, i cui termini si vogliono oggi ulteriormente ingarbugliare inventando magari altri soggetti a cui attribuire la responsabilità di quei fatti.
Ma a chi attribuire il silenzio dei libri scolastici, il silenzio della toponomastica cittadina, il silenzio di tanti decenni? A chi attribuire la mancata collocazione di una lapide sul luogo dell’eccidio? E non dimentichiamolo. I fatti sono fatti! Riteniamo che il miglior modo per onorare le vittime della strage di via Maqueda sia quello di lottare ancor di più per il recupero della verità, di tutta la verità. Ivi compreso quel “pezzo” prezioso di “memoria storica” del Popolo Siciliano. E rivendichiamo altresì il diritto alla giustizia. In questa come in altre circostanze. Anche per smantellare le tanti ignobili “congiure del silenzio” e, peggio, le congiure delle manipolazioni dei fatti delle prove, diventate ricorrenti su tutte le grandi e tragiche vicende della Sicilia, in Sicilia.
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