mercoledì 16 settembre 2009

Viaggio nella memoria: Il Sergente Romano



Di Pino Tosca



Il 14 febbraio 1861, mentre sui bastioni di Gaeta si ammaina la bandiera gigliata, Francesco II, prima di salire sulla corvetta francese “La Mouette” che deve trasportarlo a Terracina incontra sulla spiaggia l’ultimo dei suoi soldati che, con le lacrime agli occhi, è venuto a salutarlo in silenzio. Il giovane Re gli si avvicina commosso, lo abbraccia e gli dice questa frase: “Dà per me un bacio a tutti quelli che mi amano , e dì a loro che, prima che scada un anno, ci rivedremo”. Queste ultime parole di Re Francesco, si diffondono in un baleno in tutto il Meridione. Mentre ovunque si stanno costituendo bande di guerriglieri per contrastare il passo ai piemontesi, in Puglia la “reazione” lavora alacremente nelle città, e nelle campagne i rurali già cantano: “Senghe ‘na voce abbasce / Frangische se ne va: / Regne de Napule, statte secure / da dope ‘n anne avà ternè”.
E’ la speranza ingenua e forte della “bassa plebe”, spinta da un odio feroce contro i “galantuomini” liberali e gli invasori del Nord. Ed è proprio qui, nelle pianure baresi, che compie le sue gesta il migliore ed il più “pulito” dei briganti: il Sergente Romano. Pasquale Domenico Romano, figlio di un pastore di nome Giuseppe e di Angela Concetta Lo Russo, nasce a Gioia del Colle, la città più “reazionaria” della Puglia, che aveva dato i natali a Francesco Soria, il celebre comandante sanfedista delle “masse” pugliesi, e che era stato protagonista di numerose rivolte popolari a carattere antigiacobino.
Pasquale Romano, dotato di vivace intelligenza, di una volontà di ferro, e di una certa intraprendenza, presta servizio per dieci anni consecutivi nell’esercito delle Due Sicilie, e, per il suo contegno irreprensibile, per la sua disciplina e la sua cultura, merita il grado di primo sergente e l’onore di alfiere nella 1 Compagnia del V Reggimento di linea. Bel giovane, già sui trent’anni, bruno, alto, robusto, amante degli abiti eleganti, esercita un certo fascino sul popolino. Sopravvenuta la disfatta dell’armata napoletana, nel gennaio del 1861 se ne torna al paese nativo. Qui, conservando dentro se stesso la propria fede politica, si rende conto che ormai bisogna reagire in altro modo. In effetti, il “partito liberale” si abbandona subito ad una serie interminabile di vessazioni contro la plebe e gli ex-combattenti. Ricatti, discriminazioni, furti sono all’ordine del giorno. Giacomo Oddo, a tal proposito, scrive:
“Era una rappresaglia continua contro coloro che avevano rivestito cariche sotto il Borbone, o si credevano a questi affezionati.
Ogni angheria, ogni sopruso, ogni dispetto che fosse fattibile, senza scrupoli, senza pudore anzi con non celata compiacenza si faceva. S’imprigionava, si taglieggiava, si batteva, come fosse stata la cosa più naturale del mondo”. Ed il deputato Castagnola, membro della Commissione d’Inchiesta sul brigantaggio, riferirà più tardi: “In certi siti si fucilava senza alcuna guarentigia, non solo da truppe, ma da guardie nazionali, da sindaci, ecc...”. La prima città pugliese a ribellarsi contro “garibaldesi” e ricconi è Bitetto. La gente assalta la casa del sindaco De Robertis, brucia l’archivio comunale, uccide un tenente dei nazionali», costringe il democratico barone DeRuggiero a ballare in piazza, fra gli sberleffi della “santa canaglia”. Poi è la rivolta di Santeramo, Bovino, Vieste, San Giovanni Rotondo, Canosa. A Gioia del Colle, nel maggio del 1861, i legittimisti si organizzano clandestinamente in
un comitato dell”’Associazione Religiosa”, di cui Romano diventa il “comandante generale”, mentre la carica di “presidente” è affidata al dottor Giuseppe Musci. Il comitato gioiese, in pochi mesi di lavoro, conta oltre settecento adepti, ed è sorretto da un’enorme simpatia popolare. A Grumo Appula, è invece un prete, don Rocco Paccione, il “leader” dei borbonici. L’insurrezione generale nel barese, prevista per il 20 luglio, fallisce poiché, per un caso fortuito, le “autorità” scoprono la congiura. Segue la repressione. Fra gli innumerevoli incarcerati, vi sono a Bari il canonico Giuseppe Di Cagno, a Barletta i canonici Vito Pugliese e Venceslao Stagni, a Monopoli tutta la famiglia Simeone, a Grumo don Rocco Paccione ad Acquaviva delle Fonti don Lorenzo De Napoli e il barone Giannantonio Molignani, uomo onestissimo e pacifico che, prima di andar “dentro” profetizza: “Bella è l’unione nazionale; però noi saremo i pezzenti dell’Italia unita!”.
Il sergente Romano, ricercato dalle “coppole rosse” fugge a Castellana e da qui si nasconde poi nei boschi del gioiese. Qui, con altri irregolari costituisce il primo nucleo della sua formazione, che più tardi ammonterà a più di duecentouomini.
Nelle città, intanto, le “purghe “ aumentano. Vengono addirittura sbattuti in cella i genitori ed i parenti dei fuoriusciti, come ostaggi. La sera de 24 luglio, quattro elementi di Romano uccidono una “coppola rossa”. Quattro giorni dopo, i piemontesi penetrano nel bosco di Vallata per catturare il Sergente ed i suoi. Caporal Ferrante, aiutante di Romano, convince gli altri ad attaccare Gioia, contro il parere del Sergente, il quale, deve comunque rassegnarsi a mettersi a capo dei ribelli. Il borgo di San Vito diventa l’obiettivo dell’azione. Coi vessilli gigliati in testa ed il Sergente Romano, elegantissimo, la colonna degli “sbandati”
al grido di “Fuori la Nazione” irrompe in paese. “Mo vevene li sbandeti!” è l’urlo della plebe esultante. Tutti quanti, compresi vecchi, bimbi e femmine, si armano di mannaie, scuri, schioppi e forconi ed assaltano le case dei borghesi e le postazioni liberali. Nella lotta accanita il Ferrante ed il Romano si coprono di gloria. Per otto ore, i cafoni lottano selvaggiamente insieme al sergente Romano contro le Guardie Nazionali armate di un pezzo di artiglieria. Le donne sono le più accese: Marianna Semeraro va avanti a tutti con la bandiera bianca; la diciassettenne Maria Modugno ricarica i fucili degli insorti; Angela Rosa Angelillo grida ai combattenti di ripetere “il novantanove”, e tante, tante altre. Ma, nel frattempo, arrivano armatissimi piemontesi e guardie civiche delle città vicine, ed il Sergente è costretto a ripiegare nei boschi. Un centinaio di popolani, morti combattendo o fucilati, pagano così con la vita la loro fedeltà a Re Francesco. Altri centotrenta vengono incarcerati. Ma, ormai, tutti i boschi pugliesi pullulano di bande. “Ciucciariello”, La Veneziana, Monaco, Mazzeo ed altri, prendono la guida dei “cozzali” scampati al piombo tricolore. Non tutti coloro combatteranno esclusivamente per il principio legittimista; fra loro troveremo molti avventurieri e qualche autentico delinquente. Il Sergente Romano, invece rappresenta l’autentico guerrigliero politico.
Il “progressista” Lucarelli così scrive di lui: “ Anche nell’abominevole carriera del brigante, spesso addimostrava un certo sentimento di pietà verso gli umili e i derelitti, una parvenza, almeno, di rettitudine morale e un’indubbia sincerità di opinioni politiche”. La battaglia per il Re Borbone e Cristo Re, assume ai suoi occhi una dimensione di una ‘jìad’, di una “guerrasanta” e, prima di arruolare uomini nella propria formazione si informa del loro credo politico e pretende da loro un “Atto di giuramento e fedeltà”:”...promettiamo e giuriamo di difendere i Stendardi del nostro Re Francesco II a tuttosangue, e con questo di farli sacrosantamente rispettare ed osservare da tutti quei Comuni i quali sono subornati dal partito Liberali...”.
Attirati dalla sua fede, persino due piemontesi ed un toscano di Viareggio, disertano l’esercito sabaudo e si aggregano alla banda borbonica. Il vercellese Carlo Gastaldi scrisse poi che i suoi compagni “bianchi” erano veri” appartenenti a Francesco II, e non già come briganti come erano spacciati”. Il Sergente, animato da un religiosissimo senso della vita, intrattiene stretti rapporti con James Bishop, legittimista inglese, con Roma e col Vaticano, che gli invia una medaglia d’oro per riconoscenza. Ai suoi volontari elargisce regolari cariche della gerarchia militare, e pretende che gli ufficiali si chiamino “signore”.
Punisce severamente tutti coloro che disubbidiscono, o che, in nome del Re o del Papa, si abbandonano a ricatti e sequestri.
La sua rigidità porta a verificarsi diverse diserzioni nella banda, ed egli annota nel suo diario “Ecco che siccome io conosco e tutti conosciamo che Dio protegge sempre la rettitudine, se andavano retti, Iddio tanto non permetteva e la nostra causa potea sempre andare innanzi Permise pure il sempre lodato Iddio che, quantunque io quasi solo rimasto nel più duro ed atroce combattimento, pur nulla di meno fu salvi mediante la sua protezione, e sono questo di fra il numero dei viventi, sempre per il suo divinissimo miracolo e non mai per la mia forza”. Di natura mistica e nobile, con una concezione medioevale della vita e dell’onore, riempie le pagine dei suoi taccuini con preghiere e motti latini, inni sacri, giaculatorie, devozioni alla Vergine, brani di patetiche nostalgie e di dolci poesie. Alberobello, Carovigno, Ruvo, Noci, sono i paesi che offrono il miglior materiale umano al Sergente Romano. Mai, a nessuno dei suoi guerriglieri, il Sergente Romano fa mancare la povera paga promessa, badando di essere puntualissimo nel corrispondere le retribuzioni spettanti alla truppa, proprio come fosse a capo di un’armata regolare.
Innumerevoli sono i bifolchi laceri e scalzi, riforniti di denari e abiti dal Sergente, che talvolta ordina la spogliazione dei proprietari unitaristi e la distribuzione del bottino ai contadini.
Il clero barese è quasi tutto fedele al comandante. Nei giorni festivi conduce i suoi briganti alla masseria dei monaci di San Domenico, ove don Tinelli recita l’ “Oremus pro rege Francisco” e la banda canta il “Vexilla Regis”.
Grazie alle sue staffette, infinite volte la formazione sfugge agli accerchiamenti piemontesi. I suoi uomini e quelli di Crocco, tutti a cavallo, il 24 febbraio avanzano fin sotto Andria e Corato, conquistando paesi e terrorizzando i galantuomini del tricolore.
Quattro mesi dopo, il Sergente batte i campi di Locorotondo, Cisternino ed Alberobello. Il 26 luglio, con un colpo di mano, conquista il Quartiere delle Guardie nazionali di questa città. Qualche giorno dopo fa giustiziare due latifondisti liberali di Ostuni, ed ordina il processo e la fucilazione di Vito Angelini, spia e liberale. L’agosto 1862 segna l’unione di tutte le bande pugliesi sotto il comando diretto di Romano, eletto “maggiore” delle truppe “francescane”, e la sua padronanza assolute delle campagne.
Nel contempo, si abbattono le prime sconfitte sulla banda. Il 5 gennaio 1863 sopraggiunge la fine. Rimasto con cinquanta fedelissimi, il Sergente Romano viene circondato nel bosco di Vallata dai Cavalleggeri di Saluzzo. Dopo una lotta accanita, combattuta anche a colpi di coltello, il Sergente muore con le armi in pugno sotto le numerose sciabolate dei “Nordisti”.
I vincitori espongono, per otto giorni, il suo cadavere fatto a pezzi, come monito. Ma i gioiesi e i cafoni dei dintorni, per otto giorni, si recano pregando sul cadavere martoriato, come ad un pellegrinaggio; mentre il visconte Oscar De Poli scrive sulla “Gazet de France” un brano di postumo omaggio alla memoria dell’eroico sergente legittimista.
Il Sergente Romano, con la sua vita e la sua morte, con i suoi ideali semplici ma saldi, rappresenta la guerriglia legittimista più pura, quella stessa di Borjès, Trezegnies, De Christen e Caracciolo. Il suo ricordo non si è ancora del tutto spento in terra di Bari. Ancor oggi, in alcune contrade del Tavoliere, può capitar di sentire dei vecchi contadini cantare l’antica strofetta: “C’amma fà de Garrebalde, ca iè mfame e traddeture Nui vulime ‘Re Borbone ca respette la Religgione”

Articolo pubblicato su Il Condor-giornale politico- nel 1996.
Leggi tutto »


Di Pino Tosca



Il 14 febbraio 1861, mentre sui bastioni di Gaeta si ammaina la bandiera gigliata, Francesco II, prima di salire sulla corvetta francese “La Mouette” che deve trasportarlo a Terracina incontra sulla spiaggia l’ultimo dei suoi soldati che, con le lacrime agli occhi, è venuto a salutarlo in silenzio. Il giovane Re gli si avvicina commosso, lo abbraccia e gli dice questa frase: “Dà per me un bacio a tutti quelli che mi amano , e dì a loro che, prima che scada un anno, ci rivedremo”. Queste ultime parole di Re Francesco, si diffondono in un baleno in tutto il Meridione. Mentre ovunque si stanno costituendo bande di guerriglieri per contrastare il passo ai piemontesi, in Puglia la “reazione” lavora alacremente nelle città, e nelle campagne i rurali già cantano: “Senghe ‘na voce abbasce / Frangische se ne va: / Regne de Napule, statte secure / da dope ‘n anne avà ternè”.
E’ la speranza ingenua e forte della “bassa plebe”, spinta da un odio feroce contro i “galantuomini” liberali e gli invasori del Nord. Ed è proprio qui, nelle pianure baresi, che compie le sue gesta il migliore ed il più “pulito” dei briganti: il Sergente Romano. Pasquale Domenico Romano, figlio di un pastore di nome Giuseppe e di Angela Concetta Lo Russo, nasce a Gioia del Colle, la città più “reazionaria” della Puglia, che aveva dato i natali a Francesco Soria, il celebre comandante sanfedista delle “masse” pugliesi, e che era stato protagonista di numerose rivolte popolari a carattere antigiacobino.
Pasquale Romano, dotato di vivace intelligenza, di una volontà di ferro, e di una certa intraprendenza, presta servizio per dieci anni consecutivi nell’esercito delle Due Sicilie, e, per il suo contegno irreprensibile, per la sua disciplina e la sua cultura, merita il grado di primo sergente e l’onore di alfiere nella 1 Compagnia del V Reggimento di linea. Bel giovane, già sui trent’anni, bruno, alto, robusto, amante degli abiti eleganti, esercita un certo fascino sul popolino. Sopravvenuta la disfatta dell’armata napoletana, nel gennaio del 1861 se ne torna al paese nativo. Qui, conservando dentro se stesso la propria fede politica, si rende conto che ormai bisogna reagire in altro modo. In effetti, il “partito liberale” si abbandona subito ad una serie interminabile di vessazioni contro la plebe e gli ex-combattenti. Ricatti, discriminazioni, furti sono all’ordine del giorno. Giacomo Oddo, a tal proposito, scrive:
“Era una rappresaglia continua contro coloro che avevano rivestito cariche sotto il Borbone, o si credevano a questi affezionati.
Ogni angheria, ogni sopruso, ogni dispetto che fosse fattibile, senza scrupoli, senza pudore anzi con non celata compiacenza si faceva. S’imprigionava, si taglieggiava, si batteva, come fosse stata la cosa più naturale del mondo”. Ed il deputato Castagnola, membro della Commissione d’Inchiesta sul brigantaggio, riferirà più tardi: “In certi siti si fucilava senza alcuna guarentigia, non solo da truppe, ma da guardie nazionali, da sindaci, ecc...”. La prima città pugliese a ribellarsi contro “garibaldesi” e ricconi è Bitetto. La gente assalta la casa del sindaco De Robertis, brucia l’archivio comunale, uccide un tenente dei nazionali», costringe il democratico barone DeRuggiero a ballare in piazza, fra gli sberleffi della “santa canaglia”. Poi è la rivolta di Santeramo, Bovino, Vieste, San Giovanni Rotondo, Canosa. A Gioia del Colle, nel maggio del 1861, i legittimisti si organizzano clandestinamente in
un comitato dell”’Associazione Religiosa”, di cui Romano diventa il “comandante generale”, mentre la carica di “presidente” è affidata al dottor Giuseppe Musci. Il comitato gioiese, in pochi mesi di lavoro, conta oltre settecento adepti, ed è sorretto da un’enorme simpatia popolare. A Grumo Appula, è invece un prete, don Rocco Paccione, il “leader” dei borbonici. L’insurrezione generale nel barese, prevista per il 20 luglio, fallisce poiché, per un caso fortuito, le “autorità” scoprono la congiura. Segue la repressione. Fra gli innumerevoli incarcerati, vi sono a Bari il canonico Giuseppe Di Cagno, a Barletta i canonici Vito Pugliese e Venceslao Stagni, a Monopoli tutta la famiglia Simeone, a Grumo don Rocco Paccione ad Acquaviva delle Fonti don Lorenzo De Napoli e il barone Giannantonio Molignani, uomo onestissimo e pacifico che, prima di andar “dentro” profetizza: “Bella è l’unione nazionale; però noi saremo i pezzenti dell’Italia unita!”.
Il sergente Romano, ricercato dalle “coppole rosse” fugge a Castellana e da qui si nasconde poi nei boschi del gioiese. Qui, con altri irregolari costituisce il primo nucleo della sua formazione, che più tardi ammonterà a più di duecentouomini.
Nelle città, intanto, le “purghe “ aumentano. Vengono addirittura sbattuti in cella i genitori ed i parenti dei fuoriusciti, come ostaggi. La sera de 24 luglio, quattro elementi di Romano uccidono una “coppola rossa”. Quattro giorni dopo, i piemontesi penetrano nel bosco di Vallata per catturare il Sergente ed i suoi. Caporal Ferrante, aiutante di Romano, convince gli altri ad attaccare Gioia, contro il parere del Sergente, il quale, deve comunque rassegnarsi a mettersi a capo dei ribelli. Il borgo di San Vito diventa l’obiettivo dell’azione. Coi vessilli gigliati in testa ed il Sergente Romano, elegantissimo, la colonna degli “sbandati”
al grido di “Fuori la Nazione” irrompe in paese. “Mo vevene li sbandeti!” è l’urlo della plebe esultante. Tutti quanti, compresi vecchi, bimbi e femmine, si armano di mannaie, scuri, schioppi e forconi ed assaltano le case dei borghesi e le postazioni liberali. Nella lotta accanita il Ferrante ed il Romano si coprono di gloria. Per otto ore, i cafoni lottano selvaggiamente insieme al sergente Romano contro le Guardie Nazionali armate di un pezzo di artiglieria. Le donne sono le più accese: Marianna Semeraro va avanti a tutti con la bandiera bianca; la diciassettenne Maria Modugno ricarica i fucili degli insorti; Angela Rosa Angelillo grida ai combattenti di ripetere “il novantanove”, e tante, tante altre. Ma, nel frattempo, arrivano armatissimi piemontesi e guardie civiche delle città vicine, ed il Sergente è costretto a ripiegare nei boschi. Un centinaio di popolani, morti combattendo o fucilati, pagano così con la vita la loro fedeltà a Re Francesco. Altri centotrenta vengono incarcerati. Ma, ormai, tutti i boschi pugliesi pullulano di bande. “Ciucciariello”, La Veneziana, Monaco, Mazzeo ed altri, prendono la guida dei “cozzali” scampati al piombo tricolore. Non tutti coloro combatteranno esclusivamente per il principio legittimista; fra loro troveremo molti avventurieri e qualche autentico delinquente. Il Sergente Romano, invece rappresenta l’autentico guerrigliero politico.
Il “progressista” Lucarelli così scrive di lui: “ Anche nell’abominevole carriera del brigante, spesso addimostrava un certo sentimento di pietà verso gli umili e i derelitti, una parvenza, almeno, di rettitudine morale e un’indubbia sincerità di opinioni politiche”. La battaglia per il Re Borbone e Cristo Re, assume ai suoi occhi una dimensione di una ‘jìad’, di una “guerrasanta” e, prima di arruolare uomini nella propria formazione si informa del loro credo politico e pretende da loro un “Atto di giuramento e fedeltà”:”...promettiamo e giuriamo di difendere i Stendardi del nostro Re Francesco II a tuttosangue, e con questo di farli sacrosantamente rispettare ed osservare da tutti quei Comuni i quali sono subornati dal partito Liberali...”.
Attirati dalla sua fede, persino due piemontesi ed un toscano di Viareggio, disertano l’esercito sabaudo e si aggregano alla banda borbonica. Il vercellese Carlo Gastaldi scrisse poi che i suoi compagni “bianchi” erano veri” appartenenti a Francesco II, e non già come briganti come erano spacciati”. Il Sergente, animato da un religiosissimo senso della vita, intrattiene stretti rapporti con James Bishop, legittimista inglese, con Roma e col Vaticano, che gli invia una medaglia d’oro per riconoscenza. Ai suoi volontari elargisce regolari cariche della gerarchia militare, e pretende che gli ufficiali si chiamino “signore”.
Punisce severamente tutti coloro che disubbidiscono, o che, in nome del Re o del Papa, si abbandonano a ricatti e sequestri.
La sua rigidità porta a verificarsi diverse diserzioni nella banda, ed egli annota nel suo diario “Ecco che siccome io conosco e tutti conosciamo che Dio protegge sempre la rettitudine, se andavano retti, Iddio tanto non permetteva e la nostra causa potea sempre andare innanzi Permise pure il sempre lodato Iddio che, quantunque io quasi solo rimasto nel più duro ed atroce combattimento, pur nulla di meno fu salvi mediante la sua protezione, e sono questo di fra il numero dei viventi, sempre per il suo divinissimo miracolo e non mai per la mia forza”. Di natura mistica e nobile, con una concezione medioevale della vita e dell’onore, riempie le pagine dei suoi taccuini con preghiere e motti latini, inni sacri, giaculatorie, devozioni alla Vergine, brani di patetiche nostalgie e di dolci poesie. Alberobello, Carovigno, Ruvo, Noci, sono i paesi che offrono il miglior materiale umano al Sergente Romano. Mai, a nessuno dei suoi guerriglieri, il Sergente Romano fa mancare la povera paga promessa, badando di essere puntualissimo nel corrispondere le retribuzioni spettanti alla truppa, proprio come fosse a capo di un’armata regolare.
Innumerevoli sono i bifolchi laceri e scalzi, riforniti di denari e abiti dal Sergente, che talvolta ordina la spogliazione dei proprietari unitaristi e la distribuzione del bottino ai contadini.
Il clero barese è quasi tutto fedele al comandante. Nei giorni festivi conduce i suoi briganti alla masseria dei monaci di San Domenico, ove don Tinelli recita l’ “Oremus pro rege Francisco” e la banda canta il “Vexilla Regis”.
Grazie alle sue staffette, infinite volte la formazione sfugge agli accerchiamenti piemontesi. I suoi uomini e quelli di Crocco, tutti a cavallo, il 24 febbraio avanzano fin sotto Andria e Corato, conquistando paesi e terrorizzando i galantuomini del tricolore.
Quattro mesi dopo, il Sergente batte i campi di Locorotondo, Cisternino ed Alberobello. Il 26 luglio, con un colpo di mano, conquista il Quartiere delle Guardie nazionali di questa città. Qualche giorno dopo fa giustiziare due latifondisti liberali di Ostuni, ed ordina il processo e la fucilazione di Vito Angelini, spia e liberale. L’agosto 1862 segna l’unione di tutte le bande pugliesi sotto il comando diretto di Romano, eletto “maggiore” delle truppe “francescane”, e la sua padronanza assolute delle campagne.
Nel contempo, si abbattono le prime sconfitte sulla banda. Il 5 gennaio 1863 sopraggiunge la fine. Rimasto con cinquanta fedelissimi, il Sergente Romano viene circondato nel bosco di Vallata dai Cavalleggeri di Saluzzo. Dopo una lotta accanita, combattuta anche a colpi di coltello, il Sergente muore con le armi in pugno sotto le numerose sciabolate dei “Nordisti”.
I vincitori espongono, per otto giorni, il suo cadavere fatto a pezzi, come monito. Ma i gioiesi e i cafoni dei dintorni, per otto giorni, si recano pregando sul cadavere martoriato, come ad un pellegrinaggio; mentre il visconte Oscar De Poli scrive sulla “Gazet de France” un brano di postumo omaggio alla memoria dell’eroico sergente legittimista.
Il Sergente Romano, con la sua vita e la sua morte, con i suoi ideali semplici ma saldi, rappresenta la guerriglia legittimista più pura, quella stessa di Borjès, Trezegnies, De Christen e Caracciolo. Il suo ricordo non si è ancora del tutto spento in terra di Bari. Ancor oggi, in alcune contrade del Tavoliere, può capitar di sentire dei vecchi contadini cantare l’antica strofetta: “C’amma fà de Garrebalde, ca iè mfame e traddeture Nui vulime ‘Re Borbone ca respette la Religgione”

Articolo pubblicato su Il Condor-giornale politico- nel 1996.

Nessun commento:

 
[Privacy]
Design by Free WordPress Themes | Bloggerized by Lasantha - Premium Blogger Themes | Hot Sonakshi Sinha, Car Price in India