giovedì 24 settembre 2009

Se Obama abdica con l'Iran costringerà Israele ad attaccare Teheran





di Bret Stephens


Gli eventi stanno rapidamente spingendo Israele verso un attacco preventivo contro gli impianti nucleari dell’Iran, un attacco che avverrà probabilmente la prossima primavera. L’operazione potrebbe essere un fallimento. Oppure rivelarsi un successo, spingendo il prezzo del petrolio a 300 dollari al barile, provocando una guerra in Medio Oriente e coinvolgendo i militari statunitensi. Allora perché l’amministrazione Obama sta facendo di tutto per accelerare questa escalation?

Alla riunione del G-8 in Italia, lo scorso luglio, il mese di settembre è stato fissato come ultima scadenza da imporre all’Iran per iniziare i negoziati sul suo programma nucleare. La settimana scorsa, l’Iran ha dato la sua risposta: no. Quello che Teheran ha offerto in cambio è un documento di cinque pagine che è l’equivalente diplomatico di un grande “vaffanculo”. Il documento inizia lamentando “i modi di pensare peccaminosi che prevalgono nelle relazioni internazionali” per poi offrire grandi discorsi su tutta una varietà di argomenti: la democrazia, i diritti umani, il disarmo, il terrorismo, “il rispetto per i diritti degli stati”, ed altri temi in cui l’Iran è certamente un modello. L’assenza più lampante è quella di una qualsiasi menzione del programma nucleare iraniano - giunto al cosiddetto “breakout point” - che secondo Mahmoud Ahmadinejad e il suo capo Ali Khamenei non è in discussione.

Cosa può fare un presidente statunitense di fronte a un documento destinato al fallimento? Cos’altro se non fare finta che non sia fallimentare? I negoziati cominciano il primo ottobre. Tutto questo non fa altro che contribuire a persuadere la leadership israeliana sul fatto che, quando il Presidente Obama definisce "inaccettabile" l'Iran nucleare, intende questa affermazione più o meno nello stesso modo di un genitore quando rimprovera in maniera inefficace un adolescente che si comporta male. Questa impressione viene rinforzata dal fatto che Obama ha deciso di togliere l’Iran dall'agenda della riunione del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite che presiederà il 24 settembre; dal fatto che il Segretario alla Difesa Robert Gates si è opposto pubblicamente ad attacchi contro le attrezzature nucleari dell’Iran; e dall’annuncio emesso dal governo russo che non sosterrà altre sanzioni contro l’Iran.

Insomma, la conclusione tra gli israeliani è che né l’amministrazione Obama né la “comunità internazionale” faranno niente per bloccare l’Iran. Quindi Israele ha seguito una strategia diversa, e sta cercando di spingere gli Stati Uniti a fermare, o almeno a ritardare, un attacco di Gerusalemme contro l'Iran, attraverso l'imposizione di sanzioni più dure. Perciò, diversamente dagli attacchi israeliani contro il reattore iracheno nel 1981 e quello siriano nel 2007, entrambi pianificati in assoluto segreto, gli israeliani hanno reso appositamente pubbliche le loro paure, intenzioni e capacità. Hanno mandato delle navi da guerra nel Canale di Suez in pieno giorno ed hanno effetuato esercitazioni di combattimento aereo a lunga portata. Sono stati insolitamente comunicativi nei loro briefing con i giornalisti dicendo ogni volta di essere convinti che saranno in grado di completare il lavoro.

Il problema, comunque, è che l’amministrazione americana non abbocca, e uno deve domandarsi perché. Forse Washingotn pensa che la diplomazia funzionerà, oppure che riuscirà a convincere gli israeliani a non attaccare. Oppure, può darsi che in realtà gli Usa desiderino che Israele attacchi senza dare la percezione che loro siano d'accordo. O forse non stanno prestando la giusta attenzione a quello che sta avvenendo. Ma Israele invece lo sta facendo. E più gli Stati Uniti rimandano la questione di affrontare seriamente l’Iran, più si avvicina e diventa probabile una incursione israeliana.

Un rapporto pubblicato dal Bipartisan Policy Center, firmato dal Generale in pensione Charles Ward, evidenzia che entro l’anno prossimo l’Iran sarà capace di “produrre armi di uranio arrichito... in meno di due mesi”. Ugualmente fondamentale, nella determinazione con cui si sta muovendo Israele, è la consegna di batterie anti-aeree S-300 prevista dalla Russia all’Iran: è quasi certo che Israele attaccherà prima che sia effettuata la consegna, senza curarsi che la bomba iraniana sia pronta fra due mesi o fra due anni.

L'attacco potrebbe avvantaggiare Israele, ma tutto dipende se avrà successo o meno. Certamente sarebbe nell'interesse dell’America che l’Iran non ottenga una capacità nucleare, sia reale che del cosiddetto “breakout”. Questo vale anche per il Medio Oriente in generale, dove non c’è bisogno di una rincorsa all'atomica che la capacità nucleare iraniana provocherebbe inevitabilmente...

Non è nell’interesse degli Stati Uniti che Israele diventi lo strumento per disarmare l’Iran. In primo luogo, la sua capacità di riuscirci è discutibile: gli strateghi israeliani stanno difondendo a mezzo voce l'ipotesi che, se anche l’attacco avesse successo, potrebbe esserci bisogno di ripeterlo fra qualche anno quando l’Iran svilupperà di nuovo la sua capacità nucleare. Per di più, è possible che l’Iran risponda a un attacco del genere non solo contro l’Israele, ma anche contro bersagli statunitensi in Iraq e nel Golfo Persico. Ma l'aspetto più importante è che, da parte degli Usa, provvedere attraverso un altro Stato alla risoluzione di questioni legate alla guerra e alla pace sarebbe un’abdicazione della propria responsabilità di superpotenza, nonostante l'alleanza che unisce Washington e Gerusalemme.

Il Presidente Obama ha ceduto la responsabilità politica verso l’Iran al Primo Ministro Netanyahu. Obama farebbe meglio a riprendersi questa responabilità, tenendo presente che la sua eloquenza non vale a molto con l’Iran - e ricordando anche un utile adagio romano: Si vis pacem, para bellum.

Tratto da The Wall Street Journal
Traduzione di Ashleigh Rose
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di Bret Stephens


Gli eventi stanno rapidamente spingendo Israele verso un attacco preventivo contro gli impianti nucleari dell’Iran, un attacco che avverrà probabilmente la prossima primavera. L’operazione potrebbe essere un fallimento. Oppure rivelarsi un successo, spingendo il prezzo del petrolio a 300 dollari al barile, provocando una guerra in Medio Oriente e coinvolgendo i militari statunitensi. Allora perché l’amministrazione Obama sta facendo di tutto per accelerare questa escalation?

Alla riunione del G-8 in Italia, lo scorso luglio, il mese di settembre è stato fissato come ultima scadenza da imporre all’Iran per iniziare i negoziati sul suo programma nucleare. La settimana scorsa, l’Iran ha dato la sua risposta: no. Quello che Teheran ha offerto in cambio è un documento di cinque pagine che è l’equivalente diplomatico di un grande “vaffanculo”. Il documento inizia lamentando “i modi di pensare peccaminosi che prevalgono nelle relazioni internazionali” per poi offrire grandi discorsi su tutta una varietà di argomenti: la democrazia, i diritti umani, il disarmo, il terrorismo, “il rispetto per i diritti degli stati”, ed altri temi in cui l’Iran è certamente un modello. L’assenza più lampante è quella di una qualsiasi menzione del programma nucleare iraniano - giunto al cosiddetto “breakout point” - che secondo Mahmoud Ahmadinejad e il suo capo Ali Khamenei non è in discussione.

Cosa può fare un presidente statunitense di fronte a un documento destinato al fallimento? Cos’altro se non fare finta che non sia fallimentare? I negoziati cominciano il primo ottobre. Tutto questo non fa altro che contribuire a persuadere la leadership israeliana sul fatto che, quando il Presidente Obama definisce "inaccettabile" l'Iran nucleare, intende questa affermazione più o meno nello stesso modo di un genitore quando rimprovera in maniera inefficace un adolescente che si comporta male. Questa impressione viene rinforzata dal fatto che Obama ha deciso di togliere l’Iran dall'agenda della riunione del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite che presiederà il 24 settembre; dal fatto che il Segretario alla Difesa Robert Gates si è opposto pubblicamente ad attacchi contro le attrezzature nucleari dell’Iran; e dall’annuncio emesso dal governo russo che non sosterrà altre sanzioni contro l’Iran.

Insomma, la conclusione tra gli israeliani è che né l’amministrazione Obama né la “comunità internazionale” faranno niente per bloccare l’Iran. Quindi Israele ha seguito una strategia diversa, e sta cercando di spingere gli Stati Uniti a fermare, o almeno a ritardare, un attacco di Gerusalemme contro l'Iran, attraverso l'imposizione di sanzioni più dure. Perciò, diversamente dagli attacchi israeliani contro il reattore iracheno nel 1981 e quello siriano nel 2007, entrambi pianificati in assoluto segreto, gli israeliani hanno reso appositamente pubbliche le loro paure, intenzioni e capacità. Hanno mandato delle navi da guerra nel Canale di Suez in pieno giorno ed hanno effetuato esercitazioni di combattimento aereo a lunga portata. Sono stati insolitamente comunicativi nei loro briefing con i giornalisti dicendo ogni volta di essere convinti che saranno in grado di completare il lavoro.

Il problema, comunque, è che l’amministrazione americana non abbocca, e uno deve domandarsi perché. Forse Washingotn pensa che la diplomazia funzionerà, oppure che riuscirà a convincere gli israeliani a non attaccare. Oppure, può darsi che in realtà gli Usa desiderino che Israele attacchi senza dare la percezione che loro siano d'accordo. O forse non stanno prestando la giusta attenzione a quello che sta avvenendo. Ma Israele invece lo sta facendo. E più gli Stati Uniti rimandano la questione di affrontare seriamente l’Iran, più si avvicina e diventa probabile una incursione israeliana.

Un rapporto pubblicato dal Bipartisan Policy Center, firmato dal Generale in pensione Charles Ward, evidenzia che entro l’anno prossimo l’Iran sarà capace di “produrre armi di uranio arrichito... in meno di due mesi”. Ugualmente fondamentale, nella determinazione con cui si sta muovendo Israele, è la consegna di batterie anti-aeree S-300 prevista dalla Russia all’Iran: è quasi certo che Israele attaccherà prima che sia effettuata la consegna, senza curarsi che la bomba iraniana sia pronta fra due mesi o fra due anni.

L'attacco potrebbe avvantaggiare Israele, ma tutto dipende se avrà successo o meno. Certamente sarebbe nell'interesse dell’America che l’Iran non ottenga una capacità nucleare, sia reale che del cosiddetto “breakout”. Questo vale anche per il Medio Oriente in generale, dove non c’è bisogno di una rincorsa all'atomica che la capacità nucleare iraniana provocherebbe inevitabilmente...

Non è nell’interesse degli Stati Uniti che Israele diventi lo strumento per disarmare l’Iran. In primo luogo, la sua capacità di riuscirci è discutibile: gli strateghi israeliani stanno difondendo a mezzo voce l'ipotesi che, se anche l’attacco avesse successo, potrebbe esserci bisogno di ripeterlo fra qualche anno quando l’Iran svilupperà di nuovo la sua capacità nucleare. Per di più, è possible che l’Iran risponda a un attacco del genere non solo contro l’Israele, ma anche contro bersagli statunitensi in Iraq e nel Golfo Persico. Ma l'aspetto più importante è che, da parte degli Usa, provvedere attraverso un altro Stato alla risoluzione di questioni legate alla guerra e alla pace sarebbe un’abdicazione della propria responsabilità di superpotenza, nonostante l'alleanza che unisce Washington e Gerusalemme.

Il Presidente Obama ha ceduto la responsabilità politica verso l’Iran al Primo Ministro Netanyahu. Obama farebbe meglio a riprendersi questa responabilità, tenendo presente che la sua eloquenza non vale a molto con l’Iran - e ricordando anche un utile adagio romano: Si vis pacem, para bellum.

Tratto da The Wall Street Journal
Traduzione di Ashleigh Rose

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