di Puttini Spartaco
Dal giorno in cui in Iran si sono tenute le elezioni presidenziali la televisione ed i media ci mostrano le immagini delle manifestazioni che si svolgono a Teheran contro l’esito del voto.
Lo scrutinio ha stabilito la riconferma di Ahmadinejad alla presidenza della Repubblica Islamica già al primo turno con il 64% dei voti. Secondo è arrivato, a notevole distanza, l’ex primo ministro Mussavi con il 34% dei voti. Ma Mussavi ha contestato i risultati elettorali lanciando accuse di brogli ed ha chiamato in piazza i suoi supporters. Da allora la capitale iraniana è stata attraversata da cortei imponenti per l’uno o per l’altro candidato ed è molestata da scontri sempre più gravi. La tensione è altissima.
I media occidentali riportano che il regime cerca di reprimere l’indignazione popolare che coinvolge principalmente i giovani e le donne, i veri soggetti repressi dalla teocrazia degli ayatollah; che il risultato delle elezioni è incredibile e che gli iraniani non ci possono credere; che per la prima volta dalla rivoluzione del 1979 il popolo sta sfidando il regime, soprattutto grazie ad internet.
Certo, qualcuno ammette che anche Ahmadinejad abbia i suoi sostenitori, ma si tratterebbe per lo più di contadini misogini, che vivono in campagna immersi da un tradizionalismo religioso che non accetta la modernità, lontani dalla capitale Teheran e dalle grandi città aperte alla “contaminazione” della globalizzazione. Nessuno si è preso la briga di intervistarli, trovando molto più interessanti i coraggiosi giovani che sfidano il dispotismo dei chierici ed ai quali viene dato in effetti molto spazio.
I giornali di casa nostra, solitamente inclini a demonizzare qualsiasi manifestazione si svolga da noi dove non vengono rispettate tutte le regole del bon-ton e dell’etichetta, mostrano una curiosa simpatia ed una benevola tolleranza nei confronti dei moti di Teheran, spesso degenerati in episodi di guerriglia urbana.
La nostra informazione ha finito così per appiattirsi sugli slogan della protesta senza cercare di offrire il minimo lume critico sull’intricata vicenda. In realtà per cercare di decifrare la difficile politica iraniana, notoriamente sconosciuta ai più, almeno in Occidente, bisognerebbe rinunciare ad accettare passivamente il punto di vista di una delle due parti.
Perché la situazione è molto, molto più complessa di quanto non venga sottolineato.
Contrariamente alle volgari sciocchezze sparse a piene mani dai media va tenuto presente che la Repubblica islamica iraniana non è affatto un monolite ma è caratterizzata da una curiosa architettura istituzionale basata su una pluralità di organismi che si controllano e bilanciano l’un l’altro in un sistema dove il potere è assai diffuso.
Alcuni fatti suggeriscono che è lecito chiedersi se la dinamica che abbiamo di fronte sia davvero caratterizzata da una mobilitazione popolare contro il regime (come ci viene raccontato) o se, piuttosto, stiamo assistendo a giochi di potere innescati dalla vertenza dei sostenitori di candidati massicciamente battuti alle elezioni che giocano il tutto e per tutto fiduciosi di poter contare su sostegni in alto, molto in alto.
Per cercare di capire quello che sta succedendo e che rischia di cambiare l’equilibrio in una scacchiera di fondamentale importanza per gli equilibri internazionali occorre fare alcuni passi indietro…
- L’attesa
Lasciando al beneficio del dubbio l’ipotesi che le presidenziali iraniane siano state viziate da brogli talmente ampi da stravolgere il responso popolare, giacché nessuno ha delle prove certe né in un senso né nell’altro, è lecito tornare alle attese che si avevano prima delle elezioni.
Contrariamente a ciò che è stato sostenuto ultimamente parte degli osservatori indipendenti non nutriva aspettative molto diverse da quelle configurate dall’esito del voto. La vittoria di Ahmadinejad era nell’aria. Se parliamo di sondaggi occorre tenere presente che in Iran essi sono assai rari e difficilmente al di fuori dal paese è possibile scrutare con certezza gli enigmatici segni della politica interna iraniana, perché la Repubblica Islamica voluta da Khomeini è una creatura che non si presta a facili categorie interpretative.
Tra gli studi effettuati prima del voto merita una particolare menzione quello di due studiosi americani, coraggiosamente pubblicato dal “Washington Post” dopo che era stato dato l’esito delle presidenziali e che erano stati denunciati i brogli da parte degli sconfitti.
Il sondaggio in questione è merito di Ken Ballen e Patrick Doherty[1], è stato realizzato in farsi dall’11 al 20 maggio in tutte le trenta province dell’Iran e presentava un margine d’errore di poco superiore al 3%.
Lo studio afferma inequivocabilmente che tre settimane prima del voto Ahmadinejad godeva di un margine di vantaggio di oltre 2 a 1 (addirittura superiore a quello con cui ha ufficialmente vinto le elezioni!). Inoltre il presidente uscente risultava in testa in tutte e 30 le province del paese, persino nelle province azere dove Mussavi avrebbe dovuto giocare in casa. Sono interessanti anche altre notazioni che mettono fortemente in dubbio l’immagine che è stata data degli avvenimenti iraniani qui in Occidente. “Gran parte dei commenti hanno rappresentato i giovani iraniani e Internet come precursori del cambiamento in queste elezioni. Ma il nostro sondaggio ha scoperto che solo un terzo degli iraniani hanno accesso a Internet, mentre, di tutti i gruppi di età, quello dei giovani fra i 18 e i 24 anni comprendeva il blocco di voti più forte a favore di Ahmadinejad”[2].
Lo studio in questione è particolarmente meritorio per due ragioni: per la sua estensione e per la sua profondità. Nei suoi dati essenziali sottolinea quanto gli osservatori della realtà iraniana già avrebbero dovuto sapere (qualora non avessero commesso l’errore di valutare Ahmadinejad coi loro occhi e coi loro parametri anziché con quelli del popolo iraniano) e smentisce alcune affermazioni che nella confusione di questi giorni sono state propalate ed hanno acquisito la forza dei luoghi comuni (che la città si contrappone alla campagna, che i giovani sono contro il presidente…).
Del resto l’ipotesi caldeggiata dai più di una spaccatura elettorale tra la capitale e la campagna non mi pare molto convincente. In primo luogo perché l’Iran non è un paese del quarto mondo dove ad una capitale enorme si oppone la campagna ma possiede varie città importanti e molto vivaci, anche dal punto di vista culturale (Qom, Isfahan, Shiraz, etc…) e poi perché, sempre restando con l’attenzione rivolta a Teheran, occorre ricordare che Ahmadinejad prima di diventare presidente è stato il sindaco della capitale iraniana e che è stata proprio Teheran a costituire il trampolino di lancio della sua carriera politica a livello nazionale. La logica vorrebbe che ci si chiedesse come mai tali fatti si siano prodotti se è vero ciò che dicono i sostenitori della tesi complottista delle elezioni truccate: vale a dire che la cosa per loro davvero inaccettabile e sospetta sia stata costituita dalla vittoria di Ahmadinejad anche nelle grandi città e nella stessa capitale.
Lo stesso voto giovanile non sembra rispondere al clichè diffuso dai media. Ahamdinejad (52 anni) è molto più giovane di Mussavi (che coi suoi 67 anni fa parte della vecchia guardia della rivoluzione del ’79); come mai un giovane dovrebbe riconoscersi di più in questo vecchio politico che è stato primo ministro all’epoca della guerra Iran-Iraq ben venti anni fa (!) e non nel presidente uscente, che è un volto relativamente nuovo della vita pubblica iraniana e che a dispetto della sua pia ed inflessibile religiosità è uomo senza peli sulla lingua e dissacrante anche nei confronti di molti esponenti di primo piano del clero sciita che domina il paese?
Del resto la politica che il presidente uscente ha condotto durante il suo primo mandato ha mostrato che egli è intenzionato a rispettare le promesse che aveva fatto al suo popolo e qualche risultato non disprezzabile lo ha prodotto (nonostante la grave crisi economica internazionale, la disoccupazione tradizionalmente e pericolosamente alta e gli effetti negativi dell’embargo statunitense e delle sanzioni).
Va in effetti notato che Ahmadinejad è riuscito a rafforzare il welfare estendendo l’assistenza medica gratuita, che ha aumentato notevolmente le pensioni più basse, che ha concesso sussidi agli strati indigenti della popolazione e che ha accordato crediti vantaggiosi alla piccole imprese agricole. La politica in favore del welfare, contro le privatizzazioni e contro la corruzione svolta dal presidente uscente perché non avrebbe dovuto pagare alle elezioni? Per quale vaga e contraddittoria piattaforma politica alternativa gli iraniani avrebbero dovuto mostrare preferenza?
Infine vi è la questione della sicurezza nazionale, che in Iran è argomento assai caldo. Non va dimenticato che gli iraniani hanno pagato un altissimo prezzo per la guerra che l’Iraq di Saddam Hussein aveva scatenato senza alcun preavviso contro di loro e che oggi Teheran è nel mirino di Israele (cioè di una potenza nucleare che ha più volte minacciato un attacco massiccio contro le principali città iraniane e contro le centrali nucleari) e resta sempre nella lista nera degli Usa. L’Iran è di fatto circondato da basi americane e gli iraniani sanno bene cosa succede oltre la frontiera, nell’Iraq occupato e trasformato in un immenso lager a cielo aperto dove si consumano i peggiori crimini contro l’umanità. L’Iran è inoltre molestato dalle varie organizzazioni terroristiche che, assoldate da qualche potenza straniera, compiono continuamente attentati all’interno del paese partendo dalle basi in Afghanistan, Pakistan ed Iraq. Durante la stessa campagna elettorale vi è stato un grosso attentato contro la Moschea di Zahedan nel sudest del paese. Anche la fermezza che Ahmadinejad ha mostrato nel gestire queste delicate situazioni tenendosi sempre fedele alla difesa della sovranità nazionale ed alla scelta antimperialista che fece Khomeini devono aver pagato in quanto a consenso guadagnato (e non solo tra le forze di sicurezza e gli apparati dello Stato).
Da questo punto di vista i suoi avversari sono stati molto più ambigui o lo hanno accusato di aver isolato il paese proprio quando è incontestabile che è con la sua presidenza che l’Iran ha tessuto rapporti strategici di primaria importanza con molti protagonisti di primo piano della vita internazionale (Russia, Cina, America latina, Pakistan, India, Turchia…).
Almeno sulla carta, la vittoria di Ahmadinejad non pareva essere irrefutabilmente impossibile od improbabile, anzi!
Nonostante quanto diffuso dai media non sono circonlati altri sondaggi condotti con altrettanta perizia di quello cui abbiamo poc’anzi accennato che formulavano altre previsioni. Solamente i rivali di Ahmadinejad dicevano di vantare sondaggi con risultati diversi.
Come ha sottolineato l’analista statunitense George Friedman, il mistero non riguarda come abbia fatto Ahmadinejad a farsi rieleggere ma come abbiano potuto i suoi avversari sperare di batterlo, se lo hanno sperato veramente.
- L’onda verde
E’ tuttavia indubbio che Mussavi goda di un suo bacino d’influenza, per quanto notevolmente minoritario. Sempre stando al sondaggio di Ballen e Doherty risulta che l’unico blocco di voti nei quali l’ex primo ministro risultava competitivo era costituito dagli iraniani più abbienti e dagli universitari. Il fronte “verde” che ha sostenuto Mussavi è dunque composto dalle fasce medio-alte della società iraniana che sono vogliose di vedere la fine delle vertenza con l’Occidente per inserirsi nel sistema internazionale e che sono profondamente critiche con le misure socio-economiche del governo di Ahmadinejad che chiede loro di sostenere le spese del welfare, che questi ceti (analogamente a quanto avviene in tutto il mondo) vedono come uno spreco. Le elezioni iraniane hanno segnalato infatti una spaccatura tra classi, con i ceti popolari schierati dietro al presidente e la borghesia più influenzata dall’Occidente a sostenere l’opposizione.
Politicamente a sostenere Mussavi si è trovata una complessa alleanza, raggruppata attorno al partito dei Chierici Combattenti (che in Occidente viene impropriamente definito “riformista”) che oggi ha stretto un accordo con alti esponenti politici e religiosi dell’establishment iraniano, a partire dal potentissimo ex presidente Alì Akbar Hashemi Rafsanjani. La dinamica in corso è dunque ben differente da uno scontro tra il popolo ed il potere ma rassomiglia di più ad una spaccatura al vertice del sistema politico iraniano con un’area che cerca di utilizzare il movimento nelle piazze (ma che a sua volta rischia di essere utilizzata).
Alla sua destra, per così dire, tale alleanza pare raccogliere anche spezzoni eversivi che non si riconoscono nell’assetto costituzionale della Repubblica islamica e che sono chiaramente pro-americani se non apertamente reazionari. Perché la rivoluzione islamica ha comunque offerto prospettive migliori di quelle che il popolo iraniano aveva sotto lo Scià ma coloro che erano coccolati dal vecchio regime non hanno mai smesso di covare sentimenti revanscisti. Secondo Thierry Meyssan, “Certo, all’epoca dello Scià, c’era una borghesia occidentalizzata che trovava più bella la vita. Essa mandava i suoi figli a seguire gli studi in Europa e sperperava senza limiti alle feste di Persepoli. La rivoluzione islamica ha abolito i suoi privilegi, oggi i suoi nipoti sono in piazza. Con il sostegno degli Stati Uniti. Vogliono riconquistare ciò di cui le loro famiglie sono state private e che non ha niente a che vedere con la libertà”[3].
A voler essere a tutti i costi sospettosi ed a voler vedere per forza un complotto dietro alle elezioni iraniane vengono in effetti ben altri dubbi.
Il ruolino di marcia degli eventi di questi giorni pare infatti rassomigliare in maniera preoccupante alla classica dinamica dei putsch colorati (o delle rivoluzioni colorate) che dietro alla regia anglo-americana abbiamo visto in corso in vari paesi, dall’Ucraina alla Georgia, all’ex-Yugoslavia[4].
Anche in questo caso il candidato più vicino all’Occidente ha sostenuto di essere il vincitore delle elezioni ad urne ancora aperte ed anche in questo caso quando sono stati diffusi i risultati ufficiali ha gridato allo scandalo dei brogli ed ha chiamato i suoi sostenitori nelle strade. Anche in questo caso ha svolto un grande ruolo Internet (nell’organizzare, reclamizzare e tener desta la mobilitazione). Anche in questo caso, infine, la vicenda è stata strumentalizzata ampiamente in Occidente al fine di indottrinare l’opinione pubblica ed esercitare pressioni sul paese preso di mira. Risultano poi chiaramente provocatori e faziosi gli appelli dei manifestanti ad uccidere il “tiranno”, come essi chiamano il presidente Ahmadinejad, (che in Iran gode di un potere assai più limitato del presidente degli Usa o del primo ministro in molti paesi occidentali, giusto per contestualizzare).
La differenza tra questo scenario ed altri precedenti risiede nel fatto che questa volta Washington si è rifiutata, almeno ufficialmente, di prendere posizione con i rivoltosi.
Nelle sue dichiarazioni Obama ha intelligentemente sostenuto che gli Usa non si sarebbero ingeriti negli affari interni iraniani. Almeno fino a che non è apparsa inequivocabile la determinazione della Guida Suprema della Rivoluzione, ayatollah Alì Khamenei, a porre fine alle proteste di piazza ed ai disordini. Questa scelta statunitense però va letta tenendo conto della situazione politica concreta con la quale l’Amministrazione Obama si confronta in Iran. Se Obama avesse espresso il suo sostegno all’onda verde di Mussavi avrebbe commesso un’imprudenza al limite del controproducente. Il popolo iraniano in effetti nella sua stragrande maggioranza è fortemente patriottico ed orgoglioso ed è contrario a qualsiasi ingerenza straniera; in modo particolare gli americani e gli inglesi non godono di grande popolarità a causa dei passati trascorsi neocoloniali.
E’ corsa però la notizia che il Dipartimento di Stato Usa abbia chiesto a “Twitter” di rimandare un intervento di manutenzione sulla rete con l’esplicita motivazione che Twitter serviva ai contestatori iraniani per organizzare la loro sedizione. Una richiesta, questa, altamente significativa.
Sarebbe tuttavia fuorviante vedere in questi moti solamente una “contro-rivoluzione colorata”, aspetto comunque presente, perché la partita che si sta giocando a Teheran è complicata dal braccio di ferro che vede contrapporsi tra loro gli ayatollah; una contrapposizione che potrebbe rischiare di aprire gli argini della diga all’onda verde.
- Il braccio di ferro dietro le quinte
L’ayatollah Alì Khamenei è la Guida Suprema della Rivoluzione, la carica posta al vertice dell’architettura istituzionale della Repubblica islamica iraniana. Il suo potere, per quanto grande, non è tuttavia illimitato, sia perché la Costituzione iraniana è caratterizzata dalla presenza di numerosi organismi e contrappesi che si bilanciano e controllano a vicenda (ed in ciò è tutto fuorché un regime dispotico), sia perché in politica conta anche, se non soprattutto, il potere nella società reale. L’eminenza grigia della politica iraniana è l’ayatollah Alì Akbar Hashemi Rafsanjani, ex presidente della Repubblica, ex ministro della guerra durante il conflitto con l’Iraq ed attualmente alla guida del Consiglio degli Esperti (l’assemblea composta da 86 dotti eletti dal popolo che nomina e può revocare la Guida Suprema). Il clan stretto attorno a Rafsanjani possiede un vasto impero finanziario in Iran, dalle fondazioni religiose, ad imprese di import-export, ad una rete di università private che copre tutto il paese e che inquadra circa tre milioni di studenti. Ma è soprattutto l’estesa rete di rapporti politici che Rafsanjani ha abilmente tessuto durante la sua lunga carriera politica che fa impressione. Rafsanjani ha un rapporto privilegiato con i bazari, ha suoi uomini nella burocrazia e nella giustizia (a tutti i livelli), possiede un rapporto preferenziale con l’influente clero di Qom, gode di un notevole ascendente su parte del parlamento e dirige de facto il Consiglio degli Esperti. Nemmeno il Corpo dei Guardiani della Rivoluzione, feudo privilegiato di Khamenei, è completamente estraneo alla sua influenza. Non rappresenta un mistero che Rafsanjani si oppone alla politica economica e sociale sviluppata da Ahmadinejad, che gode invece dell’appoggio della Guida Suprema. Rafsanjani è inoltre infastidito dalla campagna moralizzatrice portata avanti dal giovane presidente populista. In particolare l’ex presidente si è opposto al tentativo di Ahmadinejad di porre sotto controllo il commercio estero e di limitare l’influenza delle università private; ma è soprattutto la scelta di strappare al clan di Rafsanjani il ministero chiave del petrolio che ha alimentato lo scontro per procura tra Khamenei e Rafsanjani. Va infatti ricordato che al momento della formazione del primo esecutivo guidato da Ahmadinejad 4 anni fa l’appena eletto presidente si vide bocciare più volte dal parlamento il ministro che aveva nominato al petrolio. Solo successivamente riuscì a far passare un suo uomo alla guida della National Iranian Oil Company. La politica di Ahmadinejad ha cercato di erodere la base di potere dell’ex presidente ed ha chiamato i ceti medio-alti del paese alle proprie responsabilità per sostenere una politica socio-economica re-distributiva. A questo punto la polemica di Ahmadinejad contro coloro che hanno servito la rivoluzione per servirsene ed accumulare per sé e le proprie famiglie consistenti fortune è cresciuta, ed è cresciuta l’ostilità di Rafsanjani da un lato e dei ceti borghesi del nord di Teheran dall’altro verso il presidente uscente e verso il suo mentore, Alì Khamenei.
La campagna elettorale presidenziale del 2009 ha segnato una recrudescenza nella lotta per il potere interna al regime degli ayatollah.
Durante la campagna elettorale Ahmadinejad ha difeso a spada tratta la sua politica di sostegno alle classi meno abbienti dalle critiche dei candidati di opposizione (in particola di Mussavi) e questo ha giocato sicuramente a suo vantaggio visto che sono molti gli iraniani che beneficiano della assistenza del governo. Parimenti deve aver giocato a sfavore di Mussavi, che non poteva rappresentare in maniera più plastica il suo ruolo di rappresentante di una minoranza benestante aliena alle principali esigenze della nazione. Ma l’affondo di Ahmadinejad è arrivato sulla questione della corruzione allorché egli ha detto chiaramente nel corso di un dibattito televisivo che dietro Mussavi c’era Rafsanjani e che il potente ex presidente e la sua famiglia avevano beneficiato della loro posizione politica per procurarsi vantaggi personali. Rafsanjani è stato inoltre accusato di trescare con l’Arabia Saudita per rovesciare il governo. A queste accuse pesanti l’ex presidente ha risposto con una lettera aperta pubblicata sui principali giornali del paese dove ha chiesto all’ayatollah Khamenei di prendere posizione su questo scandalo. E la Guida Suprema ha taciuto in modo complice.
Ahmadinejad ha giocato una partita spregiudicata: se da un lato le accuse di corruzione rivolte ad uno dei massimi esponenti della gerarchia religiosa e politica del paese gli hanno permesso di guadagnare molti voti, intercettando così una questione sulla quale le classi popolari iraniane sono molto sensibili, dall’altro ha rafforzato la convinzione dei gruppi d’interessi da lui toccati a sbarrare la strada ad un suo secondo mandato.
Rafsanjani ed il suo clan hanno così saldato il loro sodalizio con Mussavi, determinati a giocare fino in fondo la partita per il potere e sicuri di poter contare su un elemento di pressione nei confronti di Khamenei: la minaccia di una destituzione della Guida Suprema da parte del Consiglio degli Esperti, come ultima ratio qualora questi avesse resistito alla piazza difendendo l’elezione di Ahmadinejad.
- Sul filo del rasoio
Nel precipitare della crisi iraniana si sono così intersecate tre partite tra loro correlate: quella tra la borghesia agiata e le classi popolari, quella tra Rafsanjani e Khamenei e quella della collocazione internazionale del paese nella quale si sono probabilmente mischiati i sostenitori occidentali di uno scenario da “rivoluzione colorata”. Sono queste tre dinamiche che hanno gonfiato l’onda verde di Mussavi.
Tutto il mondo è a conoscenza dell’importanza strategica dell’Iran per gli equilibri internazionali. L’antica Persia è una Potenza regionale che ha il raro privilegio di influenzare due scacchiere adiacenti ed importantissime: il Medio Oriente e l’Asia centrale. L’Iran è l’unica Potenza di secondo rango che ha questa possibilità, è il baricentro della “via della seta”, per non parlare delle ricchezze del suo sottosuolo: ecco perché un cambiamento a Teheran può scuotere il mondo.
In questi giorni tutti hanno seguito gli sviluppi della crisi iraniana tenendo il fiato sospeso: dalle capitali arabe filo-occidentali, che hanno sempre guardato indispettite la formula iraniana della rivoluzione islamica (perché loro la religione la avevano sempre utilizzata in funzione conservatrice e reazionaria contro i movimenti rivoluzionari), ai paesi alleati dell’Iran che tentano di contenere l’imperialismo statunitense (ed allora si comprende l’uscita di Chavez in difesa dell’elezione di Ahmadinejad), alle nazioni che si stanno emancipando dalla tutela americana e che guardano con apprensione all’ipotesi di un dilagare di golpe colorati (è il caso di Gul ed Erdogan in Turchia, che non a caso sono stati i primi a congratularsi con il presidente rieletto), ai pesi massimi eurasiatici (Russia e Cina) che hanno incontrato Ahmadnejad al vertice dell’OCS che si teneva in quei giorni.
In particolare la Cina ha rivolto, dalle colonne di un suo influente giornale, un “consiglio” agli Usa a non ripetere l’errore di macchinare per rovesciare un altro presidente democraticamente eletto come fecero nel 1953 con Mossadeq perché gli iraniani non li avrebbero più perdonati e la regione avrebbe preso fuoco[5]. Una sottolineatura, quest’ultima, indicativa di come nel mondo si guardi ai fatti di Teheran.
Molti osservatori hanno poi sottolineato che quando era primo ministro negli anni ‘80 Mussavi ebbe modo di costruire importanti relazioni con gli ambienti occidentali. E’ il parere dell’esule iraniano Taheri, che ha ricordato come furono proprio due uomini di Mussavi a gestire la patata bollente del rilascio degli ostaggi dell’ambasciata Usa di Teheran e dei negoziati segreti con l’amministrazione Reagan in merito all’affaire Iran-Contra[6]. Poi la carriera di Mussavi venne interrotta, paradossalmente proprio da Rafsanjani nell’89, ma non abbiamo prove che certi rapporti non siano rimasti attivi. E’ quanto pare supporre un uomo chiave dei repubblicani statunitensi in quel periodo, Paul Craig Roberts (che fu sottosegretario al Tesoro proprio con Reagan). Egli sostiene che “è nel dominio del possibile che Mir Hossein Mussavi sia un agente comprato e pagato dal governo USA”[7]. Secondo lui infatti le elezioni sarebbero state palesemente regolari, solo che “se si tratta dell’egemonia americana su altri popoli i fatti e la verità non contano. Menzogna e propaganda sono la regola”[8] e cita un ex comandante militare pakistano che sostiene di aver prove irrefutabili che gli Usa hanno interferito nelle elezioni iraniane dispensando la bellezza di 400 milioni di dollari per finanziare la sommossa[9].
Beninteso, queste testimonianze non dimostrano di per sé granché ma segnalano che nell’ambito degli esperti l’impressione che vi sia stato un tentativo di golpe colorato appoggiato dagli anglo-americani è potentemente ed estesamente radicata, anche presso chi non può essere tacciato di pregiudizi anti-americani.
Crediamo comunque che i fatti di Teheran non siano pienamente comprensibili senza tener conto delle dinamiche interne alla società ed alla politica iraniana cui si accennava prima. Lo scenario internazionale assume un significato solo in correlazione con lo scontro sociale e politico nella Repubblica Islamica. Senza una spaccatura al vertice del potere in Iran l’onda verde non avrebbe mai trovato lo spazio per andare così lontano e provocare così tanti disordini.
Pur di evitare che Ahmadinejad e Khamenei rafforzino la loro presa sul potere e si lancino nella campagna moralizzatrice che potrebbe essergli potenzialmente fatale Rafsanjani ha deciso di sfruttare i moti di piazza, una scelta che pone la Repubblica islamica su un piano inclinato. L’esito delle elezioni del 12 giugno è stato in effetti un durissimo colpo per lui e per i suoi accoliti. Ma stringere un’intesa coi settori legati a Mussavi e con quanti si sono nascosti dietro le proteste per rovesciare il regime può essere molto pericoloso.
Trenta anni fa la Rivoluzione islamica di Khomeini fu caratterizzata anche da una forte spinta egualitaria; nonostante le moltissime conquiste che gli iraniani hanno fatto dalla fine del regime dello Scià quella spinta si era andata affievolendo, finendo così con l’aprire delle incognite sulla solidità del sistema, almeno in prospettiva. Ahmadinejad sembra aver restituito alla Repubblica islamica quella vocazione egualitaria ed un rapporto più stretto con le masse grazie alla sua politica radicale e populista. E’ forse principalmente per questo che l’ayatollah Khamenei sembra intenzionato a difenderlo fino in fondo.
Il discorso che la Guida Suprema ha tenuto durante la preghiera del venerdì 19 giugno è stato definito storico da molti osservatori. In quell’occasione Khamenei ha sostenuto la regolarità del voto e della rielezione di Ahmadinejad ed ha detto che le scelte si fanno nelle urne e non nelle strade. Egli ha anche detto che d’ora in avanti coloro che non rientreranno nei ranghi si assumeranno la colpa delle conseguenze dei loro atti. Khamenei ha sottolineato che è normale avere visioni politiche difformi nell’affrontare i problemi del paese ma che non si può lasciare che tali divergenze tracimino negli scontri di piazza con il rischio di mettere in discussione la Costituzione della Repubblica e la sovranità dell’Iran. Secondo osservatori ben informati Khamenei, uomo tradizionalmente molto cauto, avrebbe assunto una posizione così ferma anche perché il giorno precedente il Consiglio degli Esperti si era riunito ed aveva segnato la sconfitta di Rafsanjani. Ben 50 faqih avrebbero infatti riconfermato la loro fiducia nella “sagace direzione della Guida Suprema” esprimendo la certezza che Khamenei sarebbe riuscito a salvare il paese dalle macchinazioni dei nemici dell’Iran. A quel punto le armi di Rafsanjani erano spuntate[10].
Ma Khamenei ha anche fatto un’apertura a Rafsanjani, con il chiaro intento di isolare gli estremisti della rivolta verde e tagliare i loro legami all’interno del regime. Egli ha difeso l’ex presidente dalle accuse di corruzione e ne ha menzionato i meriti avuti durante la Rivoluzione. Non ha però accennato alle accuse rivoltegli in merito all’ipotetico complotto coi sauditi e non ha fatto menzione delle accuse di corruzione rivolte alla sua famiglia. Evidentemente il vecchio ayatollah vuole riservarsi la possibilità di giocare alcune carte pesanti qualora il potente rivale non addivenga a più miti consigli; non vuole tuttavia dargli l’impressione di averlo messo con le spalle al muro per evitare colpi di testa. Rafsanjani dovrà soppesare con grande attenzione le sue prossime mosse.
Per tutta la crisi è rimasto trincerato in un imbarazzato silenzio. Solamente il 29 giugno, durante una commemorazione pubblica, ha espresso il suo apprezzamento per l’opera svolta da Khamenei per far ricontare parte delle schede elettorali. Sebbene il riconteggio non possa in alcun modo modificare l’esito del voto e sia una misura puramente platonica Rafsanjani ha detto di apprezzare questa scelta perché tende al chiarimento ed al ristabilimento della fiducia nel sistema politico. Ma le sue parole più significative sono state rivolte alle manifestazioni, quando ha fatto allusione alle oscure tresche imbastite da Potenze straniere per creare una frattura tra il popolo e il regime.
Forse questa uscita presuppone un accomodamento con Khamenei e l’accettazione del dato di fatto: che la fronda è stata fermata. Resta da vedere al prezzo di quale compromesso e per quanto tempo durerà la bonaccia.
E’ presto per dire se questa sconfitta segna la fine della carriera di Rafsanjani ma sicuramente Khamenei ha saputo ribadire il suo controllo della situazione, parando la sfida che gli era stata lanciata. Ahmadinejad sembra uscito rafforzato dalla prova e può sfruttare la paura delle trame anglo-americane contro la fronda. L’onda verde di Mussavi sembra destinata alla risacca. Incapace di allargarsi oltre i ristretti settori benestanti del nord di Teheran sembra non poter più contare nemmeno sulla complicità di parte del potere. Gli apparati dello Stato, infine, sono rimasti fedeli alla Repubblica e non si sono lasciati attraversare da lacerazioni. Si può dire che la fronda sia stata fermata e che la fase più pericolosa per la Repubblica islamica sia ormai passata?
Alcuni segnali lo lasciano presagire, ma gli scontri di piazza potrebbero lasciare il posto ad una destabilizzazione pericolosa. Quello che è certo è che, comunque vada a finire, la Repubblica islamica porterà il segno di queste lacerazioni per parecchio tempo.
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[1] Ken Ballen è presidente di un istituto specializzato nello studio dell’estremismo, Patrick Doherty è il vice direttore dell’”American Strategy Program” presso la “New America Foundation”. La fonte originale dell’articolo qui citato è www.washingtonpost.com ma l’articolo è disponibile anche in italiano su: www.eurasia-rivista.org con il titolo: Il popolo iraniano parla; trad. it. di Ornella Sangiovanni.
[2] K. Ballen, P. Doherty, Il popolo iraniano parla; www.eurasia-rivista.org 16 giugno 2009
[3] T. Meyssan, Pourquoi devrais-je mépriser la choix des iraniens?; in : www.voltairenet.org 21 giugno 2009
[4] La tesi della “rivoluzione colorata” è sostenuta tra gli altri da: E. Golinger, La “rivoluzione verde”; in: www.lernesto.it 20 giugno 2009 trad. it. di M. Gemma
[5] M.K. Bhadrakumar, Beijing cautions US over Iran; in: “Asia Times Online” 20 giugno 2009
[6] M.K. Bhadrakumar, “Color” revolution fizzles in Iran; in: Asia Times Ondine” 23 giugno 2009
[7] P. Craig Roberts, Pourquoi et comment les Etats-Unis cherchent à detsbiliser l’Iran?; in : www.geostrategie.com 20 giugno 2009
[8] Ibidem
[9] Ibidem
[10] M.K. Bhadrakumar, “Color” revolution; op. cit.
Fonte:Resisitenze.org
Dal giorno in cui in Iran si sono tenute le elezioni presidenziali la televisione ed i media ci mostrano le immagini delle manifestazioni che si svolgono a Teheran contro l’esito del voto.
Lo scrutinio ha stabilito la riconferma di Ahmadinejad alla presidenza della Repubblica Islamica già al primo turno con il 64% dei voti. Secondo è arrivato, a notevole distanza, l’ex primo ministro Mussavi con il 34% dei voti. Ma Mussavi ha contestato i risultati elettorali lanciando accuse di brogli ed ha chiamato in piazza i suoi supporters. Da allora la capitale iraniana è stata attraversata da cortei imponenti per l’uno o per l’altro candidato ed è molestata da scontri sempre più gravi. La tensione è altissima.
I media occidentali riportano che il regime cerca di reprimere l’indignazione popolare che coinvolge principalmente i giovani e le donne, i veri soggetti repressi dalla teocrazia degli ayatollah; che il risultato delle elezioni è incredibile e che gli iraniani non ci possono credere; che per la prima volta dalla rivoluzione del 1979 il popolo sta sfidando il regime, soprattutto grazie ad internet.
Certo, qualcuno ammette che anche Ahmadinejad abbia i suoi sostenitori, ma si tratterebbe per lo più di contadini misogini, che vivono in campagna immersi da un tradizionalismo religioso che non accetta la modernità, lontani dalla capitale Teheran e dalle grandi città aperte alla “contaminazione” della globalizzazione. Nessuno si è preso la briga di intervistarli, trovando molto più interessanti i coraggiosi giovani che sfidano il dispotismo dei chierici ed ai quali viene dato in effetti molto spazio.
I giornali di casa nostra, solitamente inclini a demonizzare qualsiasi manifestazione si svolga da noi dove non vengono rispettate tutte le regole del bon-ton e dell’etichetta, mostrano una curiosa simpatia ed una benevola tolleranza nei confronti dei moti di Teheran, spesso degenerati in episodi di guerriglia urbana.
La nostra informazione ha finito così per appiattirsi sugli slogan della protesta senza cercare di offrire il minimo lume critico sull’intricata vicenda. In realtà per cercare di decifrare la difficile politica iraniana, notoriamente sconosciuta ai più, almeno in Occidente, bisognerebbe rinunciare ad accettare passivamente il punto di vista di una delle due parti.
Perché la situazione è molto, molto più complessa di quanto non venga sottolineato.
Contrariamente alle volgari sciocchezze sparse a piene mani dai media va tenuto presente che la Repubblica islamica iraniana non è affatto un monolite ma è caratterizzata da una curiosa architettura istituzionale basata su una pluralità di organismi che si controllano e bilanciano l’un l’altro in un sistema dove il potere è assai diffuso.
Alcuni fatti suggeriscono che è lecito chiedersi se la dinamica che abbiamo di fronte sia davvero caratterizzata da una mobilitazione popolare contro il regime (come ci viene raccontato) o se, piuttosto, stiamo assistendo a giochi di potere innescati dalla vertenza dei sostenitori di candidati massicciamente battuti alle elezioni che giocano il tutto e per tutto fiduciosi di poter contare su sostegni in alto, molto in alto.
Per cercare di capire quello che sta succedendo e che rischia di cambiare l’equilibrio in una scacchiera di fondamentale importanza per gli equilibri internazionali occorre fare alcuni passi indietro…
- L’attesa
Lasciando al beneficio del dubbio l’ipotesi che le presidenziali iraniane siano state viziate da brogli talmente ampi da stravolgere il responso popolare, giacché nessuno ha delle prove certe né in un senso né nell’altro, è lecito tornare alle attese che si avevano prima delle elezioni.
Contrariamente a ciò che è stato sostenuto ultimamente parte degli osservatori indipendenti non nutriva aspettative molto diverse da quelle configurate dall’esito del voto. La vittoria di Ahmadinejad era nell’aria. Se parliamo di sondaggi occorre tenere presente che in Iran essi sono assai rari e difficilmente al di fuori dal paese è possibile scrutare con certezza gli enigmatici segni della politica interna iraniana, perché la Repubblica Islamica voluta da Khomeini è una creatura che non si presta a facili categorie interpretative.
Tra gli studi effettuati prima del voto merita una particolare menzione quello di due studiosi americani, coraggiosamente pubblicato dal “Washington Post” dopo che era stato dato l’esito delle presidenziali e che erano stati denunciati i brogli da parte degli sconfitti.
Il sondaggio in questione è merito di Ken Ballen e Patrick Doherty[1], è stato realizzato in farsi dall’11 al 20 maggio in tutte le trenta province dell’Iran e presentava un margine d’errore di poco superiore al 3%.
Lo studio afferma inequivocabilmente che tre settimane prima del voto Ahmadinejad godeva di un margine di vantaggio di oltre 2 a 1 (addirittura superiore a quello con cui ha ufficialmente vinto le elezioni!). Inoltre il presidente uscente risultava in testa in tutte e 30 le province del paese, persino nelle province azere dove Mussavi avrebbe dovuto giocare in casa. Sono interessanti anche altre notazioni che mettono fortemente in dubbio l’immagine che è stata data degli avvenimenti iraniani qui in Occidente. “Gran parte dei commenti hanno rappresentato i giovani iraniani e Internet come precursori del cambiamento in queste elezioni. Ma il nostro sondaggio ha scoperto che solo un terzo degli iraniani hanno accesso a Internet, mentre, di tutti i gruppi di età, quello dei giovani fra i 18 e i 24 anni comprendeva il blocco di voti più forte a favore di Ahmadinejad”[2].
Lo studio in questione è particolarmente meritorio per due ragioni: per la sua estensione e per la sua profondità. Nei suoi dati essenziali sottolinea quanto gli osservatori della realtà iraniana già avrebbero dovuto sapere (qualora non avessero commesso l’errore di valutare Ahmadinejad coi loro occhi e coi loro parametri anziché con quelli del popolo iraniano) e smentisce alcune affermazioni che nella confusione di questi giorni sono state propalate ed hanno acquisito la forza dei luoghi comuni (che la città si contrappone alla campagna, che i giovani sono contro il presidente…).
Del resto l’ipotesi caldeggiata dai più di una spaccatura elettorale tra la capitale e la campagna non mi pare molto convincente. In primo luogo perché l’Iran non è un paese del quarto mondo dove ad una capitale enorme si oppone la campagna ma possiede varie città importanti e molto vivaci, anche dal punto di vista culturale (Qom, Isfahan, Shiraz, etc…) e poi perché, sempre restando con l’attenzione rivolta a Teheran, occorre ricordare che Ahmadinejad prima di diventare presidente è stato il sindaco della capitale iraniana e che è stata proprio Teheran a costituire il trampolino di lancio della sua carriera politica a livello nazionale. La logica vorrebbe che ci si chiedesse come mai tali fatti si siano prodotti se è vero ciò che dicono i sostenitori della tesi complottista delle elezioni truccate: vale a dire che la cosa per loro davvero inaccettabile e sospetta sia stata costituita dalla vittoria di Ahmadinejad anche nelle grandi città e nella stessa capitale.
Lo stesso voto giovanile non sembra rispondere al clichè diffuso dai media. Ahamdinejad (52 anni) è molto più giovane di Mussavi (che coi suoi 67 anni fa parte della vecchia guardia della rivoluzione del ’79); come mai un giovane dovrebbe riconoscersi di più in questo vecchio politico che è stato primo ministro all’epoca della guerra Iran-Iraq ben venti anni fa (!) e non nel presidente uscente, che è un volto relativamente nuovo della vita pubblica iraniana e che a dispetto della sua pia ed inflessibile religiosità è uomo senza peli sulla lingua e dissacrante anche nei confronti di molti esponenti di primo piano del clero sciita che domina il paese?
Del resto la politica che il presidente uscente ha condotto durante il suo primo mandato ha mostrato che egli è intenzionato a rispettare le promesse che aveva fatto al suo popolo e qualche risultato non disprezzabile lo ha prodotto (nonostante la grave crisi economica internazionale, la disoccupazione tradizionalmente e pericolosamente alta e gli effetti negativi dell’embargo statunitense e delle sanzioni).
Va in effetti notato che Ahmadinejad è riuscito a rafforzare il welfare estendendo l’assistenza medica gratuita, che ha aumentato notevolmente le pensioni più basse, che ha concesso sussidi agli strati indigenti della popolazione e che ha accordato crediti vantaggiosi alla piccole imprese agricole. La politica in favore del welfare, contro le privatizzazioni e contro la corruzione svolta dal presidente uscente perché non avrebbe dovuto pagare alle elezioni? Per quale vaga e contraddittoria piattaforma politica alternativa gli iraniani avrebbero dovuto mostrare preferenza?
Infine vi è la questione della sicurezza nazionale, che in Iran è argomento assai caldo. Non va dimenticato che gli iraniani hanno pagato un altissimo prezzo per la guerra che l’Iraq di Saddam Hussein aveva scatenato senza alcun preavviso contro di loro e che oggi Teheran è nel mirino di Israele (cioè di una potenza nucleare che ha più volte minacciato un attacco massiccio contro le principali città iraniane e contro le centrali nucleari) e resta sempre nella lista nera degli Usa. L’Iran è di fatto circondato da basi americane e gli iraniani sanno bene cosa succede oltre la frontiera, nell’Iraq occupato e trasformato in un immenso lager a cielo aperto dove si consumano i peggiori crimini contro l’umanità. L’Iran è inoltre molestato dalle varie organizzazioni terroristiche che, assoldate da qualche potenza straniera, compiono continuamente attentati all’interno del paese partendo dalle basi in Afghanistan, Pakistan ed Iraq. Durante la stessa campagna elettorale vi è stato un grosso attentato contro la Moschea di Zahedan nel sudest del paese. Anche la fermezza che Ahmadinejad ha mostrato nel gestire queste delicate situazioni tenendosi sempre fedele alla difesa della sovranità nazionale ed alla scelta antimperialista che fece Khomeini devono aver pagato in quanto a consenso guadagnato (e non solo tra le forze di sicurezza e gli apparati dello Stato).
Da questo punto di vista i suoi avversari sono stati molto più ambigui o lo hanno accusato di aver isolato il paese proprio quando è incontestabile che è con la sua presidenza che l’Iran ha tessuto rapporti strategici di primaria importanza con molti protagonisti di primo piano della vita internazionale (Russia, Cina, America latina, Pakistan, India, Turchia…).
Almeno sulla carta, la vittoria di Ahmadinejad non pareva essere irrefutabilmente impossibile od improbabile, anzi!
Nonostante quanto diffuso dai media non sono circonlati altri sondaggi condotti con altrettanta perizia di quello cui abbiamo poc’anzi accennato che formulavano altre previsioni. Solamente i rivali di Ahmadinejad dicevano di vantare sondaggi con risultati diversi.
Come ha sottolineato l’analista statunitense George Friedman, il mistero non riguarda come abbia fatto Ahmadinejad a farsi rieleggere ma come abbiano potuto i suoi avversari sperare di batterlo, se lo hanno sperato veramente.
- L’onda verde
E’ tuttavia indubbio che Mussavi goda di un suo bacino d’influenza, per quanto notevolmente minoritario. Sempre stando al sondaggio di Ballen e Doherty risulta che l’unico blocco di voti nei quali l’ex primo ministro risultava competitivo era costituito dagli iraniani più abbienti e dagli universitari. Il fronte “verde” che ha sostenuto Mussavi è dunque composto dalle fasce medio-alte della società iraniana che sono vogliose di vedere la fine delle vertenza con l’Occidente per inserirsi nel sistema internazionale e che sono profondamente critiche con le misure socio-economiche del governo di Ahmadinejad che chiede loro di sostenere le spese del welfare, che questi ceti (analogamente a quanto avviene in tutto il mondo) vedono come uno spreco. Le elezioni iraniane hanno segnalato infatti una spaccatura tra classi, con i ceti popolari schierati dietro al presidente e la borghesia più influenzata dall’Occidente a sostenere l’opposizione.
Politicamente a sostenere Mussavi si è trovata una complessa alleanza, raggruppata attorno al partito dei Chierici Combattenti (che in Occidente viene impropriamente definito “riformista”) che oggi ha stretto un accordo con alti esponenti politici e religiosi dell’establishment iraniano, a partire dal potentissimo ex presidente Alì Akbar Hashemi Rafsanjani. La dinamica in corso è dunque ben differente da uno scontro tra il popolo ed il potere ma rassomiglia di più ad una spaccatura al vertice del sistema politico iraniano con un’area che cerca di utilizzare il movimento nelle piazze (ma che a sua volta rischia di essere utilizzata).
Alla sua destra, per così dire, tale alleanza pare raccogliere anche spezzoni eversivi che non si riconoscono nell’assetto costituzionale della Repubblica islamica e che sono chiaramente pro-americani se non apertamente reazionari. Perché la rivoluzione islamica ha comunque offerto prospettive migliori di quelle che il popolo iraniano aveva sotto lo Scià ma coloro che erano coccolati dal vecchio regime non hanno mai smesso di covare sentimenti revanscisti. Secondo Thierry Meyssan, “Certo, all’epoca dello Scià, c’era una borghesia occidentalizzata che trovava più bella la vita. Essa mandava i suoi figli a seguire gli studi in Europa e sperperava senza limiti alle feste di Persepoli. La rivoluzione islamica ha abolito i suoi privilegi, oggi i suoi nipoti sono in piazza. Con il sostegno degli Stati Uniti. Vogliono riconquistare ciò di cui le loro famiglie sono state private e che non ha niente a che vedere con la libertà”[3].
A voler essere a tutti i costi sospettosi ed a voler vedere per forza un complotto dietro alle elezioni iraniane vengono in effetti ben altri dubbi.
Il ruolino di marcia degli eventi di questi giorni pare infatti rassomigliare in maniera preoccupante alla classica dinamica dei putsch colorati (o delle rivoluzioni colorate) che dietro alla regia anglo-americana abbiamo visto in corso in vari paesi, dall’Ucraina alla Georgia, all’ex-Yugoslavia[4].
Anche in questo caso il candidato più vicino all’Occidente ha sostenuto di essere il vincitore delle elezioni ad urne ancora aperte ed anche in questo caso quando sono stati diffusi i risultati ufficiali ha gridato allo scandalo dei brogli ed ha chiamato i suoi sostenitori nelle strade. Anche in questo caso ha svolto un grande ruolo Internet (nell’organizzare, reclamizzare e tener desta la mobilitazione). Anche in questo caso, infine, la vicenda è stata strumentalizzata ampiamente in Occidente al fine di indottrinare l’opinione pubblica ed esercitare pressioni sul paese preso di mira. Risultano poi chiaramente provocatori e faziosi gli appelli dei manifestanti ad uccidere il “tiranno”, come essi chiamano il presidente Ahmadinejad, (che in Iran gode di un potere assai più limitato del presidente degli Usa o del primo ministro in molti paesi occidentali, giusto per contestualizzare).
La differenza tra questo scenario ed altri precedenti risiede nel fatto che questa volta Washington si è rifiutata, almeno ufficialmente, di prendere posizione con i rivoltosi.
Nelle sue dichiarazioni Obama ha intelligentemente sostenuto che gli Usa non si sarebbero ingeriti negli affari interni iraniani. Almeno fino a che non è apparsa inequivocabile la determinazione della Guida Suprema della Rivoluzione, ayatollah Alì Khamenei, a porre fine alle proteste di piazza ed ai disordini. Questa scelta statunitense però va letta tenendo conto della situazione politica concreta con la quale l’Amministrazione Obama si confronta in Iran. Se Obama avesse espresso il suo sostegno all’onda verde di Mussavi avrebbe commesso un’imprudenza al limite del controproducente. Il popolo iraniano in effetti nella sua stragrande maggioranza è fortemente patriottico ed orgoglioso ed è contrario a qualsiasi ingerenza straniera; in modo particolare gli americani e gli inglesi non godono di grande popolarità a causa dei passati trascorsi neocoloniali.
E’ corsa però la notizia che il Dipartimento di Stato Usa abbia chiesto a “Twitter” di rimandare un intervento di manutenzione sulla rete con l’esplicita motivazione che Twitter serviva ai contestatori iraniani per organizzare la loro sedizione. Una richiesta, questa, altamente significativa.
Sarebbe tuttavia fuorviante vedere in questi moti solamente una “contro-rivoluzione colorata”, aspetto comunque presente, perché la partita che si sta giocando a Teheran è complicata dal braccio di ferro che vede contrapporsi tra loro gli ayatollah; una contrapposizione che potrebbe rischiare di aprire gli argini della diga all’onda verde.
- Il braccio di ferro dietro le quinte
L’ayatollah Alì Khamenei è la Guida Suprema della Rivoluzione, la carica posta al vertice dell’architettura istituzionale della Repubblica islamica iraniana. Il suo potere, per quanto grande, non è tuttavia illimitato, sia perché la Costituzione iraniana è caratterizzata dalla presenza di numerosi organismi e contrappesi che si bilanciano e controllano a vicenda (ed in ciò è tutto fuorché un regime dispotico), sia perché in politica conta anche, se non soprattutto, il potere nella società reale. L’eminenza grigia della politica iraniana è l’ayatollah Alì Akbar Hashemi Rafsanjani, ex presidente della Repubblica, ex ministro della guerra durante il conflitto con l’Iraq ed attualmente alla guida del Consiglio degli Esperti (l’assemblea composta da 86 dotti eletti dal popolo che nomina e può revocare la Guida Suprema). Il clan stretto attorno a Rafsanjani possiede un vasto impero finanziario in Iran, dalle fondazioni religiose, ad imprese di import-export, ad una rete di università private che copre tutto il paese e che inquadra circa tre milioni di studenti. Ma è soprattutto l’estesa rete di rapporti politici che Rafsanjani ha abilmente tessuto durante la sua lunga carriera politica che fa impressione. Rafsanjani ha un rapporto privilegiato con i bazari, ha suoi uomini nella burocrazia e nella giustizia (a tutti i livelli), possiede un rapporto preferenziale con l’influente clero di Qom, gode di un notevole ascendente su parte del parlamento e dirige de facto il Consiglio degli Esperti. Nemmeno il Corpo dei Guardiani della Rivoluzione, feudo privilegiato di Khamenei, è completamente estraneo alla sua influenza. Non rappresenta un mistero che Rafsanjani si oppone alla politica economica e sociale sviluppata da Ahmadinejad, che gode invece dell’appoggio della Guida Suprema. Rafsanjani è inoltre infastidito dalla campagna moralizzatrice portata avanti dal giovane presidente populista. In particolare l’ex presidente si è opposto al tentativo di Ahmadinejad di porre sotto controllo il commercio estero e di limitare l’influenza delle università private; ma è soprattutto la scelta di strappare al clan di Rafsanjani il ministero chiave del petrolio che ha alimentato lo scontro per procura tra Khamenei e Rafsanjani. Va infatti ricordato che al momento della formazione del primo esecutivo guidato da Ahmadinejad 4 anni fa l’appena eletto presidente si vide bocciare più volte dal parlamento il ministro che aveva nominato al petrolio. Solo successivamente riuscì a far passare un suo uomo alla guida della National Iranian Oil Company. La politica di Ahmadinejad ha cercato di erodere la base di potere dell’ex presidente ed ha chiamato i ceti medio-alti del paese alle proprie responsabilità per sostenere una politica socio-economica re-distributiva. A questo punto la polemica di Ahmadinejad contro coloro che hanno servito la rivoluzione per servirsene ed accumulare per sé e le proprie famiglie consistenti fortune è cresciuta, ed è cresciuta l’ostilità di Rafsanjani da un lato e dei ceti borghesi del nord di Teheran dall’altro verso il presidente uscente e verso il suo mentore, Alì Khamenei.
La campagna elettorale presidenziale del 2009 ha segnato una recrudescenza nella lotta per il potere interna al regime degli ayatollah.
Durante la campagna elettorale Ahmadinejad ha difeso a spada tratta la sua politica di sostegno alle classi meno abbienti dalle critiche dei candidati di opposizione (in particola di Mussavi) e questo ha giocato sicuramente a suo vantaggio visto che sono molti gli iraniani che beneficiano della assistenza del governo. Parimenti deve aver giocato a sfavore di Mussavi, che non poteva rappresentare in maniera più plastica il suo ruolo di rappresentante di una minoranza benestante aliena alle principali esigenze della nazione. Ma l’affondo di Ahmadinejad è arrivato sulla questione della corruzione allorché egli ha detto chiaramente nel corso di un dibattito televisivo che dietro Mussavi c’era Rafsanjani e che il potente ex presidente e la sua famiglia avevano beneficiato della loro posizione politica per procurarsi vantaggi personali. Rafsanjani è stato inoltre accusato di trescare con l’Arabia Saudita per rovesciare il governo. A queste accuse pesanti l’ex presidente ha risposto con una lettera aperta pubblicata sui principali giornali del paese dove ha chiesto all’ayatollah Khamenei di prendere posizione su questo scandalo. E la Guida Suprema ha taciuto in modo complice.
Ahmadinejad ha giocato una partita spregiudicata: se da un lato le accuse di corruzione rivolte ad uno dei massimi esponenti della gerarchia religiosa e politica del paese gli hanno permesso di guadagnare molti voti, intercettando così una questione sulla quale le classi popolari iraniane sono molto sensibili, dall’altro ha rafforzato la convinzione dei gruppi d’interessi da lui toccati a sbarrare la strada ad un suo secondo mandato.
Rafsanjani ed il suo clan hanno così saldato il loro sodalizio con Mussavi, determinati a giocare fino in fondo la partita per il potere e sicuri di poter contare su un elemento di pressione nei confronti di Khamenei: la minaccia di una destituzione della Guida Suprema da parte del Consiglio degli Esperti, come ultima ratio qualora questi avesse resistito alla piazza difendendo l’elezione di Ahmadinejad.
- Sul filo del rasoio
Nel precipitare della crisi iraniana si sono così intersecate tre partite tra loro correlate: quella tra la borghesia agiata e le classi popolari, quella tra Rafsanjani e Khamenei e quella della collocazione internazionale del paese nella quale si sono probabilmente mischiati i sostenitori occidentali di uno scenario da “rivoluzione colorata”. Sono queste tre dinamiche che hanno gonfiato l’onda verde di Mussavi.
Tutto il mondo è a conoscenza dell’importanza strategica dell’Iran per gli equilibri internazionali. L’antica Persia è una Potenza regionale che ha il raro privilegio di influenzare due scacchiere adiacenti ed importantissime: il Medio Oriente e l’Asia centrale. L’Iran è l’unica Potenza di secondo rango che ha questa possibilità, è il baricentro della “via della seta”, per non parlare delle ricchezze del suo sottosuolo: ecco perché un cambiamento a Teheran può scuotere il mondo.
In questi giorni tutti hanno seguito gli sviluppi della crisi iraniana tenendo il fiato sospeso: dalle capitali arabe filo-occidentali, che hanno sempre guardato indispettite la formula iraniana della rivoluzione islamica (perché loro la religione la avevano sempre utilizzata in funzione conservatrice e reazionaria contro i movimenti rivoluzionari), ai paesi alleati dell’Iran che tentano di contenere l’imperialismo statunitense (ed allora si comprende l’uscita di Chavez in difesa dell’elezione di Ahmadinejad), alle nazioni che si stanno emancipando dalla tutela americana e che guardano con apprensione all’ipotesi di un dilagare di golpe colorati (è il caso di Gul ed Erdogan in Turchia, che non a caso sono stati i primi a congratularsi con il presidente rieletto), ai pesi massimi eurasiatici (Russia e Cina) che hanno incontrato Ahmadnejad al vertice dell’OCS che si teneva in quei giorni.
In particolare la Cina ha rivolto, dalle colonne di un suo influente giornale, un “consiglio” agli Usa a non ripetere l’errore di macchinare per rovesciare un altro presidente democraticamente eletto come fecero nel 1953 con Mossadeq perché gli iraniani non li avrebbero più perdonati e la regione avrebbe preso fuoco[5]. Una sottolineatura, quest’ultima, indicativa di come nel mondo si guardi ai fatti di Teheran.
Molti osservatori hanno poi sottolineato che quando era primo ministro negli anni ‘80 Mussavi ebbe modo di costruire importanti relazioni con gli ambienti occidentali. E’ il parere dell’esule iraniano Taheri, che ha ricordato come furono proprio due uomini di Mussavi a gestire la patata bollente del rilascio degli ostaggi dell’ambasciata Usa di Teheran e dei negoziati segreti con l’amministrazione Reagan in merito all’affaire Iran-Contra[6]. Poi la carriera di Mussavi venne interrotta, paradossalmente proprio da Rafsanjani nell’89, ma non abbiamo prove che certi rapporti non siano rimasti attivi. E’ quanto pare supporre un uomo chiave dei repubblicani statunitensi in quel periodo, Paul Craig Roberts (che fu sottosegretario al Tesoro proprio con Reagan). Egli sostiene che “è nel dominio del possibile che Mir Hossein Mussavi sia un agente comprato e pagato dal governo USA”[7]. Secondo lui infatti le elezioni sarebbero state palesemente regolari, solo che “se si tratta dell’egemonia americana su altri popoli i fatti e la verità non contano. Menzogna e propaganda sono la regola”[8] e cita un ex comandante militare pakistano che sostiene di aver prove irrefutabili che gli Usa hanno interferito nelle elezioni iraniane dispensando la bellezza di 400 milioni di dollari per finanziare la sommossa[9].
Beninteso, queste testimonianze non dimostrano di per sé granché ma segnalano che nell’ambito degli esperti l’impressione che vi sia stato un tentativo di golpe colorato appoggiato dagli anglo-americani è potentemente ed estesamente radicata, anche presso chi non può essere tacciato di pregiudizi anti-americani.
Crediamo comunque che i fatti di Teheran non siano pienamente comprensibili senza tener conto delle dinamiche interne alla società ed alla politica iraniana cui si accennava prima. Lo scenario internazionale assume un significato solo in correlazione con lo scontro sociale e politico nella Repubblica Islamica. Senza una spaccatura al vertice del potere in Iran l’onda verde non avrebbe mai trovato lo spazio per andare così lontano e provocare così tanti disordini.
Pur di evitare che Ahmadinejad e Khamenei rafforzino la loro presa sul potere e si lancino nella campagna moralizzatrice che potrebbe essergli potenzialmente fatale Rafsanjani ha deciso di sfruttare i moti di piazza, una scelta che pone la Repubblica islamica su un piano inclinato. L’esito delle elezioni del 12 giugno è stato in effetti un durissimo colpo per lui e per i suoi accoliti. Ma stringere un’intesa coi settori legati a Mussavi e con quanti si sono nascosti dietro le proteste per rovesciare il regime può essere molto pericoloso.
Trenta anni fa la Rivoluzione islamica di Khomeini fu caratterizzata anche da una forte spinta egualitaria; nonostante le moltissime conquiste che gli iraniani hanno fatto dalla fine del regime dello Scià quella spinta si era andata affievolendo, finendo così con l’aprire delle incognite sulla solidità del sistema, almeno in prospettiva. Ahmadinejad sembra aver restituito alla Repubblica islamica quella vocazione egualitaria ed un rapporto più stretto con le masse grazie alla sua politica radicale e populista. E’ forse principalmente per questo che l’ayatollah Khamenei sembra intenzionato a difenderlo fino in fondo.
Il discorso che la Guida Suprema ha tenuto durante la preghiera del venerdì 19 giugno è stato definito storico da molti osservatori. In quell’occasione Khamenei ha sostenuto la regolarità del voto e della rielezione di Ahmadinejad ed ha detto che le scelte si fanno nelle urne e non nelle strade. Egli ha anche detto che d’ora in avanti coloro che non rientreranno nei ranghi si assumeranno la colpa delle conseguenze dei loro atti. Khamenei ha sottolineato che è normale avere visioni politiche difformi nell’affrontare i problemi del paese ma che non si può lasciare che tali divergenze tracimino negli scontri di piazza con il rischio di mettere in discussione la Costituzione della Repubblica e la sovranità dell’Iran. Secondo osservatori ben informati Khamenei, uomo tradizionalmente molto cauto, avrebbe assunto una posizione così ferma anche perché il giorno precedente il Consiglio degli Esperti si era riunito ed aveva segnato la sconfitta di Rafsanjani. Ben 50 faqih avrebbero infatti riconfermato la loro fiducia nella “sagace direzione della Guida Suprema” esprimendo la certezza che Khamenei sarebbe riuscito a salvare il paese dalle macchinazioni dei nemici dell’Iran. A quel punto le armi di Rafsanjani erano spuntate[10].
Ma Khamenei ha anche fatto un’apertura a Rafsanjani, con il chiaro intento di isolare gli estremisti della rivolta verde e tagliare i loro legami all’interno del regime. Egli ha difeso l’ex presidente dalle accuse di corruzione e ne ha menzionato i meriti avuti durante la Rivoluzione. Non ha però accennato alle accuse rivoltegli in merito all’ipotetico complotto coi sauditi e non ha fatto menzione delle accuse di corruzione rivolte alla sua famiglia. Evidentemente il vecchio ayatollah vuole riservarsi la possibilità di giocare alcune carte pesanti qualora il potente rivale non addivenga a più miti consigli; non vuole tuttavia dargli l’impressione di averlo messo con le spalle al muro per evitare colpi di testa. Rafsanjani dovrà soppesare con grande attenzione le sue prossime mosse.
Per tutta la crisi è rimasto trincerato in un imbarazzato silenzio. Solamente il 29 giugno, durante una commemorazione pubblica, ha espresso il suo apprezzamento per l’opera svolta da Khamenei per far ricontare parte delle schede elettorali. Sebbene il riconteggio non possa in alcun modo modificare l’esito del voto e sia una misura puramente platonica Rafsanjani ha detto di apprezzare questa scelta perché tende al chiarimento ed al ristabilimento della fiducia nel sistema politico. Ma le sue parole più significative sono state rivolte alle manifestazioni, quando ha fatto allusione alle oscure tresche imbastite da Potenze straniere per creare una frattura tra il popolo e il regime.
Forse questa uscita presuppone un accomodamento con Khamenei e l’accettazione del dato di fatto: che la fronda è stata fermata. Resta da vedere al prezzo di quale compromesso e per quanto tempo durerà la bonaccia.
E’ presto per dire se questa sconfitta segna la fine della carriera di Rafsanjani ma sicuramente Khamenei ha saputo ribadire il suo controllo della situazione, parando la sfida che gli era stata lanciata. Ahmadinejad sembra uscito rafforzato dalla prova e può sfruttare la paura delle trame anglo-americane contro la fronda. L’onda verde di Mussavi sembra destinata alla risacca. Incapace di allargarsi oltre i ristretti settori benestanti del nord di Teheran sembra non poter più contare nemmeno sulla complicità di parte del potere. Gli apparati dello Stato, infine, sono rimasti fedeli alla Repubblica e non si sono lasciati attraversare da lacerazioni. Si può dire che la fronda sia stata fermata e che la fase più pericolosa per la Repubblica islamica sia ormai passata?
Alcuni segnali lo lasciano presagire, ma gli scontri di piazza potrebbero lasciare il posto ad una destabilizzazione pericolosa. Quello che è certo è che, comunque vada a finire, la Repubblica islamica porterà il segno di queste lacerazioni per parecchio tempo.
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[1] Ken Ballen è presidente di un istituto specializzato nello studio dell’estremismo, Patrick Doherty è il vice direttore dell’”American Strategy Program” presso la “New America Foundation”. La fonte originale dell’articolo qui citato è www.washingtonpost.com ma l’articolo è disponibile anche in italiano su: www.eurasia-rivista.org con il titolo: Il popolo iraniano parla; trad. it. di Ornella Sangiovanni.
[2] K. Ballen, P. Doherty, Il popolo iraniano parla; www.eurasia-rivista.org 16 giugno 2009
[3] T. Meyssan, Pourquoi devrais-je mépriser la choix des iraniens?; in : www.voltairenet.org 21 giugno 2009
[4] La tesi della “rivoluzione colorata” è sostenuta tra gli altri da: E. Golinger, La “rivoluzione verde”; in: www.lernesto.it 20 giugno 2009 trad. it. di M. Gemma
[5] M.K. Bhadrakumar, Beijing cautions US over Iran; in: “Asia Times Online” 20 giugno 2009
[6] M.K. Bhadrakumar, “Color” revolution fizzles in Iran; in: Asia Times Ondine” 23 giugno 2009
[7] P. Craig Roberts, Pourquoi et comment les Etats-Unis cherchent à detsbiliser l’Iran?; in : www.geostrategie.com 20 giugno 2009
[8] Ibidem
[9] Ibidem
[10] M.K. Bhadrakumar, “Color” revolution; op. cit.
Fonte:Resisitenze.org
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