Nel 1637 oltre trentamila cattolici giapponesi, guidati da un condottiero sedicenne, si ribellarono alla persecuzione religiosa. Un romanzo di Rino Cammilleri ricorda quella vicenda di fede ed eroismo.
Di Andrea Galli
Nel dicembre del 1637 circa trentasettemila kirishitan, cioè cristiani, si asserragliarono nel castello di Hara, nell’allora provincia di Hizen, nell’Isola di Kyushu, la più a sud dell’arcipelago nipponico.
Ventimila tra contadini e commercianti, inquadrati militarmente da seicento ronin, samurai decaduti, più diciassettemila donne e bambini al seguito, decisi a resistere fino alla morte per rivendicare la libertà di culto e sfidare un potere feudale giunto a livelli di torchiatura fiscale e di crudeltà inauditi. A guidarli era un giovane di soli sedici anni, Amakusa Shiro, figlio di un samurai cristiano e creduto – per il suo carisma e una serie di miracoli che gli furono attribuiti – l’inviato dal cielo citato in una misteriosa profezia attribuita a San Francesco Saverio, ritrovata nel testo lasciato dietro di sé da un gesuita in fuga dalla persecuzione anticattolica.
Era un popolino proveniente dalle isole Amakusa e dalla penisola di Shimabara, costretto a professare la fede nel segreto, pena la morte, odiato dai bonzi buddisti quanto dallo shogunTokugawa Ieyasu, che vedeva in ogni presenza cristiana un cavallo di Troia degli imperi marittimi di Portogallo e Spagna. Un popolino che, abituato a tirar di roncola più che di spada, aveva però scelto di uscire dalle catacombe e sfidare in armi le autorità locali: prima aveva tentato di assaltare i castelli di Hondo e Tomioka, poi aveva resistito alle rappresaglie, infliggendo pesantissime perdite alle spedizioni dei daimyo, i feudatari locali, poi era arrivato vicino all’inaudito, cioè la presa della fortezza principale della zona, quella di Shimabara, del daimyo Matsukura Katsuie.
Infine, impossibilitato a continuare lo scontro in campo aperto contro un esercito via via sempre più imponente, grazie ai rinforzi provenienti dal resto del Giappone, si era rifugiato in un grande fortilizio abbandonato, a ridosso dell’oceano. Sapendo che da lì, salvo miracoli, non sarebbe più uscito più vivo. Le navi che erano servite per approdare al castello furono distrutte e il legno fu usato per rinforzare le mura diroccate. Sui bastioni furono innalzate grandi bandiere bianche crociate e i kirishitan si apprestarono a combattere invocando l’aiuto di Iesu Kirisuto (Gesù Cristo), di Mariya e dei santi. Niente messe, perché di missionari o sacerdoti autoctoni per celebrarle non ne erano rimasti – quelli che non erano riusciti a lasciare il Paese erano stati trucidati – , solo rosari ed esortazioni mistiche dell’Inviato del Cielo.
Per cinque mesi i ribelli resistettero all’impossibile, anche alle cannonate di una nave olandese guidata dal calvinista Nicolas Koekebakker, che aveva messo a disposizione per l’annientamento dell’insurrezione papista le sue bocche da fuoco. Fino alla capitolazione, per sfinimento, mancanza di viveri, munizioni, sabotaggi interni, il 12 aprile del 1638. I kirishitan furono massacrati e tutti decapitati. La spianata attorno al castello fu disseminata di pali con le loro teste mozzate, come un immenso campo di macabri girasoli. La testa di Amakusa Shiro fu portata a Nagasaki come trofeo e avvertimento per i restanti seguaci di Iesu Kirisuto e del gran regnante di Roma.
Per raccontare la vicenda della ribellione di Shimabara, la Masada della Chiesa giapponese, poco conosciuta in Occidente, Rino Cammilleri, saggista prolifico e di lungo corso, ha scritto quello che probabilmente è il più bello tra i romanzi storici che finora ha firmato: Il Crocifisso del Samurai (Rizzoli, pagine 276, euro 18,50).
Lo ha fatto miscelando una trama di fantasia che vede protagonisti tre seguaci di Amakusa Shiro – il giovane Kato, la sua amata Yumiko, prelevata dalle guardie di un daimyo e torturata pubblicamente con l’unica colpa di essere figlia di Kayata, samurai cattolico che non aveva potuto pagare le tasse alle autorità – e un racconto degli accadimenti di quel 1637 di sangue e della grande persecuzione dei decenni precedenti.
Un’immersione in un Giappone arcaico e feroce, dove sulla fiorente Chiesa nata dalle missioni gesuitiche e francescane si abbatté una violenza che ha avuto pochi uguali nella storia. E dove gli shogun della dinastia Tokugawa, dopo aver preso il potere nel 1603 chiusero sempre più il proprio impero ai rapporti con gli stranieri – dopo la ribellione di Shimibara per oltre duecento anni il Giappone divenne sakoku, quasi totalmente blindato e autarchico – e i cristiani si eclissarono. Riemersero alla luce, come per miracolo, alla fine di un tunnel plurisecolare, solo nel 1865, quando i missionari tornarono in quella lande.
Fonte: Avvenire del 13 maggio 2009
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