Arrestato per la fede nel 1953, ha lavorato nei lager dell’Heilongjiang (nord-est) come agricoltore. É ritornato a Guangzhou nel 1983. Da allora ha svolto opera di catechesi e di evangelizzazione, stimato come martire da tutti i fedeli della diocesi di Guangzhou.
Guangzhou (AsiaNews) – Questa mattina alle 5 (ora locale) è morto all’età di 93 anni padre Francesco Tan Tiande, una delle personalità più stimate e conosciute della diocesi di Guangzhou, un vero apostolo e martire della fede, che ha passato 30 anni in carcere ai lavori forzati, ma non ha mai perduto la gioia della fede.
Nato nel 1916 a Shunde (Guangdong), da una famiglia cattolica da generazioni, entra da ragazzo in seminario e studia teologia nel seminario regionale della Cina meridionale ad Hong Kong (oggi Holy Spirit). Per tre anni è campione di atletica e nuoto. Questo spirito sportivo – fatto di forza fisica e di forza di volontà - egli dice che lo ha aiutato in seguito “nelle carceri e nei campi di lavoro del nord-est”. È ordinato sacerdote nel 1941 nella cattedrale di Guangzhou, la Shishi (Casa di Pietra), dedicata al Sacro Cuore. Dopo un periodo pastorale nel capoluogo, viene mandato nell’isola di Hainan e poi ad Hong Kong, per tornare a Guangzhou nel ’51.
Incarcerato nel 1953 a causa della sua fede, viene mandato in un campo di lavori forzati nel nord-est della Cina (Heilongjiang) dove rimane per 30 anni. In origine era stato condannato, senza processo, al carcere a vita. A poco a poco, grazie al suo comportamento pieno di servizio e amorevole, i giudici gli riducono la pena. Solo nel 1983 riceve il permesso di ritornare a Guangzhou, dove ha vissuto come sacerdote aiutante della cattedrale, amato da fedeli cristiani e non cristiani.
Per comprendere lo spessore della sua fede e testimonianza, basta leggere dal suo diario (pubblicato da AsiaNews nel 1990 in Cina oggi, n. 10, pp 191-206) il modo in cui egli ripensa alla sua prigionia. In esso egli descrive le ingiustizie; i processi popolari contro di lui (perché è cattolico e prete); la miseria e la fame vissuta da tutti i prigionieri. Ma descrive pure la sua testimonianza di carità verso prigionieri e guardie, il suo sostenerli a riscoprire la dignità umana attraverso la fede in Dio. In un brano del diario egli scrive:
“Durante i 30 anni in cui vissi nel nord-est, l’agricoltura era la mia occupazione principale Ogni anno, quando arrivava la primavera, dovevamo cercare di concimare un terreno che era duro come l’acciaio (a causa del freddo polare – ndr). Usavamo picconi per scavare la terra. Una volta reso il terreno più morbido, lo innaffiavamo e vi piantavamo i semi. Oggi, descrivendo tutto ciò, non mi sembra così tremendo. In realtà a quel tempo eravamo denutriti. Tutto quel lavoro era al di là delle nostre forze, cosicché anche ogni minuto era un’agonia”….
“La gente potrebbe chiedersi come io abbia potuto sopravvivere in queste condizioni tremende. Per chi non crede è un enigma senza soluzione. Per chi ha fede è la volontà di Dio. La vita è il suo dono più prezioso all’uomo. Devo avere grande cura di questo dono per non essere un ingrato. Perciò per sopravvivere mangiavo erbe selvatiche e la corteccia degli alberi…. Ho vissuto in condizioni tali da sperimentare le azioni brutali dei miei compagni… Questo dolore è anche più grande della fame. Avrei voluto correre nei campi e gridare ad alta voce: Dio, dove sei?... Non so quante volte ho pensato di farla finita. Ma proprio al momento cruciale vedevo Gesù sulla croce che mi guardava con occhi misericordiosi… e lo sentivo dire: O uomo di poca fede! Dubiti forse che io ti ami?”.
“Anche negli anni in cui era severamente proibito qualsiasi segno religioso, io non ho mai rinunciato, in mezzo ai prigionieri, a fare il segno della Croce. Avevo paura di dimenticare che tutto mi veniva dalle Sue mani, che tutto era segno di amore, che tutto mi era donato perché io divenissi una persona che sa amare. Temevo di finire col pensare che c’è qualcosa di cui posso non dire grazie anzitutto al Signore, di finire col vergognarmi di Lui, di ritenere qualcuno o qualcosa più forte di Lui. Quel segno mi è costato innumerevoli punizioni… Ma io dovevo salvare la mia dignità di credente, per non trovarmi senza forza”.
(AsiaNews del 23 aprile 2009)
Guangzhou (AsiaNews) – Questa mattina alle 5 (ora locale) è morto all’età di 93 anni padre Francesco Tan Tiande, una delle personalità più stimate e conosciute della diocesi di Guangzhou, un vero apostolo e martire della fede, che ha passato 30 anni in carcere ai lavori forzati, ma non ha mai perduto la gioia della fede.
Nato nel 1916 a Shunde (Guangdong), da una famiglia cattolica da generazioni, entra da ragazzo in seminario e studia teologia nel seminario regionale della Cina meridionale ad Hong Kong (oggi Holy Spirit). Per tre anni è campione di atletica e nuoto. Questo spirito sportivo – fatto di forza fisica e di forza di volontà - egli dice che lo ha aiutato in seguito “nelle carceri e nei campi di lavoro del nord-est”. È ordinato sacerdote nel 1941 nella cattedrale di Guangzhou, la Shishi (Casa di Pietra), dedicata al Sacro Cuore. Dopo un periodo pastorale nel capoluogo, viene mandato nell’isola di Hainan e poi ad Hong Kong, per tornare a Guangzhou nel ’51.
Incarcerato nel 1953 a causa della sua fede, viene mandato in un campo di lavori forzati nel nord-est della Cina (Heilongjiang) dove rimane per 30 anni. In origine era stato condannato, senza processo, al carcere a vita. A poco a poco, grazie al suo comportamento pieno di servizio e amorevole, i giudici gli riducono la pena. Solo nel 1983 riceve il permesso di ritornare a Guangzhou, dove ha vissuto come sacerdote aiutante della cattedrale, amato da fedeli cristiani e non cristiani.
Per comprendere lo spessore della sua fede e testimonianza, basta leggere dal suo diario (pubblicato da AsiaNews nel 1990 in Cina oggi, n. 10, pp 191-206) il modo in cui egli ripensa alla sua prigionia. In esso egli descrive le ingiustizie; i processi popolari contro di lui (perché è cattolico e prete); la miseria e la fame vissuta da tutti i prigionieri. Ma descrive pure la sua testimonianza di carità verso prigionieri e guardie, il suo sostenerli a riscoprire la dignità umana attraverso la fede in Dio. In un brano del diario egli scrive:
“Durante i 30 anni in cui vissi nel nord-est, l’agricoltura era la mia occupazione principale Ogni anno, quando arrivava la primavera, dovevamo cercare di concimare un terreno che era duro come l’acciaio (a causa del freddo polare – ndr). Usavamo picconi per scavare la terra. Una volta reso il terreno più morbido, lo innaffiavamo e vi piantavamo i semi. Oggi, descrivendo tutto ciò, non mi sembra così tremendo. In realtà a quel tempo eravamo denutriti. Tutto quel lavoro era al di là delle nostre forze, cosicché anche ogni minuto era un’agonia”….
“La gente potrebbe chiedersi come io abbia potuto sopravvivere in queste condizioni tremende. Per chi non crede è un enigma senza soluzione. Per chi ha fede è la volontà di Dio. La vita è il suo dono più prezioso all’uomo. Devo avere grande cura di questo dono per non essere un ingrato. Perciò per sopravvivere mangiavo erbe selvatiche e la corteccia degli alberi…. Ho vissuto in condizioni tali da sperimentare le azioni brutali dei miei compagni… Questo dolore è anche più grande della fame. Avrei voluto correre nei campi e gridare ad alta voce: Dio, dove sei?... Non so quante volte ho pensato di farla finita. Ma proprio al momento cruciale vedevo Gesù sulla croce che mi guardava con occhi misericordiosi… e lo sentivo dire: O uomo di poca fede! Dubiti forse che io ti ami?”.
“Anche negli anni in cui era severamente proibito qualsiasi segno religioso, io non ho mai rinunciato, in mezzo ai prigionieri, a fare il segno della Croce. Avevo paura di dimenticare che tutto mi veniva dalle Sue mani, che tutto era segno di amore, che tutto mi era donato perché io divenissi una persona che sa amare. Temevo di finire col pensare che c’è qualcosa di cui posso non dire grazie anzitutto al Signore, di finire col vergognarmi di Lui, di ritenere qualcuno o qualcosa più forte di Lui. Quel segno mi è costato innumerevoli punizioni… Ma io dovevo salvare la mia dignità di credente, per non trovarmi senza forza”.
(AsiaNews del 23 aprile 2009)
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