lunedì 2 marzo 2009

"Pentirmi io? No, gli ebrei non sono umani"


Un anno in prigione con il generale delle SS Stroop che comandò nel 1943 l’attacco al ghetto di Varsavia


Di Valerio Pellizzari


VARSAVIA-Kazimierz Moczarski entrò a Mokotow, la prigione principale di Varsavia, nel marzo 1949. La sorte gli aveva organizzato un appuntamento che superava ogni fantasia, che sconvolgerà e arricchirà tutta la sua vita. La cella che gli era stata assegnata, dipinta di verde e bianco, ospitava già due militari tedeschi. Uno di loro era il generale delle SS Jürgen Stroop, l'uomo che aveva diretto la distruzione totale del ghetto nella capitale della Polonia, il braccio destro di Himmler, un autentico aiutante del diavolo, secondo una categoria delineata da Thomas Mann. Il prigioniero polacco e il generale divideranno quel pavimento di pochi metri per duecentocinquantacinque giorni, in un dialogo a volte scontroso, ma sempre più fitto. Moczarski non ha diritto a usare carta e penna, non prende una sola riga di appunti, ma questa impossibilità di scrivere ha i suoi vantaggi, con quelle mani vuote appare meno insidioso, più autentico, e il suo interlocutore si confida più facilmente.

Il prigioniero polacco esercita in modo appassionato e prodigioso gli strumenti della concentrazione e della memoria. Arriva a scrivere mentalmente, a fotografare una pagina immaginaria, e a riprendere la lettura di quel testo impalpabile nel punto esatto dove l'aveva interrotta. Così racconta lui stesso. Quando esce dal carcere, sette anni dopo, riempie con foga un migliaio di paginette, temendo che la sua memoria si indebolisca. Raccoglie, e poi trascrive, una testimonianza unica. Solo venti anni dopo quelle confessioni - secondo il momento spavalde, ottuse, leali verso i combattenti ebrei - cominceranno ad essere pubblicate prudentemente, con piccole anticipazioni, su una rivista polacca. «Conversazioni con il boia», il libro integrale, verrà stampato per la prima volta nel 1977, due anni dopo la morte dell'autore. A distanza di trenta anni oggi arriva anche in Italia, con Bollati Boringhieri.

Sei mesi dopo lo scambio delle prime battute con il compagno di cella polacco il generale, il carnefice di oltre settantamila ebrei solo a Varsavia, arriva al punto centrale della sua biografia, alla Grande operazione, come viene chiamata in codice. Comincia a raccontare la sua strategia, le sue ciniche prodezze, ma anche le sue ansie, durante la distruzione del quartiere ebraico, condotta nei giorni delle festività pasquali nel 1943. Tutto si conclude in modo spettacolare e propagandistico con l'esplosione della più grande sinagoga della città. Il carnefice è scrupoloso, e premette: «Certi particolari della mia vita ormai sono svaniti per sempre. Evidentemente le mie cellule grigie non funzionano più molto bene... Ma per quanto riguarda quegli avvenimenti la mia memoria reagisce all'istante, in qualsiasi momento. Mi sembra di avere il rapporto sulla liquidazione del ghetto stampato nella testa». Aveva previsto un attacco di tre giorni con mortai, esplosivi, lanciafiamme, per svuotare tutta quella zona di Varsavia, e invece impiegherà un tempo nove volte più lungo.

Moczarski aveva combattuto contro i nazisti, era un eroe della lotta clandestina, ma i comunisti arrivati al potere lo accusavano invece di avere collaborato con i tedeschi, e lo avevano condannato a morte. Lo riabiliteranno alla metà degli anni Cinquanta. Prima sono ossessionati da una ricostruzione storica a senso unico, esercitano una censura pedante, maniacale, su quella testimonianza raccolta in prigione direttamente dal carnefice. Solo dopo le prime edizioni del libro il partito autorizza la stampa integrale del testo. Finalmente compare la conclusione dell'autore: non rimpiango il tempo «sprecato in prigione», quel luogo conferiva il privilegio di una situazione chiara, semplice, ben definita, aiutava a difendere i propri principi, e «non rimpiango assolutamente» i giorni trascorsi a conversare con Stroop.

Adam Michnik, uno dei nomi illustri della cultura contemporanea polacca, commenta con passione: «Il lettore di questo libro conosce quindi una verità più completa, apprende su Stroop molto più di quanto ne sapessero allora i giudici, la procura, gli inquisitori e il pubblico presenti in aula».

La brutalità e i principi razzisti del generale emergono in continuazione, attraverso le sue parole eccitate, cariche di orgoglio guerriero e di slogan propagandistici, nei quali c'è posto anche per una citazione di Nietzsche sul vero uomo. Nel secondo giorno dell'assedio al ghetto il carnefice si fa il segno della croce, prima di mandare i soldati all'attacco. Descrive gli uomini, le donne, i bambini ebrei che dalle finestre, dai balconi, dalle soffitte delle case in fiamme volavano giù sull'asfalto. «Prima lanciavano a terra piumini, coperte, stracci, e dopo ci saltavano sopra. I miei uomini li avevano battezzati paracadutisti, e sparavano contro quei nemici in volo». C'era un tiratore scelto particolarmente efficace nel colpire quei bersagli in movimento, per il quale l'aiutante del diavolo serbava ammirazione anche a distanza di anni. A suo modo serbava ammirazione anche per le ragazze ebree del ghetto. Nelle sue parole quelle non erano esseri umani, ma «diavoli o divinità guerriere». Fredde, agili come artiste di un circo, spesso sparavano con una pistola in ogni mano, irriducibili fino all'ultimo.

Jürgen Stroop fu condannato a morte prima dagli americani e poi dalle autorità polacche, che eseguiranno la sentenza. Nelle conversazioni con Moczarski c'è un punto particolarmente illuminante sulla contorta psicologia del carnefice, quando nei ricordi si fa strada la figura di padre Roth, un gesuita tedesco che era stato prigioniero per due anni a Dachau. Dopo la liberazione si dedica ai delinquenti e ai prigionieri di guerra, senza differenza di fede, di nazionalità, di razza, di idee politiche. Il generale lo considera un personaggio eccezionale, caritatevole, modesto, leale, ma confessa di non capire la mentalità di quell'uomo che prega per tutti gli abitanti della terra. «Seppi che il reverendo Roth aveva torto. Lui pregava per i deboli, per i vinti, per gli umiliati, per gli oppressi. E invece solo i forti sono degni di essere adorati. E' per i trionfatori, che bisogna pregare».

Ancora qualche giorno prima della morte Stroop disse che non provava rimorsi di coscienza, perché le sue vittime erano ebrei, persone senza dignità e senza onore. Li sterminò «durante l'inferno pasquale». In cella teneva la sacra Bibbia. La dignità di Moczarski invece è sopravvissuta ai tedeschi invasori, alle menzogne e alle torture del partito, affidata a un libro straordinario, rigoroso, scritto da un uomo giusto.


Fonte : La Stampa
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Un anno in prigione con il generale delle SS Stroop che comandò nel 1943 l’attacco al ghetto di Varsavia


Di Valerio Pellizzari


VARSAVIA-Kazimierz Moczarski entrò a Mokotow, la prigione principale di Varsavia, nel marzo 1949. La sorte gli aveva organizzato un appuntamento che superava ogni fantasia, che sconvolgerà e arricchirà tutta la sua vita. La cella che gli era stata assegnata, dipinta di verde e bianco, ospitava già due militari tedeschi. Uno di loro era il generale delle SS Jürgen Stroop, l'uomo che aveva diretto la distruzione totale del ghetto nella capitale della Polonia, il braccio destro di Himmler, un autentico aiutante del diavolo, secondo una categoria delineata da Thomas Mann. Il prigioniero polacco e il generale divideranno quel pavimento di pochi metri per duecentocinquantacinque giorni, in un dialogo a volte scontroso, ma sempre più fitto. Moczarski non ha diritto a usare carta e penna, non prende una sola riga di appunti, ma questa impossibilità di scrivere ha i suoi vantaggi, con quelle mani vuote appare meno insidioso, più autentico, e il suo interlocutore si confida più facilmente.

Il prigioniero polacco esercita in modo appassionato e prodigioso gli strumenti della concentrazione e della memoria. Arriva a scrivere mentalmente, a fotografare una pagina immaginaria, e a riprendere la lettura di quel testo impalpabile nel punto esatto dove l'aveva interrotta. Così racconta lui stesso. Quando esce dal carcere, sette anni dopo, riempie con foga un migliaio di paginette, temendo che la sua memoria si indebolisca. Raccoglie, e poi trascrive, una testimonianza unica. Solo venti anni dopo quelle confessioni - secondo il momento spavalde, ottuse, leali verso i combattenti ebrei - cominceranno ad essere pubblicate prudentemente, con piccole anticipazioni, su una rivista polacca. «Conversazioni con il boia», il libro integrale, verrà stampato per la prima volta nel 1977, due anni dopo la morte dell'autore. A distanza di trenta anni oggi arriva anche in Italia, con Bollati Boringhieri.

Sei mesi dopo lo scambio delle prime battute con il compagno di cella polacco il generale, il carnefice di oltre settantamila ebrei solo a Varsavia, arriva al punto centrale della sua biografia, alla Grande operazione, come viene chiamata in codice. Comincia a raccontare la sua strategia, le sue ciniche prodezze, ma anche le sue ansie, durante la distruzione del quartiere ebraico, condotta nei giorni delle festività pasquali nel 1943. Tutto si conclude in modo spettacolare e propagandistico con l'esplosione della più grande sinagoga della città. Il carnefice è scrupoloso, e premette: «Certi particolari della mia vita ormai sono svaniti per sempre. Evidentemente le mie cellule grigie non funzionano più molto bene... Ma per quanto riguarda quegli avvenimenti la mia memoria reagisce all'istante, in qualsiasi momento. Mi sembra di avere il rapporto sulla liquidazione del ghetto stampato nella testa». Aveva previsto un attacco di tre giorni con mortai, esplosivi, lanciafiamme, per svuotare tutta quella zona di Varsavia, e invece impiegherà un tempo nove volte più lungo.

Moczarski aveva combattuto contro i nazisti, era un eroe della lotta clandestina, ma i comunisti arrivati al potere lo accusavano invece di avere collaborato con i tedeschi, e lo avevano condannato a morte. Lo riabiliteranno alla metà degli anni Cinquanta. Prima sono ossessionati da una ricostruzione storica a senso unico, esercitano una censura pedante, maniacale, su quella testimonianza raccolta in prigione direttamente dal carnefice. Solo dopo le prime edizioni del libro il partito autorizza la stampa integrale del testo. Finalmente compare la conclusione dell'autore: non rimpiango il tempo «sprecato in prigione», quel luogo conferiva il privilegio di una situazione chiara, semplice, ben definita, aiutava a difendere i propri principi, e «non rimpiango assolutamente» i giorni trascorsi a conversare con Stroop.

Adam Michnik, uno dei nomi illustri della cultura contemporanea polacca, commenta con passione: «Il lettore di questo libro conosce quindi una verità più completa, apprende su Stroop molto più di quanto ne sapessero allora i giudici, la procura, gli inquisitori e il pubblico presenti in aula».

La brutalità e i principi razzisti del generale emergono in continuazione, attraverso le sue parole eccitate, cariche di orgoglio guerriero e di slogan propagandistici, nei quali c'è posto anche per una citazione di Nietzsche sul vero uomo. Nel secondo giorno dell'assedio al ghetto il carnefice si fa il segno della croce, prima di mandare i soldati all'attacco. Descrive gli uomini, le donne, i bambini ebrei che dalle finestre, dai balconi, dalle soffitte delle case in fiamme volavano giù sull'asfalto. «Prima lanciavano a terra piumini, coperte, stracci, e dopo ci saltavano sopra. I miei uomini li avevano battezzati paracadutisti, e sparavano contro quei nemici in volo». C'era un tiratore scelto particolarmente efficace nel colpire quei bersagli in movimento, per il quale l'aiutante del diavolo serbava ammirazione anche a distanza di anni. A suo modo serbava ammirazione anche per le ragazze ebree del ghetto. Nelle sue parole quelle non erano esseri umani, ma «diavoli o divinità guerriere». Fredde, agili come artiste di un circo, spesso sparavano con una pistola in ogni mano, irriducibili fino all'ultimo.

Jürgen Stroop fu condannato a morte prima dagli americani e poi dalle autorità polacche, che eseguiranno la sentenza. Nelle conversazioni con Moczarski c'è un punto particolarmente illuminante sulla contorta psicologia del carnefice, quando nei ricordi si fa strada la figura di padre Roth, un gesuita tedesco che era stato prigioniero per due anni a Dachau. Dopo la liberazione si dedica ai delinquenti e ai prigionieri di guerra, senza differenza di fede, di nazionalità, di razza, di idee politiche. Il generale lo considera un personaggio eccezionale, caritatevole, modesto, leale, ma confessa di non capire la mentalità di quell'uomo che prega per tutti gli abitanti della terra. «Seppi che il reverendo Roth aveva torto. Lui pregava per i deboli, per i vinti, per gli umiliati, per gli oppressi. E invece solo i forti sono degni di essere adorati. E' per i trionfatori, che bisogna pregare».

Ancora qualche giorno prima della morte Stroop disse che non provava rimorsi di coscienza, perché le sue vittime erano ebrei, persone senza dignità e senza onore. Li sterminò «durante l'inferno pasquale». In cella teneva la sacra Bibbia. La dignità di Moczarski invece è sopravvissuta ai tedeschi invasori, alle menzogne e alle torture del partito, affidata a un libro straordinario, rigoroso, scritto da un uomo giusto.


Fonte : La Stampa

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