Di Pietro Orsatti
Dopo le dichiarazioni recenti di Vittorio Sgarbi ("la mafia non esiste") andiamo a vedere chi "governa" il trapanese e anche la città, Salemi, di cui il critico d’arte più discusso e "discutente" del Paese è diventato recentemente sindaco.
Nell’autunno 2008 per un paio di settimane i giornali sono stati inondati dalle dichiarazioni dell’attuale sindaco di Salemi (comune del Belice nel trapanese) Vittorio Sgarbi. Il critico d’arte, conduttore televisivo, polemista, politico ed ex membro del secondo governo Berlusconi, lontano dalle telecamere e dalle polemiche non è riuscito proprio a starci, doveva assolutamente trovare un modo per rinverdire la propria immagine un po’ appassita.
«Se ci sei batti un colpo - ha dichiarato pubblicamente rivolgendosi a Matteo Messina Denaro - Ovunque tu sia prova a determinare un condizionamento». Per il sindaco di Salemi, il latitante castelvetranese «non ha più la possibilità di influenzare alcun politico di potere». Una sfida? Sgarbi che non se la prende con qualche “tronista” di Mediaset, o con la Mussolini o con il primo ospite che non lo corteggi di “Porta a porta”. Il suo obiettivo è uno dei latitanti più pericolosi, ricercato dalle polizie di mezzo mondo. Per quanto riguarda il “condizionamento”, dopo poche settimane è stato smentito grazie all’arresto e la denuncia a un gruppo di politici, imprenditori e mafiosi nell’alcamese, sempre nel territorio controllato dal boss di Castelvetrano.
Non pago Sgarbi ha proseguito: «La mafia è stata debellata, certamente nella sua possibilità di condizionare il potere economico e politico». Parole che ricordano altri tempi, altri politici. «La mafia non esiste», dichiaravano molti democistiani siciliani (e non solo) durante la prima guerra di mafia e i primi morti e le prime stragi. «La mafia non esiste, esistono i mafiosi», ha tuonato Sgarbi.
Vediamo chi è il mafioso senza mafia (secondo Sgarbi), che governa da anni l’intera provincia di Trapani, Salemi compresa. Il sui soprannomi sono "U Siccu" e “Diabolik”, latitante dal 2 giugno 1993 e condannato all’ergastolo per le stragi del Novantatre. Latitante ma certo non attivo: fra una seduta di playstation e l’altra, conta “piccioli” (è un appassionato di videogiochi come emerge da alcune intercettazioni), traffica armi e droga, fa patti con la massoneria deviata, e quando serve si dedica a qualche scaramuccia con il rivale Domenico Raccuglia. Matteo Messina Denaro è alto circa un metro e settanta, stempiato, capelli castani (all’epoca del mandato di cattura del 1993), ed è strabico all’occhio sinistro. La trasmissione televisiva della Rai "Chi l’ha visto?", nel 2006 ha scoperto che per correggere il suo strabismo, il 6 gennaio del 1994 Matteo Messina Denaro si è recato in Spagna per una visita di controllo nella clinica "Barraquer" di Barcellona, registrandosi come Matteo Messina e dichiarando data e luogo di nascita veri. In precedenza, all’epoca delle stragi del 1993, il boss si sarebbe fatto chiamare Paolo Forte ed ha vissuto in una villa lussuosa di Forte dei Marmi (Lucca) insieme a una donna austriaca.
Un particolare che corrisponderebbe alla sua fame di viveur e play boy internazionale. Recentemente sono state messe in giro voci, mai verificate, che definiscono il boss gravemente malato e in dialisi. Se le voci sono vere, la rete di copertura della sua latitanza deve avere dimensioni impressionanti.
«Matteo Messina Denaro è l’uomo che rappresenta l’anello di congiunzione tra la vecchia e la nuova mafia», dichiarò nel 2006 il capo Squadra Mobile Trapani, Giuseppe Linares. Figlio di Francesco, che è stato per vent’anni capo del mandamento mafioso di Castelvetrano nel trapanese, come ipotizza Massimo Russo, Sostituto Procuratore della D.d.a. di Palermo, Messina Denaro «ha ucciso decine e decine di persone per mano sua e forse un centinaio sono state uccise su suo mandato. Se già non lo è, è sicuramente il candidato numero uno a diventare il capo di Cosa Nostra». Tra i crimini per cui è indagato anche la vicenda del sequestro e dell’omicidio del piccolo Giuseppe Di Matteo, figlio del collaboratore di giustizia Santino, affidato dopo il rapimento da febbraio ad agosto del 1995 proprio dei picciotti di Matteo Messina Denaro, che durante il giorno lo tenevano legato e imbavagliato appeso a un gancio. Sin da giovane dedito allo spaccio di sostanze stupefacenti, Messina Denaro può vantare importanti contatti con i cartelli sudamericani ed è considerato dall’Fbi statunitense uno dei protagonisti nel commercio mondiale della droga. Ed ha interessi anche nell’ambito del traffico di armi e della macellazione clandestina, senza poi parlare della “tradizionale” (per Cosa nostra) attività dell’estrazione di inerti.
Da recenti inchieste emerge anche un suo interesse nella gestione dei rifiuti avviata durante gli ultimi anni di latitanza di Provenzano di cui, in questo settore, era l’esecutore.
Nel novembre 2008 il tribunale di Trapani ha posto sotto sequestro di dodici società, 220 tra palazzine e ville, 133 terreni per un totale di 60 ettari, tutti riconducibili a Giuseppe Grigoli, considerato il re dei supermercati in Sicilia e ritenuto un prestanome di Matteo Messina Denaro. Beni per 700 milioni di euro. Grigoli, 60 anni, arrestato il 20 dicembre 2008 per concorso esterno in associazione mafiosa, controllava 60 esercizi commerciali in Sicilia, in gran parte supermercati della catena Despar, di cui aveva la gestione in esclusiva per le province di Palermo, Trapani e Agrigento. Un uomo importante Grigoli per Cosa nostra. All’arresto di Provenzano, l’11 Aprile 2006, nei pizzini ritrovati nel covo di Corleone figurava spesso proprio il nome dell’imprenditore. In un accordo, mediato proprio da Binnu, tra le Messina Denaro e Giuseppe Falsone, boss agrigentino che si era lamentato con la commissione perché non capiva perché la Despar fosse “esentata” dal pizzo, si era deciso che le holding finanziarie riferibili a Grigoli, la “6Gdo” e la “Grigoli Distribuzione”, avrebbero avuto l’esclusiva del marchio Despar. E, da quanto risulterebbe dall’inchiesta, Cosa nostra “parlava” anche sulle assunzioni, centinaia delle quali su diretta indicazione dei clan.
Matteo Messina Denaro non è il solito boss che litiga con i congiuntivi come Riina, Provenzano o i Lo Piccolo. Non sarà un intellettuale, ma per anni ha frequentato i salotti buoni non solo siciliani. Prima della latitanza era “uno in vista”, che amava farsi notare: auto sportive, vistosi orologi Rolex Daytona e guardaroba firmato Armani o Versace. Apparenza che non gli impedisce di essere assassino feroce come nel caso del mancato attentato a Maurizio Costanzo, o come in due casi del 1992, ovvero uccisione del boss di Alcamo Vincenzo Milazzo, contrario alla strategia stragista adottata in quegli anni da Riina, e lo strangolamento della sua fidanzata, Antonella Bonomo, incinta di 3 mesi e sospettata di avere legami, attraverso parentele, con servizi segreti. O come quando il 14 settembre 1992, ordina l’omicidio di Calogero Germanà, commissario di Polizia di Mazara del Vallo, che però fortunatamente non va in porto.
Scrive a un tal “Svetonio” il 28 giugno 2006. «Se lo avessi davanti gli direi cosa penso e, dopo di ciò, la mia amicizia con lui finirebbe. Oggi posso dire che se la vede con la sua coscienza, se ne ha, per tutto il danno che ha provocato in modo gratuito e cinico ad amici che non lo meritavano. Chiudo qua che è meglio». Svetonio è Antonino Vaccarino, ex sindaco di Castelvetrano, arruolato dal servizio segreto civile per fare da esca al latitante e tendergli una trappola. La lettera, lo sfogo di Messina Denaro, è contro Bernardo Provenzano al quale erano stati sequestrati centinaia di pizzini il giorno del suo arresto nel covo di Montagna dei Cavalli. «D’altronde non avevo a che fare con una persona inesperta ed ero tranquillo - si legge nella lettera in mano agli inquirenti - anche perché io non ho lettere conservate di alcuno. Quando mi arriva una lettera, anche di familiari, rispondo nel minor tempo possibile e subito brucio quella che mi è arrivata. Tutto mi potevo immaginare, ma non questo menefreghismo da parte di una persona esperta. E forse ci sono le copie di quello che lui diceva a me, ma questa è solo un’ipotesi. Ormai c’è tutto da aspettarsi; siccome usava la carta carbone, può anche darsi che si faceva le copie di quello che scriveva a me e se le conservava, ma ripeto, questa è solo una mia ipotesi poiché ormai mi aspetto di tutto».
E lo sfogo continua, perché il boss è preoccupato, e molto, dell’effetto domino del ritrovamento di una parte dell’archivio dell’anziano boss corleonese: «ci sono persone a me vicine e care che sono nei guai e sono imbestialito, troppo addolorato e dispiaciuto. È una cosa assurda dovuta al menefreghismo di certe persone che non si potevano permettere di comportarsi così». Lo sfogo di Messina Denaro è ancora più comprensibile visto che secondo il pentito Antonino Giuffrè, ex braccio destro di Bernardo Provenzano, Messina Denaro sarebbe diventato il custode del più importante archivio della mafia siciliana, affidatogli, per volontà di Leoluca Bagarella e di Totò Riina, dopo esser stato portato via di tutta fretta dal covo di quest’ultimo (vicenda quella del covo di via Bernini a Palermo che ha scatenato una tempesta sull’Arma dei Carabinieri), in seguito all’arresto di Riina avvenuto il 15 gennaio del 1993.
Un leader, il castelvetranese, molto consapevole di sé: «È anche vero che ancora si sentirà molto parlare di me, ci sono ancora pagine della mia storia che si devono scrivere. Non saranno questi “buoni e integerrimi” della nostra epoca, in preda a fanatismo messianico, che riusciranno a fermare le idee di un uomo come me. Questo è un assioma». Altro che gli sgrammaticati Lo Piccolo, altro che i pizzini macchiati di sugo di cicoria. Denaro “intellettualizza” Cosa nostra, ne fa parte politica, una politica non di schiermaneti, ma di Stato contro Stato, di Italia e Cosa nostra, identità, entrambe, alla pari. Secondo Denaro addirittura in termini giuridici, morali, etici.
Può infastidire un Vittorio Sgarbi qualunque, destinato a svanire dal territorio con la stessa velocità con cui vi è comparso, un uomo del genere, un uomo come Matteo Messina Denaro?
Fonte: Agoravox
Dopo le dichiarazioni recenti di Vittorio Sgarbi ("la mafia non esiste") andiamo a vedere chi "governa" il trapanese e anche la città, Salemi, di cui il critico d’arte più discusso e "discutente" del Paese è diventato recentemente sindaco.
Nell’autunno 2008 per un paio di settimane i giornali sono stati inondati dalle dichiarazioni dell’attuale sindaco di Salemi (comune del Belice nel trapanese) Vittorio Sgarbi. Il critico d’arte, conduttore televisivo, polemista, politico ed ex membro del secondo governo Berlusconi, lontano dalle telecamere e dalle polemiche non è riuscito proprio a starci, doveva assolutamente trovare un modo per rinverdire la propria immagine un po’ appassita.
«Se ci sei batti un colpo - ha dichiarato pubblicamente rivolgendosi a Matteo Messina Denaro - Ovunque tu sia prova a determinare un condizionamento». Per il sindaco di Salemi, il latitante castelvetranese «non ha più la possibilità di influenzare alcun politico di potere». Una sfida? Sgarbi che non se la prende con qualche “tronista” di Mediaset, o con la Mussolini o con il primo ospite che non lo corteggi di “Porta a porta”. Il suo obiettivo è uno dei latitanti più pericolosi, ricercato dalle polizie di mezzo mondo. Per quanto riguarda il “condizionamento”, dopo poche settimane è stato smentito grazie all’arresto e la denuncia a un gruppo di politici, imprenditori e mafiosi nell’alcamese, sempre nel territorio controllato dal boss di Castelvetrano.
Non pago Sgarbi ha proseguito: «La mafia è stata debellata, certamente nella sua possibilità di condizionare il potere economico e politico». Parole che ricordano altri tempi, altri politici. «La mafia non esiste», dichiaravano molti democistiani siciliani (e non solo) durante la prima guerra di mafia e i primi morti e le prime stragi. «La mafia non esiste, esistono i mafiosi», ha tuonato Sgarbi.
Vediamo chi è il mafioso senza mafia (secondo Sgarbi), che governa da anni l’intera provincia di Trapani, Salemi compresa. Il sui soprannomi sono "U Siccu" e “Diabolik”, latitante dal 2 giugno 1993 e condannato all’ergastolo per le stragi del Novantatre. Latitante ma certo non attivo: fra una seduta di playstation e l’altra, conta “piccioli” (è un appassionato di videogiochi come emerge da alcune intercettazioni), traffica armi e droga, fa patti con la massoneria deviata, e quando serve si dedica a qualche scaramuccia con il rivale Domenico Raccuglia. Matteo Messina Denaro è alto circa un metro e settanta, stempiato, capelli castani (all’epoca del mandato di cattura del 1993), ed è strabico all’occhio sinistro. La trasmissione televisiva della Rai "Chi l’ha visto?", nel 2006 ha scoperto che per correggere il suo strabismo, il 6 gennaio del 1994 Matteo Messina Denaro si è recato in Spagna per una visita di controllo nella clinica "Barraquer" di Barcellona, registrandosi come Matteo Messina e dichiarando data e luogo di nascita veri. In precedenza, all’epoca delle stragi del 1993, il boss si sarebbe fatto chiamare Paolo Forte ed ha vissuto in una villa lussuosa di Forte dei Marmi (Lucca) insieme a una donna austriaca.
Un particolare che corrisponderebbe alla sua fame di viveur e play boy internazionale. Recentemente sono state messe in giro voci, mai verificate, che definiscono il boss gravemente malato e in dialisi. Se le voci sono vere, la rete di copertura della sua latitanza deve avere dimensioni impressionanti.
«Matteo Messina Denaro è l’uomo che rappresenta l’anello di congiunzione tra la vecchia e la nuova mafia», dichiarò nel 2006 il capo Squadra Mobile Trapani, Giuseppe Linares. Figlio di Francesco, che è stato per vent’anni capo del mandamento mafioso di Castelvetrano nel trapanese, come ipotizza Massimo Russo, Sostituto Procuratore della D.d.a. di Palermo, Messina Denaro «ha ucciso decine e decine di persone per mano sua e forse un centinaio sono state uccise su suo mandato. Se già non lo è, è sicuramente il candidato numero uno a diventare il capo di Cosa Nostra». Tra i crimini per cui è indagato anche la vicenda del sequestro e dell’omicidio del piccolo Giuseppe Di Matteo, figlio del collaboratore di giustizia Santino, affidato dopo il rapimento da febbraio ad agosto del 1995 proprio dei picciotti di Matteo Messina Denaro, che durante il giorno lo tenevano legato e imbavagliato appeso a un gancio. Sin da giovane dedito allo spaccio di sostanze stupefacenti, Messina Denaro può vantare importanti contatti con i cartelli sudamericani ed è considerato dall’Fbi statunitense uno dei protagonisti nel commercio mondiale della droga. Ed ha interessi anche nell’ambito del traffico di armi e della macellazione clandestina, senza poi parlare della “tradizionale” (per Cosa nostra) attività dell’estrazione di inerti.
Da recenti inchieste emerge anche un suo interesse nella gestione dei rifiuti avviata durante gli ultimi anni di latitanza di Provenzano di cui, in questo settore, era l’esecutore.
Nel novembre 2008 il tribunale di Trapani ha posto sotto sequestro di dodici società, 220 tra palazzine e ville, 133 terreni per un totale di 60 ettari, tutti riconducibili a Giuseppe Grigoli, considerato il re dei supermercati in Sicilia e ritenuto un prestanome di Matteo Messina Denaro. Beni per 700 milioni di euro. Grigoli, 60 anni, arrestato il 20 dicembre 2008 per concorso esterno in associazione mafiosa, controllava 60 esercizi commerciali in Sicilia, in gran parte supermercati della catena Despar, di cui aveva la gestione in esclusiva per le province di Palermo, Trapani e Agrigento. Un uomo importante Grigoli per Cosa nostra. All’arresto di Provenzano, l’11 Aprile 2006, nei pizzini ritrovati nel covo di Corleone figurava spesso proprio il nome dell’imprenditore. In un accordo, mediato proprio da Binnu, tra le Messina Denaro e Giuseppe Falsone, boss agrigentino che si era lamentato con la commissione perché non capiva perché la Despar fosse “esentata” dal pizzo, si era deciso che le holding finanziarie riferibili a Grigoli, la “6Gdo” e la “Grigoli Distribuzione”, avrebbero avuto l’esclusiva del marchio Despar. E, da quanto risulterebbe dall’inchiesta, Cosa nostra “parlava” anche sulle assunzioni, centinaia delle quali su diretta indicazione dei clan.
Matteo Messina Denaro non è il solito boss che litiga con i congiuntivi come Riina, Provenzano o i Lo Piccolo. Non sarà un intellettuale, ma per anni ha frequentato i salotti buoni non solo siciliani. Prima della latitanza era “uno in vista”, che amava farsi notare: auto sportive, vistosi orologi Rolex Daytona e guardaroba firmato Armani o Versace. Apparenza che non gli impedisce di essere assassino feroce come nel caso del mancato attentato a Maurizio Costanzo, o come in due casi del 1992, ovvero uccisione del boss di Alcamo Vincenzo Milazzo, contrario alla strategia stragista adottata in quegli anni da Riina, e lo strangolamento della sua fidanzata, Antonella Bonomo, incinta di 3 mesi e sospettata di avere legami, attraverso parentele, con servizi segreti. O come quando il 14 settembre 1992, ordina l’omicidio di Calogero Germanà, commissario di Polizia di Mazara del Vallo, che però fortunatamente non va in porto.
Scrive a un tal “Svetonio” il 28 giugno 2006. «Se lo avessi davanti gli direi cosa penso e, dopo di ciò, la mia amicizia con lui finirebbe. Oggi posso dire che se la vede con la sua coscienza, se ne ha, per tutto il danno che ha provocato in modo gratuito e cinico ad amici che non lo meritavano. Chiudo qua che è meglio». Svetonio è Antonino Vaccarino, ex sindaco di Castelvetrano, arruolato dal servizio segreto civile per fare da esca al latitante e tendergli una trappola. La lettera, lo sfogo di Messina Denaro, è contro Bernardo Provenzano al quale erano stati sequestrati centinaia di pizzini il giorno del suo arresto nel covo di Montagna dei Cavalli. «D’altronde non avevo a che fare con una persona inesperta ed ero tranquillo - si legge nella lettera in mano agli inquirenti - anche perché io non ho lettere conservate di alcuno. Quando mi arriva una lettera, anche di familiari, rispondo nel minor tempo possibile e subito brucio quella che mi è arrivata. Tutto mi potevo immaginare, ma non questo menefreghismo da parte di una persona esperta. E forse ci sono le copie di quello che lui diceva a me, ma questa è solo un’ipotesi. Ormai c’è tutto da aspettarsi; siccome usava la carta carbone, può anche darsi che si faceva le copie di quello che scriveva a me e se le conservava, ma ripeto, questa è solo una mia ipotesi poiché ormai mi aspetto di tutto».
E lo sfogo continua, perché il boss è preoccupato, e molto, dell’effetto domino del ritrovamento di una parte dell’archivio dell’anziano boss corleonese: «ci sono persone a me vicine e care che sono nei guai e sono imbestialito, troppo addolorato e dispiaciuto. È una cosa assurda dovuta al menefreghismo di certe persone che non si potevano permettere di comportarsi così». Lo sfogo di Messina Denaro è ancora più comprensibile visto che secondo il pentito Antonino Giuffrè, ex braccio destro di Bernardo Provenzano, Messina Denaro sarebbe diventato il custode del più importante archivio della mafia siciliana, affidatogli, per volontà di Leoluca Bagarella e di Totò Riina, dopo esser stato portato via di tutta fretta dal covo di quest’ultimo (vicenda quella del covo di via Bernini a Palermo che ha scatenato una tempesta sull’Arma dei Carabinieri), in seguito all’arresto di Riina avvenuto il 15 gennaio del 1993.
Un leader, il castelvetranese, molto consapevole di sé: «È anche vero che ancora si sentirà molto parlare di me, ci sono ancora pagine della mia storia che si devono scrivere. Non saranno questi “buoni e integerrimi” della nostra epoca, in preda a fanatismo messianico, che riusciranno a fermare le idee di un uomo come me. Questo è un assioma». Altro che gli sgrammaticati Lo Piccolo, altro che i pizzini macchiati di sugo di cicoria. Denaro “intellettualizza” Cosa nostra, ne fa parte politica, una politica non di schiermaneti, ma di Stato contro Stato, di Italia e Cosa nostra, identità, entrambe, alla pari. Secondo Denaro addirittura in termini giuridici, morali, etici.
Può infastidire un Vittorio Sgarbi qualunque, destinato a svanire dal territorio con la stessa velocità con cui vi è comparso, un uomo del genere, un uomo come Matteo Messina Denaro?
Fonte: Agoravox
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