lunedì 15 dicembre 2008
Crisi economica una malattia che resiste alle terapie
La crisi economica continua imperterrita nel suo cammino non rispondendo fin’ora a nessuna delle terapie adottate. Si evidenziano continue contraddizioni e vengono alla luce le incapacità e le assurdità sia nel mondo finanziario che industriale; il prossimo anno si prospetta di lacrime e sangue, speriamo di sbagliarci e di risvegliarci un giorno con un sole radioso come se questo fosse solo un brutto sogno.
“Siamo prossimi ad una nuova fase di dirompente attività della crisi finanziaria. L’avvio di questa nuova eruzione vulcanica è dato dall’inimmaginabile rapidità e profondità della contrazione dell’economia mondiale, che ha investito in pieno anche Paesi ad alta crescita, come India e Cina, e dalla crisi del mercato dei capitali. Quest’ultima verrà ulteriormente acuita dalla decisione del Senato americano di negare gli aiuti alle tre case automobilistiche di Detroit, che però verranno temporaneamente salvate grazie all’intervento del Tesoro. L’accelerazione dei tempi della crisi induce a ritenere che non saranno più rinviabili scelte dolorose che intaccheranno la vita di tutti noi. La nuova miscela esplosiva di questa crisi è data dalla combinazione di una rapida e forte contrazione delle vendite delle imprese industriali e dei ricavi delle società attive nel settore dei servizi, da una parte, e dell’insostenibile aumento del costo del credito o in alcuni casi della completa chiusura dell’accesso al credito di molte società. Questa miscela, che è una peculiarità dello scoppio di qualsiasi bolla del credito, fa sì che imprese ritenute fino a poco tempo fa sane e quindi immuni da eccessivi pericoli vengano risucchiate nel vortice della crisi.
Un esempio serve a chiarire questo processo: la tedesca Daimler, che risente del crollo delle vendite di automobili, ha potuto raccogliere lo scorso primo dicembre 1 miliardo di euro per tre anni solo emettendo obbligazioni con rendimenti di 600 punti base superiori al tasso Libor, ossia ha dovuto pagare 20 volte quello che pagava nel 2005.
Questa esplosione dei costi di finanziamento non riguarda solo le case automobilistiche ed è dovuta non solo alla crescente avversione al rischio degli investitori, ma anche alle garanzie statali offerte dagli Stati europei sulle obbligazioni emesse dalle banche.
Questa grave distorsione dei meccanismi di funzionamento del mercato dei capitali ha conseguenze gravissime: sul mercato dei capitali le banche, anche sull’orlo della bancarotta, hanno costi di rifinanziamento inferiori alle imprese industriali.
Un esempio può essere utile per chiarire questo punto: giovedì 4 dicembre il colosso bancario americano Citigroup, recentemente salvato da Washington e che usufruisce della garanzia statale, ha potuto raccogliere 3,75 miliardi di dollari per tre anni grazie all’emissione di obbligazioni valutate dalle società di rating con la tripla A (che sta ad indicare titoli emessi da società giudicate a minore rischio di fallimento) offrendo un rendimento inferiore al 3%.
Gli interventi statali delle ultime settimane determinano un duplice paradosso: gli aiuti alle banche non solo non hanno riaperto l’accesso delle imprese al credito e hanno contribuito a rendere più elevato il costo del finanziamento delle società industriali sul mercato dei capitali, ma stanno anche cominciando ad erodere la credibilità degli stessi titoli con cui gli Stati si finanziano.
Questo fenomeno si manifesta finora soprattutto in modo indiretto attraverso il tasso di cambio, che colpisce in particolare i Paesi indebitati con l’estero. L’esempio sotto gli occhi di tutti è la caduta del tasso di cambio della lira sterlina, che è dovuto alla crescente sfiducia sul fatto che lo Stato britannico sia in grado di attirare i capitali esteri necessari per finanziare un deficit pubblico esploso a causa degli enormi costi del salvataggio del sistema bancario inglese, del pacchetto di misure di rilancio dell’economia e della contrazione delle entrate fiscali.
In Europa i primi segnali di sfiducia nei titoli di Stato si manifestano anche in modo diretto attraverso l’aumento del differenziale dei rendimenti tra le obbligazioni dello Stato tedesco e quelle di Paesi come Grecia, Portogallo ed Italia. E proprio il timore di una crisi di fiducia nei confronti dei titoli di Stato dei Paesi con debiti pubblici considerevoli ha giustamente spinto il governo tedesco a contrastare le proposte di grandi pacchetti di rilancio economico perorate da Francia e Gran Bretagna.
Tutto ciò fa prevedere che le scelte dolorose non siano più rinviabili. I governi saranno presto costretti a prendere atto che è fallito il tentativo di salvare il sistema bancario. Gli interventi non sono riusciti a ricreare un clima di fiducia (le stesse banche continuano a non prestarsi i soldi tra loro), i buchi nascosti nelle pieghe dei bilanci delle grandi banche continuano ad allargarsi e sono destinati ad aumentare ancor più a causa della crescita delle insolvenze dovuta alla recessione.
Inoltre, nonostante i capitali e le garanzie statali, le banche stanno stringendo l’accesso al credito da parte di imprese e famiglie, e la crisi, che all’inizio era limitata al mercato interbancario, si è estesa investendo il mercato monetario, i finanziamenti a breve delle imprese e ora anche il mercato dei capitali.
Si deve purtroppo constatare il fallimento delle misure finora adottate ed evitare che si distrugga la vera ricchezza di tutti i Paesi, ossia il loro tessuto industriale.
Gli Stati Uniti, che continuano ad essere l’epicentro della crisi, hanno implicitamente già riconosciuto il fallimento delle azioni finora intraprese e hanno deciso di correre il rischio del crollo del dollaro e dell’iperinflazione, stampando in grande quantità dollari per cercare di turare le falle che continuano ad aprirsi. Questa scelta appare logica e forse anche attraente per un Paese fortemente indebitato, che teme la deflazione come un disastro dal quale non riuscirebbe più a risollevarsi.
L’inflazione invece ha il potere di ridurre lo stock del debito di famiglie, imprese, Stato e Paese e quindi anche di risanare il sistema bancario statunitense.
Il sogno dei banchieri americani è proprio un grande incendio inflazionistico che bruci la carta straccia prodotta negli ultimi anni. Il sentiero imboccato dagli Stati Uniti, che oggi sembra in discesa, diventerà però una salita particolarmente ripida non appena asiatici ed arabi si dimostreranno riluttanti a finanziare le enormi spese americane. Il segnale d’allarme verrà quindi dato dal calo del dollaro.
I Paesi europei, invece, che possono vantare conti con l’estero equilibrati e buoni tassi di risparmio delle famiglie, non dovrebbero seguire la politica americana, ma quella indicata dal governo tedesco.
Berlino dice sostanzialmente che la crisi sarà lunga e non bisogna bruciare subito tutte le cartucce, anche perché non è certo che i piani di rilancio producano risultati significativi. Inoltre, sempre secondo il governo tedesco, bisogna difendere la credibilità dei titoli con cui gli Stati si finanziano, evitando di trasformare questa crisi in una devastante crisi monetaria.
Questa prudenza appare condivisibile anche perché nessuno sa se c’è e quale sia la ricetta per uscire dal disastro provocato dall’oligarchia finanziaria di Wall Street e da coloro che in tutto il mondo ne hanno imitato le gesta. ”
Fonte: Articolo di Alfonso Tour direttore del Corriere del Ticino
La crisi economica continua imperterrita nel suo cammino non rispondendo fin’ora a nessuna delle terapie adottate. Si evidenziano continue contraddizioni e vengono alla luce le incapacità e le assurdità sia nel mondo finanziario che industriale; il prossimo anno si prospetta di lacrime e sangue, speriamo di sbagliarci e di risvegliarci un giorno con un sole radioso come se questo fosse solo un brutto sogno.
“Siamo prossimi ad una nuova fase di dirompente attività della crisi finanziaria. L’avvio di questa nuova eruzione vulcanica è dato dall’inimmaginabile rapidità e profondità della contrazione dell’economia mondiale, che ha investito in pieno anche Paesi ad alta crescita, come India e Cina, e dalla crisi del mercato dei capitali. Quest’ultima verrà ulteriormente acuita dalla decisione del Senato americano di negare gli aiuti alle tre case automobilistiche di Detroit, che però verranno temporaneamente salvate grazie all’intervento del Tesoro. L’accelerazione dei tempi della crisi induce a ritenere che non saranno più rinviabili scelte dolorose che intaccheranno la vita di tutti noi. La nuova miscela esplosiva di questa crisi è data dalla combinazione di una rapida e forte contrazione delle vendite delle imprese industriali e dei ricavi delle società attive nel settore dei servizi, da una parte, e dell’insostenibile aumento del costo del credito o in alcuni casi della completa chiusura dell’accesso al credito di molte società. Questa miscela, che è una peculiarità dello scoppio di qualsiasi bolla del credito, fa sì che imprese ritenute fino a poco tempo fa sane e quindi immuni da eccessivi pericoli vengano risucchiate nel vortice della crisi.
Un esempio serve a chiarire questo processo: la tedesca Daimler, che risente del crollo delle vendite di automobili, ha potuto raccogliere lo scorso primo dicembre 1 miliardo di euro per tre anni solo emettendo obbligazioni con rendimenti di 600 punti base superiori al tasso Libor, ossia ha dovuto pagare 20 volte quello che pagava nel 2005.
Questa esplosione dei costi di finanziamento non riguarda solo le case automobilistiche ed è dovuta non solo alla crescente avversione al rischio degli investitori, ma anche alle garanzie statali offerte dagli Stati europei sulle obbligazioni emesse dalle banche.
Questa grave distorsione dei meccanismi di funzionamento del mercato dei capitali ha conseguenze gravissime: sul mercato dei capitali le banche, anche sull’orlo della bancarotta, hanno costi di rifinanziamento inferiori alle imprese industriali.
Un esempio può essere utile per chiarire questo punto: giovedì 4 dicembre il colosso bancario americano Citigroup, recentemente salvato da Washington e che usufruisce della garanzia statale, ha potuto raccogliere 3,75 miliardi di dollari per tre anni grazie all’emissione di obbligazioni valutate dalle società di rating con la tripla A (che sta ad indicare titoli emessi da società giudicate a minore rischio di fallimento) offrendo un rendimento inferiore al 3%.
Gli interventi statali delle ultime settimane determinano un duplice paradosso: gli aiuti alle banche non solo non hanno riaperto l’accesso delle imprese al credito e hanno contribuito a rendere più elevato il costo del finanziamento delle società industriali sul mercato dei capitali, ma stanno anche cominciando ad erodere la credibilità degli stessi titoli con cui gli Stati si finanziano.
Questo fenomeno si manifesta finora soprattutto in modo indiretto attraverso il tasso di cambio, che colpisce in particolare i Paesi indebitati con l’estero. L’esempio sotto gli occhi di tutti è la caduta del tasso di cambio della lira sterlina, che è dovuto alla crescente sfiducia sul fatto che lo Stato britannico sia in grado di attirare i capitali esteri necessari per finanziare un deficit pubblico esploso a causa degli enormi costi del salvataggio del sistema bancario inglese, del pacchetto di misure di rilancio dell’economia e della contrazione delle entrate fiscali.
In Europa i primi segnali di sfiducia nei titoli di Stato si manifestano anche in modo diretto attraverso l’aumento del differenziale dei rendimenti tra le obbligazioni dello Stato tedesco e quelle di Paesi come Grecia, Portogallo ed Italia. E proprio il timore di una crisi di fiducia nei confronti dei titoli di Stato dei Paesi con debiti pubblici considerevoli ha giustamente spinto il governo tedesco a contrastare le proposte di grandi pacchetti di rilancio economico perorate da Francia e Gran Bretagna.
Tutto ciò fa prevedere che le scelte dolorose non siano più rinviabili. I governi saranno presto costretti a prendere atto che è fallito il tentativo di salvare il sistema bancario. Gli interventi non sono riusciti a ricreare un clima di fiducia (le stesse banche continuano a non prestarsi i soldi tra loro), i buchi nascosti nelle pieghe dei bilanci delle grandi banche continuano ad allargarsi e sono destinati ad aumentare ancor più a causa della crescita delle insolvenze dovuta alla recessione.
Inoltre, nonostante i capitali e le garanzie statali, le banche stanno stringendo l’accesso al credito da parte di imprese e famiglie, e la crisi, che all’inizio era limitata al mercato interbancario, si è estesa investendo il mercato monetario, i finanziamenti a breve delle imprese e ora anche il mercato dei capitali.
Si deve purtroppo constatare il fallimento delle misure finora adottate ed evitare che si distrugga la vera ricchezza di tutti i Paesi, ossia il loro tessuto industriale.
Gli Stati Uniti, che continuano ad essere l’epicentro della crisi, hanno implicitamente già riconosciuto il fallimento delle azioni finora intraprese e hanno deciso di correre il rischio del crollo del dollaro e dell’iperinflazione, stampando in grande quantità dollari per cercare di turare le falle che continuano ad aprirsi. Questa scelta appare logica e forse anche attraente per un Paese fortemente indebitato, che teme la deflazione come un disastro dal quale non riuscirebbe più a risollevarsi.
L’inflazione invece ha il potere di ridurre lo stock del debito di famiglie, imprese, Stato e Paese e quindi anche di risanare il sistema bancario statunitense.
Il sogno dei banchieri americani è proprio un grande incendio inflazionistico che bruci la carta straccia prodotta negli ultimi anni. Il sentiero imboccato dagli Stati Uniti, che oggi sembra in discesa, diventerà però una salita particolarmente ripida non appena asiatici ed arabi si dimostreranno riluttanti a finanziare le enormi spese americane. Il segnale d’allarme verrà quindi dato dal calo del dollaro.
I Paesi europei, invece, che possono vantare conti con l’estero equilibrati e buoni tassi di risparmio delle famiglie, non dovrebbero seguire la politica americana, ma quella indicata dal governo tedesco.
Berlino dice sostanzialmente che la crisi sarà lunga e non bisogna bruciare subito tutte le cartucce, anche perché non è certo che i piani di rilancio producano risultati significativi. Inoltre, sempre secondo il governo tedesco, bisogna difendere la credibilità dei titoli con cui gli Stati si finanziano, evitando di trasformare questa crisi in una devastante crisi monetaria.
Questa prudenza appare condivisibile anche perché nessuno sa se c’è e quale sia la ricetta per uscire dal disastro provocato dall’oligarchia finanziaria di Wall Street e da coloro che in tutto il mondo ne hanno imitato le gesta. ”
Fonte: Articolo di Alfonso Tour direttore del Corriere del Ticino
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