martedì 23 dicembre 2008

Betlemme, il vin santo bloccato ai check-point. Per “motivi di sicurezza” i salesiani di Beit Jala non possono più spedirlo nel mondo


Di Francesco Battistini


BETLEMME (Cisgiordania) — «Dove stanno i cartoni per l'Arcivescovo?». Sempre là.
Dietro il cortile, nel magazzino. Ah, eccoli: nemmeno i padri si ricordano più dove li hanno messi. L'indirizzo è pronto da più d'un mese: «H.E. Card. Cormac Murphy-O'Connor. Vaughan House. 46, Francis Street. London». Le solite cento bottiglie. Cremisan bianco e rosso, la riserva speciale Cana e il morbido Spirit, più qualcosa per il dessert. A Westminster sono abituati ai ritardi, ai check-point, alle dogane, ma hanno aspettato il carico con fede e fino all'ultimo. Erano sicuri d'averlo, perché ci tengono: che Natale è, senza il vino di Betlemme? Affranti, i padri salesiani si sono scusati via mail: «Quest' anno niente vino. Non riusciamo a mandarlo né a Westminster, né agli altri. Questo è l'elenco degli ordini: Germania, Romania, Irlanda, parrocchie italiane. È rimasto qui anche quello per Nazareth e Gerusalemme. Celebrare la messa col nostro Cremisan, era una tradizione. Niente da fare. Tutto bloccato ».

Prendete e bevetene tutti. O quasi. L'ultimo muro della Terra Santa è una pila di cartoni bianchi e grigi, al Monastero di Cremisan, colline di Beit Jala. È il vino che i salesiani imbottigliano dal 1885, da quando venne in Palestina un confratello di San Giovanni Bosco e a servire quest'assolata vigna del Signore portò molti musulmani, qualche cristiano, gente di buona lena e di buona volontà. Il vino non è roba da Vissani, ma è il vissuto che conta: comprare il Cremisan di Betlemme, opera pia ad alto tasso di gradazione.

Duecentomila litri l'anno, invecchiamento nel legno di quercia, acquisti online, s'accettano carte di credito. Cinque settimane fa, quando i camion erano carichi per le spedizioni, destinazione Gerusalemme e porto di Haifa, dalla polizia di frontiera israeliana è arrivato lo stop: il vin santo non poteva attraversare i check-point. "Motivi di sicurezza". Proteste sommesse dei padri: inutili. Proteste vibranti del sindaco di Betlemme: ancora più inutili. «Non c'è nessuna ragione di sicurezza — dice Majde Siriani, dell'Autorità palestinese —. Che pericolo rappresenta, il vino dei preti italiani? Dopo la raccolta delle olive, è l'ultimo esempio delle pressioni israeliane per soffocare la nostra economia. Dà fastidio che il Cremisan finisca sugli altari delle chiese, nei ristoranti, ai consolati».

Il fastidio è anche altro. E' dalle due intifade, quando i palestinesi passavano spesso per le proprietà salesiane, che Israele ha aumentato controlli e pressioni. Le polemiche degli anni caldi non sono dimenticate. L'anno scorso, la nuova frattura: il Muro, costruito proprio a ridosso della Casa Don Bosco; una lettera di fermo disappunto, "ci avete chiusi senza neanche consultarci". Non è facile la vita dei cristiani, a Betlemme: 32mila abitanti, quasi uno su due è cristiano, ma prima erano di più e il 90 per cento se n'è andato via. Per la crisi che ha svuotato i negozi di souvenir. Per l'impossibilità d'una vita normale.

Il boom dei pellegrini per Natale non cambia gli umori: gli hotel sono senza un posto libero da mesi, secondo tradizione evangelica, e ci sono 12mila posti di lavoro in più. Ma per chi crede e ci vive, Betlemme non è un presepe. Gl'insediamenti attanagliano la città, i coloni sono decuplicati. Un intero quartiere di cristiano- ortodossi, 120 famiglie, ha ricevuto un ordine di demolizione dalle autorità israeliane, "motivi di sicurezza" anche qui, perché la barriera gli è stata costruita proprio davanti. Il Muro ha mandato a picco molte vite cristiane, entrate nella memoria popolare: il benzinaio sulla via per Hebron che ha perso il 95 per cento dei clienti; i fratelli Halil che si sono trovati il ristorante sbarrato per tre lati, e uno ha ceduto la sua quota ed è partito per l'Honduras; la fabbrica della famiglia Bandak, che s'è trovata spezzata in due, gli uffici nei Territori e i depositi in Israele, e alla fine è fallita... L'esasperazione porta a paradossi: alle ultime elezioni, il 10 per cento dei cristiani ha votato per i duri islamici di Hamas.
«E la notte di Natale — dice Musallah, uno dei due fratelli del ristorante —, se Abu Mazen verrà alla messa, qualcuno proverà a dirglielo: fate qualcosa, perché qui il sangue ribolle».
Come il vino.

Fonte: Corriere della Sera del 22 dicembre 2008
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Di Francesco Battistini


BETLEMME (Cisgiordania) — «Dove stanno i cartoni per l'Arcivescovo?». Sempre là.
Dietro il cortile, nel magazzino. Ah, eccoli: nemmeno i padri si ricordano più dove li hanno messi. L'indirizzo è pronto da più d'un mese: «H.E. Card. Cormac Murphy-O'Connor. Vaughan House. 46, Francis Street. London». Le solite cento bottiglie. Cremisan bianco e rosso, la riserva speciale Cana e il morbido Spirit, più qualcosa per il dessert. A Westminster sono abituati ai ritardi, ai check-point, alle dogane, ma hanno aspettato il carico con fede e fino all'ultimo. Erano sicuri d'averlo, perché ci tengono: che Natale è, senza il vino di Betlemme? Affranti, i padri salesiani si sono scusati via mail: «Quest' anno niente vino. Non riusciamo a mandarlo né a Westminster, né agli altri. Questo è l'elenco degli ordini: Germania, Romania, Irlanda, parrocchie italiane. È rimasto qui anche quello per Nazareth e Gerusalemme. Celebrare la messa col nostro Cremisan, era una tradizione. Niente da fare. Tutto bloccato ».

Prendete e bevetene tutti. O quasi. L'ultimo muro della Terra Santa è una pila di cartoni bianchi e grigi, al Monastero di Cremisan, colline di Beit Jala. È il vino che i salesiani imbottigliano dal 1885, da quando venne in Palestina un confratello di San Giovanni Bosco e a servire quest'assolata vigna del Signore portò molti musulmani, qualche cristiano, gente di buona lena e di buona volontà. Il vino non è roba da Vissani, ma è il vissuto che conta: comprare il Cremisan di Betlemme, opera pia ad alto tasso di gradazione.

Duecentomila litri l'anno, invecchiamento nel legno di quercia, acquisti online, s'accettano carte di credito. Cinque settimane fa, quando i camion erano carichi per le spedizioni, destinazione Gerusalemme e porto di Haifa, dalla polizia di frontiera israeliana è arrivato lo stop: il vin santo non poteva attraversare i check-point. "Motivi di sicurezza". Proteste sommesse dei padri: inutili. Proteste vibranti del sindaco di Betlemme: ancora più inutili. «Non c'è nessuna ragione di sicurezza — dice Majde Siriani, dell'Autorità palestinese —. Che pericolo rappresenta, il vino dei preti italiani? Dopo la raccolta delle olive, è l'ultimo esempio delle pressioni israeliane per soffocare la nostra economia. Dà fastidio che il Cremisan finisca sugli altari delle chiese, nei ristoranti, ai consolati».

Il fastidio è anche altro. E' dalle due intifade, quando i palestinesi passavano spesso per le proprietà salesiane, che Israele ha aumentato controlli e pressioni. Le polemiche degli anni caldi non sono dimenticate. L'anno scorso, la nuova frattura: il Muro, costruito proprio a ridosso della Casa Don Bosco; una lettera di fermo disappunto, "ci avete chiusi senza neanche consultarci". Non è facile la vita dei cristiani, a Betlemme: 32mila abitanti, quasi uno su due è cristiano, ma prima erano di più e il 90 per cento se n'è andato via. Per la crisi che ha svuotato i negozi di souvenir. Per l'impossibilità d'una vita normale.

Il boom dei pellegrini per Natale non cambia gli umori: gli hotel sono senza un posto libero da mesi, secondo tradizione evangelica, e ci sono 12mila posti di lavoro in più. Ma per chi crede e ci vive, Betlemme non è un presepe. Gl'insediamenti attanagliano la città, i coloni sono decuplicati. Un intero quartiere di cristiano- ortodossi, 120 famiglie, ha ricevuto un ordine di demolizione dalle autorità israeliane, "motivi di sicurezza" anche qui, perché la barriera gli è stata costruita proprio davanti. Il Muro ha mandato a picco molte vite cristiane, entrate nella memoria popolare: il benzinaio sulla via per Hebron che ha perso il 95 per cento dei clienti; i fratelli Halil che si sono trovati il ristorante sbarrato per tre lati, e uno ha ceduto la sua quota ed è partito per l'Honduras; la fabbrica della famiglia Bandak, che s'è trovata spezzata in due, gli uffici nei Territori e i depositi in Israele, e alla fine è fallita... L'esasperazione porta a paradossi: alle ultime elezioni, il 10 per cento dei cristiani ha votato per i duri islamici di Hamas.
«E la notte di Natale — dice Musallah, uno dei due fratelli del ristorante —, se Abu Mazen verrà alla messa, qualcuno proverà a dirglielo: fate qualcosa, perché qui il sangue ribolle».
Come il vino.

Fonte: Corriere della Sera del 22 dicembre 2008

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